POLITICA_ (39 articoli)

  • The Woman di A. van den Houten racconta una storia di segregazione in chiave horror

    The Woman di A. van den Houten racconta una storia di segregazione in chiave horror

    Una giovane donna vive nella foresta senza aver mai avuto contatti con la società moderna; catturata da un padre di famiglia dall’aspetto mite verrà inserita nel nucleo familiare…

    In breve. Un film incentrato sulla violenza domestica e la contrapposizione tra la  feroce vitalità del “selvaggio” e l’ipocrisia della società civilizzata. Temi non originalissimi, regia non esaltante (ma non per questo sgradevole) e qualche problema di ritmo: come intreccio, probabilmente più da leggere nel romanzo da cui è tratto che da vedere.

    Una donna allo stato selvaggio, un padre autoritario e maschilista, un figlio adolescente candidato ad emularne i comportamenti, una figlia affetta da turbe depressive, una moglie remissiva e psicologicamente repressa e, per chiudere in bellezza, una bambina ancora non intaccata dall’atmosfera circostante: questi gli ingredienti basilari di “The woman“, la storia di una famiglia che decide di “adottare”, allo scopo di civilizzarla, una giovane selvaggia cresciuta nelle foreste della zona. È da tali presupposti quasi “fiabeschi”, in fondo, che si riesce a sviluppare un horror di discreta qualità, caratterizzato – per quanto il soggetto sia validissimo – da una notevole lentezza nella parte iniziale. Il film finisce per decollare soltanto negli ultimi venti minuti, perdendosi nel resto tra accenni, divagazioni e caratterizzazioni dei personaggi a volte neanche troppo funzionali. Il tutto è tale da rendere desiderabile quasi l’esclusiva visione dell’ultima parte del film, che riserva tra l’altro qualche sorpresa niente male (per quanto poco chiarita nella sua origine). Van den Houten non ama esplicitare i dettagli – come invece aveva fatto Gregory Wilson in The girl next door, con cui “The woman” condivide lo stesso autore del soggetto (lo scrittore horror Jack Ketchum), e preferisce far scorrere la storia come se si trattasse di un film da prima serata.

    Cosa che “The woman” non è, visto che si tratta di una pellicola di explotation che non lesina affatto in termini di violenza fisica e mentale, sempre da parte di individui di sesso maschile sul gentil sesso (le accuse di misoginia, in questo caso, lasciano veramente il tempo che trovano, visto che è proprio quello il focus che il film critica aspramente). Senza gli eccessi del cinema di genere il regista preferisce optare per un formato da serie TV, senza spettacolarizzare alcunchè (ed avrebbe dovuto farlo, in certi casi), senza esagerare nelle efferatezze (caricarle serve spesso a potenziare il potenziale catartico della pellicola) e con il rischio di risultare inferiore alle aspettative; questo nonostante il tema forte e molto “appetibile” per un film dell’orrore. Si sviluppa così una storia ambientata nella provincia americana, nella quale un nucleo familiare dall’aspetto ordinario nasconde degli orribili segreti: roba già vista, già sentita, dispiace ma è così. Per quanto l’intreccio sia comunque originale e di livello – merito esclusivo di Ketchum, quest’ultimo – il film soffre di un‘eccessiva diluizione dei dettagli: il tempo che intercorre tra la cattura della ragazza e la conclusione del tutto sembra interminabile, e questo è dovuto anche ad uno dei “cattivi” meno credibili mai comparsi su uno schermo.

    Per quanto gli sguardi di Sean Bridgers e Belle Cleek (gli insipidi coniugi, non certo i due folli del cult La casa nera) siano pressappoco azzeccati, e le loro caratterizzazioni incalzanti, Chris risulta a mio parere uno degli psicopatici meno adeguati mai visti su uno schermo. Non ci voleva un Hannibal Lecter riveduto e corretto nè un novello Henry (mammagari!): bastava considerare un’interprete più in grado di mostrare la natura ambigua del personaggio, sospeso tra battute di caccia, cene in famiglia e stupri perpetuati come se nulla fosse. Invece l’impeccabile professionista mantiene sempre la medesima espressione anonima, sia che si tratti di compiere efferatezze che quando debba lavorare in ufficio: questo finisce per nuocere alla forma del film e, con tutti i limiti del caso, anche per ridimensionarlo di diverse spanne. Decisamente pià credibile, per fortuna, la performance di Pollyanna McIntosh, eroina totalizzante della storia, molto capace di conferire l’adeguata natura selvaggia al proprio personaggio.

