PASSEGGIATE MENTALI_ (90 articoli)

  • The Lighthouse: alla ricerca del nostro faro psichico

    The Lighthouse: alla ricerca del nostro faro psichico

    1890: due guardiani del faro vivono su una remota isola del New England, prendendosi cura della struttura. L’equilibrio sembra destinato a saltare per via del maltempo e delle provviste che scarseggiano…

    In breve. Affascinante nella forma quanto vagamente logorroico nella sostanza, The lighthouse restituisce una dimensione horror primordiale, claustrofobica, d’essai, a volte illuminante, altre un po’ persa nel proprio linguaggio. Un film non banale e destinato, più che altro, a chi cerchi qualcosa fuori norma.

    Diretto da Robert Eggers (e scritto dal medesimo assieme al fratello Max), The Lighthouse è una sorta di piece teatrale al cinema, in cui ovviamente giganteggia il ruolo di Willem Dafoe (che nel teatro molto ha lavorato). Imponente, insopportabile, sorprendente nella sua mutevolezza, solo di pochissimo più convincente del proprio antagonista. The Lighthouse è senza dubbio un horror fuori norma, il che dovrebbe “far bene” al genere per sua stessa natura, dato che la narrazione procede in modo anti-causale (e forse addirittura senza un vero e proprio riferimento cronologico), evocando una meta-narrativa al passato – si racconta o si rivive ciò che si è già vissuto – un po’ come avveniva a Jack Torrance in Shining, condannato a rivivere un passato dimenticato o forse, per dirla diversamente, come se la foto finale del party prendesse vita e mostrasse lo scrittore al party del 1921. In The Lighthouse sembra quasi mancare, peraltro, una trama vera e propria, nel senso che nella prima mezz’ora sembra esserci ma poi non c’è, va in scena un tipo psicologico, poi un altro, poi ancora un’altro che mette in crisi gli altri due. Un espediente narrativo che farà storcere il naso ad alcuni ma che, ad esempio, chi segue il teatro moderno non dovrebbe aver difficoltà a seguire.

    Non sfigura Robert Pattinson nel ruolo del custode gentile e senza esperienza (salvo ravvedimenti come da copione), costretto a sottostare alle angherie del proprio capo per motivi, per la verità, alquanto criptici. Tanto da appensantire vagamente la visione (un’ora e mezza abbondante, che sembra almeno il doppio), tenuta vivida – se non altro – dal dettaglio della sirena, il personaggio che si frappone furtivamente nelle visioni (o forse nella realtà) del Thomas giovane. “Il terzo incomodo” appare fugacemente come una mancata liberazione, un sogno soffocato alla nascita, impossibile da realizzare a livello anatomico quanto, di fatto, ideale assoluto di bellezza non raggiungibile. Anche in questo confermiamo l’impressione che l’unico modo di parlare del film, oggettivamente difficile da raccontare, sia quello di descrivere micro-scene legate convulsamente tra loro.

    Sulla figura della sirena (Valeriia Karaman) vale la pena spendere qualche altra riga: personaggio ovviamente mitologico e derivante dall’Odissea di Omero, in cui la seduzione del canto veniva usata come arma per procurarsi carne umana (erano metà donne e metà uccelli, almeno all’inizio). La sirena eggersiana è più canonica, ricalca quella di origine medievale: fuoriesce dal mare metà donna e metà pesce. In una scena delirante – forse la migliore del film – appare sullo schermo a mo’ di twist e, vale la pena di notare, dal sapore cronenberghiano, dato che il personaggio si scopre dotato di vagina, sogno represso della pulsione sessuale del Thomas giovane. Sogno che viene espresso da un simbolo preciso: la statuetta con cui l’uomo si masturba pensando alla sua figura in carne ed ossa. D’altro canto il Thomas anziano, dualmente, sembra alludere ad una dimensione purificatrice, assoluta, forse anche erotica nella sommità del faro, dove viene intravisto senza vestiti e dove, presumibilmente, aleggia qualche misteriosa creatura marina. Vale la pena di sottolineare – attenzione allo spoiler successivo – il mood con cui finalmente il protagonista raggiunge la sommità della torre, estasiato dalla visione di quella luce da vicino con una colonna sonora che ricorda molto da vicino quella minacciosa e psichedelica di 2001 Odissea nello spazio. Il faro diventa il nuovo monolite, il barlume dell’evoluzione tecnologica a venire, con tutto quello che ne consegue (?).