    Tratto dal romanzo omonimo di Jack Ketchum (l’autore del soggetto di The girl next door), “The woman” sembra esaltare l’istinto selvaggio, quello che buona parte della civiltà moderna tenta di reprimere anche a costo di segregarlo, incatenarlo e procurargli del male fisico: quest’ultima, in reazione, finisce per proporre un modello comportamentale – trasmesso di padre in figlio – paradossalmente peggiore di quello della giungla (una contrapposizione, quest’ultima, sviluppata nel celebre “Cannibal holocaust” di Deodato già nel 1979), di quelli che finiscono per mettere tutto orribilmente sullo stesso piano. Non ci sono dubbi, inoltre, che i presupposti da cui parte questa pellicola di Andrew van den Houten – la dinamica della segregazione di un individuo è in parte simile a quella di Paura dei Manetti Bros. – siano quelli di presentare e far discutere tematiche dichiaratamente spinose (patriarcato e sessismo su tutte), e questo – come illustrano casi simili quali A serbian film, Strange circus o Frontiers – risulta essere un autentico campo minato. Potenzialmente si tratta dei lavori a maggior potenziale artistico e qualitativo, ma questo rimane realistico solo quando si riescano a bilanciare forma e contenuti: il film di Gens, ad esempio, aveva mostrato quanto una pellicola in cui si vogliano forzare significati politici – ergo più contenuti che forma – possa risultare dispersiva e parzialmente fuori bersaglio. In questa specifica circostanza si può dire invece che la priorità del regista sia stata, più semplicemente, quella di raccontare una inquietante storia di orrore quotidiano, lasciando sottintese le letture (e scatenando le ire di chi invece si aspettava maggiori focalizzazioni). Questo, se vogliamo, è anche il modo giusto di approcciare quando non si disponga di idee e budget troppo dispendiosi/e: non basta pero’ a fare un buon film (cosa che secondo me “The woman” è solo al 70%), per quanto serva a realizzare un discreto prodotto low-budget da visionare più che altro per curiosità.

    “Cosa ne facciamo di lei? La addestreremo, la renderemo… civile.”

  • Sbatti il mostro in prima pagina: manipolare la realtà grazie ai giornali

    Sbatti il mostro in prima pagina: manipolare la realtà grazie ai giornali

    Se c’è una certezza radicata in qualsiasi film anni 70 è l’espressività del titolo, l’uso di frasi che sanno di sentenza e che esprimono l’essenza della trama. Sbatti il mostro in prima pagina, è proprio uno di questi, sulla falsariga de La classe operaia va in paradiso e Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Siamo nella Milano degli anni di piombo, e un inquietante fatto di cronaca viene innestato con i subbugli e le assemblee politiche del periodo.

    Il giornale è un quotidiano politico di destra (solo omonimo di quello che uscirà due anni dopo, fondato da Indro Montanelli), formalmente una voce pacata e concisa. È quello che sentiamo affermare a Bizanti, giornalista manipolatore del quotidiano interpretato dal camaleontico Gian Maria Volontè.

    Sono gli anni 70, e Milano è in subbuglio, incendiata dagli scontri tra gruppi extraparlamentari: uno di questi colpisce a molotov e sassate la sede del quotidiano. Il gesto viene immediatamente strumentalizzato dalla redazione, che si appella al questore per ottenere quella protezione che, si fa intuire, devono essersi meritati grazie alla propria linea editoriale.

    Nella sceneggiatura concepita da Sergio Donati e  Goffredo Fofi, zeppa di riferimenti a fatti di cronaca realmente avvenuti (come il caso Valpreda, le bombe dei terroristi e la morte di Giangiacomo Feltrinelli), alla base di tutto vi sono le imminenti elezioni che, senza mezzi termini, il direttore ed il principale finanziatore del quotidiano intendono pilotare. A contrapporsi a Bizanti vi sarà un giornalista integro quanto strumentalizzato, che scoprirà le trame ed i reali intenti della redazione: fomentare il populismo e l’odio del lettore verso un nemico comune, per evitare la vittoria delle forze di sinistra alle elezioni. Bizanti, come se non bastasse la sua carica reazionaria e priva di scrupoli, arriva anche ad ispirarsi e a citare Göbbels, il quale “diceva nei suoi diari che le masse sono molto più primitive di quanto possiamo immaginare. La propaganda quindi deve essere essenzialmente semplice, basata sulla tecnica della ripetizione, tecnica peraltro modernissima, mandata avanti dalle agenzie americane. Unique selling proposition: unica proposta di vendita“. In questo senso, Sbatti il mostro in prima pagina è, nonostante l’età, un film profondamente moderno ed ancora molto attuale.

    L’occasione è subito sul piatto: il caso di omicidio e stupro di una ragazza, per cui si trova immediatamente un imputato di comodo, Mario Boni (reso credibile mediante l’infiltrazione degli stessi giornalisti), militante nelle fila della sinistra extraparlamentare.

    “Disperato gesto di un disoccupato. Si brucia vivo padre di cinque figli”. Ora, io non sono Umberto Eco e non voglio farti una lezione di semantica applicata all’informazione, ma mi pare evidente che la parola “disperato” è gonfia di valori polemici. Se poi me lo unisci alla parola “disoccupato”, “disperato disoccupato”, beh, allora ci troviamo di fronte a una vera e propria provocazione. Scrivi:”Drammatico suicidio”. “Drammatico suicidio“, due parole. “Di…” Cos’è, un calabrese, il poveretto?Ecco, “…di un immigrato“. “Immigrato”, una parola sola, che contiene implicitamente il “disoccupato” e il “padre di cinque figli”, ma dà anche un’informazione in più.

    Nella sua interpretazione, Volontè è ancora una volta un convincente quanto terrificante protagonista, abile con le parole quanto subdolo, in grado di impersonificare il potere dell’informazione che oggi, soprattutto grazie ad internet, è esasperato all’ennesima potenza.

    La regia di Bellocchio è quasi quella di uno spy movie, abile a mostrare una società che stava cambiando e che è ricca di informatori in incognite, autorità repressive ed infiltrati. Il tutto intervallato dalle prime pagine del giornale, sempre più reazionarie ed inquisitrici nei confronti del movimento a cui Mario Boni apparteneva.

    L’autorevolezza di qualsiasi giornalista, da sempre in discussione fin dall’epoca dell’uscita del film, viene criticamente messa in discussione come la credibilità delle autorità: da un lato giornalisti caustici e conservatori, dall’altro forze dell’ordine dai metodi decisamente al di sopra della legge. La borghesia dell’epoca viene rappresentata come  un mostro globalizzato dalla parvenza mostruosa, pronto a fare appello al disordine morale ed alla decadenza dei costumi per provare ad imporre una società sempre più autoritaria. Si può, come sempre, essere d’accordo o meno con la sostanza espressa dal film, ma una regia impeccabile e ritmata, che eredita da più generi la propria essenza: spionaggio, giallo, neorealismo e via dicendo.

  • Salò o le 120 giornate di Sodoma

    Salò o le 120 giornate di Sodoma

    Tra le numerose analisi che sono state fatte su questo capolavoro nichilista di Pier Paolo Pasolini da tempo sono convinto che la parola chiave del film sia più Salò, che aiuta storicamente a contestualizzare la violenza rappresentata, che Sodoma (che è un richiamo al limite biblico). Sodoma è una città menzionata nell’Antico Testamento, principalmente nel Libro della Genesi. Insieme a Gomorra e ad altre città, Sodoma è stata distrutta a causa della sua empietà e della sua depravazione morale. Ne potrebbe rappresentare, al più, l’aspetto simbolico, il significato che si è voluto dare alle ben note violenze e depravazioni rappresentate, le quali – vale la pena di ricordarlo nella premessa, a nostro avviso – sono in effetti una rappresentazione degli abusi della gerontocrazia e del patriarcato entrate da mesi nel dibattito pubblico.