    Se nell’horror c’è di mezzo il mare, del resto, la tradizione filmica insegna che è quasi sempre un delirio citazionistico che rischia di rimanere lettera morta: fu il caso di Dagon, ad esempio, e dei suoi incubi sottomarini che mai hanno davvero funzionato, senza contare le miriadi di monster movie con creature marine e citando doverosamente il film più di ogni altro, probabilmente, con qualche assonanza con The Lighthouse (mi riferisco a The Fog). La spiegazione del Male in Carpenter, tuttavia, aveva una spiegazione precisa (dei pirati-spettri, forse ricorderete); quella di Eggers al contrario non racconta di un villain, ma sembra alludere al trionfo del senso di colpa, all’annullamento dell’uomo all’interno di azioni che lui stesso, per primo, non comprende. Azioni irrazionali (e spesso violente) che è spinto ad eseguire da un Grande Altro mistico quanto non raccontabile, quasi come se Dio fosse il cinico sperimentatore di un qualche test di psicologia sociale. Che i due guardiani faranno degenerare il rapporto, del resto, è talmente scontato che non dovrebbe nemmeno essere scritto; ma serve comunque un’ancora di salvezza per il pubblico, gran parte del quale a mio avviso potrebbe non cogliere ogni sfumatura o adagiarsi sull’atteggiamento radical chic per eccellenza (far finta di aver capito). Una chiave di lettura puramente nichilista, a questo punto, con la rappresentazione di un uomo-fantoccio che agisce crudelmente e senza un vero motivo – autentico leitmotiv lovecraftiano, peraltro – sembra davvero l’unica possibilità per non uscire dalla sala maledicendo la scelta del film, provando ad interpretarlo in una qualche chiave.

    Il soggetto del secondo film di Eggers è vagamente tratto da Il faro di E. A. Poe, il mitologico (anche qui) ultimo racconto, incompiuto, dello scrittore, in cui manca il quarto capitolo (c’è solo il titolo, e qualcuno ha anche suggerito la fan theory che fosse quella la conclusione della storia, dato che il narratore è morto, in tutti i sensi): i fratelli Eggers tuttavia producono qualcosa di differente dalla storia in questione, incentrato su una via di mezzo tra il thriller psicologico ed il grottesco puro.

    E se fosse un unico personaggio sadico o auto-lesionista?

    Il sospetto che si possa trattare di una sorta doppelganger psichico del personaggio potrebbe, di fatto, avere un suo perchè, quantomeno a cavallo tra prima e seconda parte dell’opera. Ciò tuttavia non spiega parte del resto, impossibile o quasi da decifrare e complicato dalla presenza dell’elemento narrativo a sorpresa (il terzo guardiano biondo). Se non altro resta impresso il leitmotiv: Thomas Howard desidera raggiungere la sommità del faro, Thomas Wake fa di tutto per impedirglielo. Il punto più oscuro del film consiste, di fatto, nell’apparente mutevolezza dei ruoli dei due (tre?): i due Thomas sembrano infatti interscambiarsi i ruoli in modo psicotico, senza preavviso, da vittima a carnefice e viceversa, accomunati dall’abuso di alcol, da un atteggiamento antisociale e da una personificazione prima attiva, poi passiva, poi di nuovo attiva. A complicare ulteriormente il profilo psicologico dei protagonisti si aggiunge una vaga allusione omoerotica tra i due, ed il fatto che in vari momenti il Thomas giovane si faccia chiamare, contraddicendosi più volte, Ephraim Winslow (gli echi lynchiani in effetti non sono da poco: viene in mente, ad esempio, Mulholland Drive e i suoi personaggi che cambiano aspetto).