    I ragazzi che vengono imprigionati non hanno speranza, fin dall’inizio: viene premesso che si tratta di deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla Terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti. E quella morte assoluta, simbolica e reale, esprime il paradosso che Pasolini stesso ebbe a dire: i giovani non capiranno questo film, quelli d’epoca benintenso, e probabilmente neanche quello di oggi (ci viene da aggiungere).

    Spiegare il significato di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” a un ragazzo di oggi può essere delicato, dato il contenuto estremamente adulto e disturbante del film. Bisogna tener conto della sensibilità e dell’età del ragazzo. Tuttavia, in termini generali, si potrebbe dire che il film di Pasolini affronta temi molto profondi e oscuri riguardanti il potere, la corruzione e la degenerazione umana.

    Il film parla di quattro fascisti che assumono un controllo totale su un gruppo di giovani, utilizzandoli per soddisfare i loro desideri più perversi. Può essere interpretato come una critica alla malvagità e alla brutalità del potere, mostrando come coloro che detengono il controllo assoluto possano abusare in modo orribile delle persone più vulnerabili.

    Inoltre, il film può far riflettere sui concetti di degrado morale, perdita di umanità e sulla capacità delle persone di compiere azioni malvagie quando detengono il potere totale su altri.

    Per spiegare questo film a un ragazzo, potrebbe essere utile enfatizzare l’importanza della responsabilità, della compassione e dell’empatia. Si potrebbe discutere dell’abuso di potere e delle conseguenze dell’oppressione sugli individui, incoraggiando una discussione sull’importanza di promuovere una società basata sul rispetto reciproco e sulla giustizia.

    Tuttavia, a causa della natura estremamente adulta e disturbante del film, è essenziale valutare se sia appropriato o meno per l’età e la maturità del ragazzo in questione. Potrebbe essere più adatto concentrarsi su temi più leggeri e accessibili, in modo da garantire una comprensione appropriata e una discussione che sia adatta al suo livello di età e comprensione.

    Salò o le 120 giornate di Sodoma” è considerato uno dei film più controversi e provocatori nella storia del cinema per la sua rappresentazione cruda e disturbante della violenza e della depravazione umana. Pasolini ha voluto creare uno sguardo critico sulla società e sul potere, ma la natura estrema del film ha portato a una vasta gamma di reazioni, spesso negative, da parte del pubblico e della critica.

    Pier Paolo Pasolini venne assassinato prima dell’uscita di questo film: Pino Pelosi è indicato come responsabile, viene arrestato, ritratta varie volte la propria versione e non fu mai chiarito se l’omicidio sia avvenuto per sua manu o per colpa di altri sconosciuti presenti sul posto.

    Salò

    La città di Salò fu sede del governo della Repubblica Sociale Italiana (RSI), un regime fascista di Adolf Hitler ,durante gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale. La scelta di ambientare il film durante questo periodo storico specifico è intenzionale e significativa: Salò è diventata nota per essere stata la sede del governo fascista dopo che Mussolini venne destituito e arrestato nel 1943. Durante questo periodo, l’Italia era divisa in zone controllate dai nazisti e da altre forze alleate, e la RSI operava come una sorta di enclave fascista.

    Pasolini ha ambientato il suo film in questo contesto storico per mettere in luce l’abuso di potere, la corruzione e la degenerazione morale del regime fascista. L’orrore del film è l’orrore del potere abusante che non deve tenere conto di nulla e di nessuno. La rappresentazione delle perversioni sessuali si ispirano a De Sade, come note, e rendono la sessualità un inferno, un sinonimo di abuso, tanto marcato e spinto all’estremo che diventa difficile guardare una seconda volta Salò dopo averlo vista la prima. Ma non bisognerebbe perdere d’occhio la localizzazione storica: la scelta di usare Salò come sfondo per la storia è simbolica della disgregazione etica e della decadenza umana sottolineate nel film, nonchè del fatto che il fascismo continua a serpeggiare tra di noi.

    Il film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” è stato diretto dal regista italiano Pier Paolo Pasolini ed esce nel 1975, poco dopo la morte del regista. Viene sequestrato quasi subito, è oggetto di infinite polemiche e divieti, fino alla sua riabilitazione e restauro successivo.

    Trama

    Il film è ambientato durante la Repubblica Sociale Italiana del 1944, durante gli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. Quattro potenti fascisti, noti come “Il Presidente”, “Il Magistrato”, “Il Vescovo” e “Il Duca”, organizzano un regime sadico e depravato in una villa isolata, dove rapiscono giovani uomini e donne per soddisfare i loro desideri sessuali e per esercitare il loro totale controllo su di loro. Questi prigionieri sono sottoposti a abusi sessuali, torture psicologiche e fisiche estreme.

    Il film è diviso in quattro parti, ognuna corrispondente a una delle quattro passioni umane principali: la sodomia, il sadismo, il necrofilia e l’omaggio finale alla volontà dei signori.

    Cast principale

    Il cast del film include attori come Paolo Bonacelli, Giorgio Cataldi, Umberto Paolo Quintavalle e Aldo Valletti nei ruoli dei quattro fascisti. Tra gli attori principali ci sono anche Hélène Surgère, Caterina Boratto e Elsa De Giorgi, che interpretano le figure femminili coinvolte nella storia.

    Alcune locandine del film

    Narrazione

    Il film è basato sul romanzo del Marchese de Sade “Le 120 giornate di Sodoma”. Pasolini ha usato il racconto del marchese nel contesto politico dell’Italia fascista, utilizzando la storia per commentare su vari aspetti della società, inclusi il potere, la corruzione, l’abuso e la violenza.

    La pellicola è estremamente controversa per le sue rappresentazioni esplicite e crudeli di violenza sessuale, tortura e umiliazione. È stata oggetto di censura e divieti in molti paesi per lungo tempo a causa della sua natura estremamente spaventosa.

    Produzione

    Il film è stato girato in diverse location in Italia, tra cui una villa nella città di Bologna. La realizzazione è stata caratterizzata da un budget limitato e da condizioni difficili durante la produzione.

  • Videocracy è un simulacro nell’ombra dei canali TV

    Videocracy è un simulacro nell’ombra dei canali TV

    All’interno del suggestivo documentario del 2009 intitolato Videocracy, diretto da Erik Gandini, emerge un’affascinante teoria espressa dal regista del Grande Fratello Fabio Calvi. Secondo Calvi, il flusso ininterrotto di immagini che pervade la televisione di Silvio Berlusconi (1936-2023) rappresenterebbe il riflesso stesso della sua personalità: una sorta di finestra sulla sua mente, sui suoi sogni, sulla sua visione del mondo.

    Jean Baudrillard, uno dei più influenti teorici della postmodernità, ci offre una visione straordinariamente critica e provocatoria del mondo contemporaneo. Secondo Baudrillard, viviamo in una società in cui la realtà stessa è stata sostituita da simulacri, copie senza un originale autentico. La sua teoria mette in discussione il concetto di verità oggettiva e ci invita a considerare il mondo come una serie di rappresentazioni, di simulazioni che mascherano la realtà stessa. Questo specchio mediatico, dove donne dai tratti sinuosi ed estenuanti, ricchezze sfavillanti e opportunità senza fine prendono vita, si è rapidamente trasformato nell’immaginario collettivo degli italiani. Baudrillard sosteneva del resto che nel nostro mondo ipermediatizzato, i media e le immagini giocano un ruolo centrale nella costruzione della nostra percezione della realtà. Attraverso la proliferazione dei mezzi di comunicazione di massa, siamo immersi in un flusso incessante di immagini, informazioni e segni che ci pervadono. Tuttavia queste immagini non ci offrono una rappresentazione accurata della realtà, ma sono piuttosto una distorsione, una finzione che ci viene presentata come realtà (iperrealtà). Secondo Baudrillard, viviamo in una società in cui la simulazione ha preso il sopravvento sulla realtà stessa.