    Non sputare il tuo rospo, qualunque esso sia.

    Girato in un sulfureo bianco e nero per scelta registica, The Lighthouse consta di soli due attori (più altre due comparsate che, peraltro, sembrano tutt’altro che irrilevanti). Resta sicuramente un film complesso, lontano dal mainstream, concettuale e filosofico, con echi psicologici di vario livello e spesso, c’è da ribadire, avulso ad una forma realmente chiara. In questi casi, come dire, de gustibus: probabile che la mia lettura non abbia convinto tutti e, mi verrebbe da dire, meglio così. Il film si presta a più interpretazioni e credo che in questi casi non sia nemmeno questo, esattamente, il punto. Oppure, parafrasando Lacan, il problema nemmeno si pone, dato che il linguaggio è ambiguo per natura e la maggior parte del tempo non sapete assolutamente nulla di ciò che dite.

    Robert Eggers ha diretto, oltre a questo film, The Vvitch e The Northman.

    Finale del film: spiegazione (avviso spoiler)

    Il film è noto per la sua trama enigmatica e surreale, che può essere interpretata in diversi modi. Ecco una spiegazione generale del finale del film.

    Il film segue due guardiani di un faro, interpretati da Willem Dafoe e Robert Pattinson, che lavorano su un’isola remota nel New England alla fine del XIX secolo. Mentre sono bloccati sull’isola a causa di una tempesta, i due uomini iniziano a mostrare segni di paranoia, follia e conflitto.

    Alla fine del film, la situazione diventa sempre più caotica e instabile. Thomas Wake (Dafoe) cerca di convincere Ephraim Winslow (Pattinson) a salire in cima al faro, che è stato la sua ossessione per tutto il tempo. Quando Winslow finalmente raggiunge la cima del faro, scopre un’immagine terribile: una visione di una divinità marina o di un mostro tentacolare.

    La sequenza finale è aperta a interpretazioni. Alcuni vedono l’immagine come una manifestazione della follia di Winslow, mentre altri la interpretano come una sorta di giudizio divino o punizione per i peccati dei personaggi. Il film suggerisce che la follia, l’isolamento e la paranoia possono portare a visioni e percezioni distorte della realtà. Infine, Winslow uccide Wake e si impadronisce della luce del faro, ma viene attaccato e ucciso da un gabbiano. La luce del faro, che rappresenta un potere e una conoscenza inaccessibili, sembra essere la causa principale di tutta la discordia e della follia sull’isola.

    In generale, il finale del film è aperto a interpretazioni e lascia molte domande senza risposta. Può essere interpretato come una discesa nella follia, una metafora sulla lotta per il potere e la conoscenza, o una rappresentazione di forze soprannaturali. Il regista Robert Eggers ha intenzionalmente creato un film che sfida lo spettatore a trovare il proprio significato nella storia.

  • L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente: arti marziali all’ennesima potenza, con Bruce Lee alla regia

    L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente: arti marziali all’ennesima potenza, con Bruce Lee alla regia

    Stra-cult che vede l’esordio alla regia di Bruce Lee, il quale non perde occasione per sceneggiare la propria filosofia di vita ed esporla al pubblico: l’attore ha firmato inoltre anche il soggetto del film.

    “Non mi piacciono le rovine, mi ricordano la guerra”

    In breve: uno dei migliori film di arti marziali vecchia-scuola.

    L’irresistibile mimica dell’attore protagonista è accentatuata all’estremo in questo film: i suoi sorrisi sarcastici durante i combattimenti, le sue pose plastiche ed i suoi colpi fulminei di nunchaku non potranno non conquistare il pubblico, quasi a prescindere dalla trama in sè. “L’urlo di Chen…” del resto, non è semplicemente una sequenza di scazzottate a mani nude e bastoni: prima di tutto giustifica la violenza come ribellione all’oppressione (criminale, oltre che razzista) nei confronti dei cinesi in terra straniera (Roma). Successivamente riempie la sceneggiatura di personaggi ben caratterizzati, dei veri e propri “tipi”: l’amico-cameriere bonaccione, la brava ragazza innamorata del protagonista, la macchietta del collaboratore del boss (imbranato e servile, oltre che eterno capro espiatorio) e via dicendo.