    Per i giovani millennial, che hanno vissuto la loro infanzia immersi in programmi televisivi iconici come Bim Bum Bam e si sono abituati a donne che danzano in costumi succinti mentre cenano durante i game show serali, Berlusconi si è insinuato nella loro coscienza come un’incarnazione dei loro ricordi più cari.  Nel contesto un ipotetico affascinante romanzo cyberpunk, Videocracy ci permette di entrare nel mondo virtuale dei canali televisivi di Berlusconi e nei misteri che nasconde, prima ancora che quest’ultimo avesse una qualsiasi accezione di mondo virtuale dominato da internet. Svelerà le verità nascoste dietro le immagini e i suoni che hanno permeato le nostre vite, e seguiremo il percorso di un giovane ribelle che lotta per riportare la verità e la libertà nella società.

    Ho avuto modo di visionare questo discusso prodotto italo-svedese, del quale ho apprezzato lo stile documentaristico, mentre ho trovato realmente spiazzanti alcune sue parti (da film dell’orrore, in tutti i sensi). Non sono certo dalla parte dell’attuale presidente del consiglio: eppure, senza scadere ina affermazioni che potrebbero apparire qualunquiste, il punto è che guardando questo film si colpisce duramente un modo di pensare per intero (altro…)

  • Mediterraneo di Gabriele Salvatores è il ritratto della disillusione

    Mediterraneo di Gabriele Salvatores è il ritratto della disillusione

    Un gruppo di militari italiani durante la seconda guerra mondiale finisce in un’isola greca, e decide di rimanerci per diversi anni, perdendo ogni contatto con il mondo esterno. Nel frattempo la guerra finisce e il gruppo viene a saperlo solo a cose fatte: non tutti, a quel punto, decideranno di tornare, e chi tornerà non rimarrà pienamente soddisfatto.

    Parlare oggi di un film del genere, uscito nel 1991 e ambientato in piena seconda guerra mondiale – un periodo storico con cui l’Italia non è riuscita a pacificarsi nemmeno oggi, dato che rappresenta una delle memorie storiche più divisive di sempre – è un’operazione tutt’altro che banale. Ne possiamo cedere alla malsana tentazione di considerare Mediterraneo un film romantico o una commedia come tante, a dispetto di alcune locandine che all’epoca forse suggerivano questo, quantomeno a livello iconografico. Certo, l’aspetto relazionale è al centro della trama, e la regia è abile a delinare fin da subito una serie di rapporti e relazioni tra commilitoni puramente umane, in tensione al punto giusto e mai macchiettistiche. Ma il punto del film è la fuga di qualcuno da qualcosa, ed è il tema che attraversa l’intera pellicola.

    Per quanto possa sembrare secondario, in effetti, ciò che fonda Mediterraneo è il saggio Elogio della fuga scritto dal medico e filosofo Henri Laborit, sulle parole del quale si apre il film: “In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare“. È questo il tema portante del film, e la narrazione vuole sembrare puramente metaforica in tal senso, senza peraltro sforare nel didascalico. Il riferimento è a tutti gli aspetti essenziali della vita umana, che vanno dalla ricerca dell’amore al lavoro che siamo costretti a svolgere per sopravvivere, per i quali la fuga – intesa come necessità di cambiamento – è spesso l’unica via d’uscita possibile.