    E poi c’è Bruce Lee: imponente, padrone della scena, freddo, deciso e quasi-invincibile. Assolutamente impeccabile nell’arte del kung-fu e, al tempo stesso, dalle caratteristiche debolezze umane che rendono facile l’immedesimazione. Farebbe l’entusiasmo, oltre l’invidia, di un buon Chuck Norris al meglio della forma: ed infatti – guarda caso che non è un caso – si troverà a doverlo fronteggiare nella parte finale del film, nella mitica scena dentro il Colosseo.

    In questa scena, peraltro, inizialmente Lee ha la peggio su Norris: viene inquadrato periodicamente un gatto, che inizia a giocare con una pallina nel momento esatto in cui Tang Lung ribalta la situazione ed inizia a dominare il proprio avversario, proponendo uno stile di combattimento libero dai vincoli estetici tradizionali del kung-fu e distraendolo con la propria imprevedibilità. Alla fine, dopo averlo eliminato, non mancherà di rispetto al nemico onorandone la morte.

    Il film narra la storia di Tang Lung (Chen nell’edizione italiana: ma nulla di strano nel paese in cui l’originale “Snake” Plinskii diventa “Iena”), un giovane artista marziale inviato dallo zio da Hong Kong a Roma per aiutare un ristorante gestito da cinesi con varie difficoltà: essi sono infatti minacciati di continuo da una banda del posto che vorrebbe prendersi la gestione del locale per gestire un enorme traffico di droga. Ci pensarà Chen, come sua consuetudine del resto, a ristabilire l’ordine e la giustizia in una sequenza di scontri che culminano, appunto, con quello contro il campione di arti marziali americano “Colt”, assoldato dai criminali per sconfiggere il fortissimo cinese.

  • Il filo nascosto: trama, curiosità, spiegazione finale

    Il filo nascosto: trama, curiosità, spiegazione finale

    Sinossi “Il filo nascosto”

    Il filo nascosto” (titolo originale: “Phantom Thread”) è un film del 2017 diretto dal regista Paul Thomas Anderson, noto anche per aver diretto film come “Magnolia” e “There Will Be Blood”. “Il filo nascosto” è ambientato nella Londra degli anni ’50 ed è incentrato sulla vita di Reynolds Woodcock, un famoso stilista di moda interpretato da Daniel Day-Lewis, il quale veste l’alta società britannica. La sua vita cambia quando incontra Alma, interpretata da Vicky Krieps, una giovane donna che diventa la sua musa e amante. Il film affronta temi come l’amore, l’ossessione, la creatività e i compromessi nella relazione tra Reynolds e Alma. La trama è intricata e il film è noto per la sua raffinata fotografia, la recitazione di Daniel Day-Lewis e la colonna sonora evocativa composta da Jonny Greenwood.

    Il film è diventato di culto e ha ricevuto elogi dalla critica per la sua maestria tecnica e le prestazioni degli attori. Daniel Day-Lewis è stato particolarmente lodato per la sua interpretazione e ha vinto l’Oscar come Miglior Attore Protagonista per il suo ruolo nel film.

    Ho una strana inquietudine. Ma non riesco a darne un motivo specifico. Come un battito d’ali. (Reynolds)

    Cast Il filo nascosto

    Ecco il cast principale del film “Il filo nascosto” (Phantom Thread):

    1. Daniel Day-Lewis nel ruolo di Reynolds Woodcock
    2. Vicky Krieps nel ruolo di Alma Elson
    3. Lesley Manville nel ruolo di Cyril Woodcock
    4. Camilla Rutherford nel ruolo di Johanna
    5. Gina McKee nel ruolo di Contessa Henrietta Harding
    6. Brian Gleeson nel ruolo di Dr. Robert Hardy
    7. Harriet Sansom Harris nel ruolo di Barbara Rose
    8. Lujza Richter nel ruolo di Princesse Mona Braganza
    9. Julia Davis nel ruolo di Lady Baltimore
    10. Nicholas Mander nel ruolo di Lord Baltimore