    I soldati protagonisti non sembrano credere pienamente in ciò che fanno, e progressivamente smantellano le proprie certezze alla ricerca della propria identità di fondo: cosa che alcuni non troveranno mai, o continueranno a cercare, mentre il mondo continuerà a girare a modo proprio e nostro malgrado. Sembra anche interessante notare come si tratti dell’ennesimo film ambientato in un isola deserta, un po’ come travolti da un insolito destino in grande, con la comunanza narrativa di protagonisti che prima sembrano essere nel panico all’idea di restare su un’isola che sembra ostile e scollegata dalla civiltà, salvo poi prenderci gusto e cambiare opinione. In un certo senso Mediterraneo è anche un saggio sul cambiamento d’opinione, sulla modifica di una prospettiva solida o cristallizzata, ed è un film che sa affrontare la tematica del cambiamento politico-sociale con una lucidità che pochi altri possono vantare. Molte sequenze sono peraltro potentissime evocativamente: basti citare quella in cui i militari incontrano lo spacciatore di oppio, lasciandosi andare a considerazioni beffarde contro il regime fascista, facendosi rubare le armi poco dopo, per poi arrivare a concludere che il mondo sarebbe migliore se si trovasse dell’oppio al posto degli arsenali da un giorno all’altro. Siamo nel pieno degli anni Novanta, del resto appena un anno dopo l’uscita di Mediterraneo avremmo scoperto Tangentopoli – neanche il tempo di riprendere fiato dal tragico periodo terroristico. Quello di Salvatores non è un film spezzettabile o “memetico” (visionarlo a spezzoni, come proposte da alcune pagine social di cinema, rischia di essere particolarmente inefficace): va visto dall’inizio alla fine, rinviando ogni considerazione all’ultima, tragica eppure bellissima conclusione del film. E se vi state chiedendo come si inseriscono l’amore in tutto questo e subito detto: l’amore è l’emblema del desiderio, per soddisfare il desiderio bisogna bisogna seguire le linee di fuga, o forse quelli che Deleuze e Guattari chiamavano flussi. Ci attiviamo in base a ciò che viviamo, siamo creature interiormente “situazioniste” e siamo in grado di ricostruire l’esistenza anche da un piccolo villaggio abbandonato, emblema di un paradiso terrestre (oggi devastato dal turismo, sembra suggerire quel meraviglioso finale). Sono insomma i flussi del cambiamento e delle nostre esistenze ad essere in gioco: fanno parte anch’essi della politica (e dello sconforto che ingenera periodicamente), e ci costringono a deviare dai percorsi safe proprio perchè, come suggeriva Laborit, la fuga è anche sinonimo di coraggio.

    A questo punto l’analisi del film potrebbe proseguire dal finale, che ci sentiamo liberi di spoilerare dopo tutti questi anni (chiunque non abbia mai visto Mediterraneo dovrebbe farlo prima di continuare a leggere, in teoria): partiamo dalle parole pronunciate dal personaggio interpretato da Diego Abatantuono (il sergente Lo Russo) il quale, ormai vecchio e disilluso, scopriamo aver abbandonato l’Italia in cui desiderava ardentemente rientrare, il tutto perchè “non me l’hanno fatta cambiare“. Quasi come il soldato sopravvissuto di Nato il quattro luglio, Lo Russo diventa l’emblema di ciò che in Italia non cambia, del favoritismo cristallizzato e del conservatorismo sopravvissuto a due guerre. Perchè nulla non può cambiare, sembra suggerire una sconsolata narrazione, e perchè già nel dopoguerra si era deciso di annettere l’Italia ad una esclusiva e auto-referenziale comfort zone. Ed è riavvolgendo a ritroso il film che ci rendiamo conto in maniera limpida del senso della storia, delle scelte che sono state fatte dai soldati italiani finiti per caso su un’isola (quella di Megisti, nella realtà): dopo aver perso i contatti con il centro di comando, e superato il panico iniziale, si adeguano allo stile di vita posto. Non solo: scoprono usi e tradizioni del posto, fanno nuove amicizie, fanno nascere amori e relazioni che li segneranno.

    Ma i loro sforzi sembrano vanificati dal mondo in cui viviamo, da un lato simboleggiata della morte improvvisa inaspettata dell’ex prostituta che si era sposata con uno di loro (come a dire: nulla dura quanto vorremmo), dall’altro con un’Italia che secondo il regista non cambia non cambierà mai, e che Lo Russo – inizialmente ombroso e ligio al dovere, poi progressivamente più “libertario” – rappresenta come metafora vivente a pieno titolo. Si tratta anche una delle interpretazioni di Diego Abatantuono più lontane dagli stereotipi dei personaggi a cui siamo abituati, e che conferisce un’ulteriore nota di merito ad un lavoro che, per inciso, è stato tratto dal romanzo Sagapò di Renzo Biasion.

    Salvatores è un regista attivo e prolifico anche oggi, peraltro. E tutte le volte che diciamo che il cinema italiano è morto, a questo punto, ci facciamo forse trascinare da un’enfasi astratta, continuiamo a predicare nel deserto che il vero cinema è finito e che ormai vanno di moda solo le commedie. Probabilmente solo quest’ultimo aspetto è vero, ma è anche possibile che si tratti di un riflesso di noi stessi, di ciò che noi vogliamo vedere. Vediamo commedie perchè vogliamo farlo! Del resto, le alternative non mancano.

    Nessuno ci impone di vedere commedie romantiche ad ogni costi, eppure sembra che ogni volta nelle discussioni non si parli d’altro, o peggio ancora, non si voglia parlare d’altro. Questo probabilmente era vero anche nel 1991, anno in cui Salvatores finisce di girare Mediterraneo e lo distribuisce nei cinema (verrà trasmesso in TV alla fine dell’anno successivo), per cui facciamo i conti con questo effetto collaterale ma guardiamo la sostanza, che ci suggerisce che Mediterraneo non è “il” capolavoro ma è sicuramente un gran film. E ciò che rende Mediterraneo una piccola gemm è proprio questo suo porsi in maniera antagonista, come critica sostanziale al mondo in cui viviamo, quasi in senso primitivista, sottendendo che la politica non è un’astrazione, fa parte della vita di ognuno di noi, o se preferite: chi non fa politica, alla fine, semplicemente la subisce.

    L’analisi del film sarebbe incompleta se non citassimo la critica sullo stereotipo sugli “italiani, brava gente” che il film sembra (forse inconsciamente) promulgare: i soldati sono infatti insolitamente buoni, non hanno parvenza da militari indottrinati al fascismmo e, anzi, in molte fasi il film strizza l’occhio allo spettatore puntando sull’empatizzazione – rischiando, secondo alcuni, di sminuire la tragica realtà della Seconda Guerra Mondiale. Da qui a parlare di revisionismo probabilmente ce ne passa, anche solo per la scena dell’oppio di cui dicevamo. L’accusa di revisionismo, in sostanza, è quantomeno rivedibile, anche perchè i presupposti del film suggeriscono che i soldati siano stati abbandonati dall’inizio e che credano molto poco in ciò che fanno (Ci stavano mandando in missione a Megisti, un’isola sperduta nell’Egeo. La più piccola, la più lontana. Importanza strategica: zero. Era una missione OC, di osservazione e collegamento. Eravamo stati incaricati di prendere l’isola e segnalare eventuali avvistamenti. Mi avevano dato un gruppo di uomini presi qua e là. Superstiti di battaglie perse, vagabondi di reggimenti sciolti, un plotone di coscritti, come me, che erano sopravvissuti fino a quel momento per puro caso.“). Senza dimenticare che il tenente si augura di non dover sparare in arrivo nell’isola, ciò dovrebbe ricordare che Mediterraneo non è un film propriamente di guerra, ma ricorda più una via di mezzo tra i toni di Train de vie e (viene in mente) Underground di Emir Kusturica (anche in quel caso si tratta di un gruppo di persone che si isolano durante una guerra, e non vengono a sapere per tempo della sua conclusione). Senza contare la figura quasi mitologica di Corrado, disertore dichiarato (Claudio Bisio), che si allontanerà in barca seguendo, anche qui, il flusso del desiderio che lo caratterizza dall’inizio, e del quale non conosceremo nè l’esito del viaggio nè se sia ancora vivo in seguito. Sembra insomma che, come si diceva all’inizio, il film sia più filosofico che materialistico, e che offra un solido patto regista-spettatore da rispettare.

    Non bisogna dimenticare che la direttiva principale ed il nucleo tematico del film è incentrato sulla fuga, sull’allontanamento volontario dalla comfort zone, utilizzando il linguaggio autentico e privo di fronzoli del cinema nostrano, quello più vicino al cinema verità, quello che rappresenta eroi ben lontani dall’ideale e, in modo forse paradossale, umanamente anti-eroici. Le storie dei soldati sono vicine a quelle che ognuno di noi, nella vita, potrebbe essersi trovato a vivere. Ed è questo che rende totalmente di culto questo film di Salvatores, e mai abbastanza visto e lodato.