    Interpretazione del film

    “Il filo nascosto” è un film che offre molteplici interpretazioni e spunti di riflessione anche a livello filosofico, ne abbiamo trovate parecchie e adesso proveremo ad elencarle con voi. La natura umana e i desideri nascosti: Il film esplora la complessità della natura umana e dei desideri che spesso rimangono nascosti e repressi. I personaggi di Reynolds e Alma mostrano il conflitto interiore tra l’immagine esteriore che proiettano nella società e i loro veri desideri interiori. Il ruolo dell’arte e della creatività: Reynolds Woodcock è un artista, uno stilista di fama mondiale, che esprime la sua creatività attraverso i suoi abiti. La sua dedizione all’arte e alla perfezione rappresenta un tema centrale del film, sollevando domande sulla relazione tra l’artista e la sua arte, e sulla natura dell’ispirazione e della passione creative. Il potere nelle relazioni umane: La dinamica tra Reynolds e Alma illustra le dinamiche di potere all’interno di una relazione. Ciascuno dei personaggi cerca di controllare l’altro, ma in modi diversi. Questo solleva interrogativi sulla libertà individuale, la manipolazione e la vera essenza dell’amore.

    Ci sono infinite superstizioni quando si tratta un abito da sposa. Le giovani che non lo toccano per paura di non sposarsi. Le modelle che hanno paura di sposarsi solo uomini calvi se ne indossano uno… (Reynolds)

    Identità e trasformazione: Il film esplora anche temi di identità e trasformazione personale. I personaggi principali subiscono cambiamenti significativi nel corso della storia, e ciò solleva questioni sulla fluidità dell’identità e sull’accettazione del cambiamento nella vita umana. La fragilità dell’amore: Il film offre una rappresentazione complessa dell’amore e delle relazioni umane. Mostra come l’amore possa essere imprevedibile, fragile e talvolta difficile da comprendere. Ciò apre spazi per considerare la natura dell’amore e la sua stabilità o insicurezza. Estetica e bellezza: La bellezza e l’estetica rivestono un ruolo centrale nel film. I personaggi sono costantemente coinvolti nella creazione di oggetti di bellezza, come gli abiti di Reynolds. Questo solleva domande sulla natura della bellezza, i suoi significati soggettivi e culturali, e il suo ruolo nella vita umana.

    10 cose che non sapevi su Il filo nascosto

    1. Ritiro di Daniel Day-Lewis: Dopo aver interpretato Reynolds Woodcock, Daniel Day-Lewis ha annunciato che “Il filo nascosto” sarebbe stato il suo ultimo film prima del ritiro dalla recitazione. Quindi, questo film segna la sua ultima apparizione sul grande schermo.
    2. Ruolo scritto appositamente: Il regista Paul Thomas Anderson ha scritto la sceneggiatura pensando esclusivamente a Daniel Day-Lewis per il ruolo di Reynolds Woodcock.
    3. Nomination agli Oscar: “Il filo nascosto” ha ricevuto sei nomination agli Oscar, tra cui Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Attrice Protagonista per Vicky Krieps.
    4. Colonna sonora di Jonny Greenwood: La colonna sonora del film è stata composta da Jonny Greenwood, chitarrista del gruppo musicale Radiohead, che ha lavorato anche con Paul Thomas Anderson in precedenza.
    5. Fotografia con pellicola: Il film è stato girato interamente utilizzando pellicola 35mm, anziché le moderne tecnologie digitali, per ottenere un aspetto visivo specifico e un’atmosfera vintage.
    6. Ispirazione dalla vita reale: Paul Thomas Anderson si è ispirato al celebre stilista spagnolo Cristóbal Balenciaga e alla sua dedizione per il suo lavoro, nonché ai designer britannici del periodo degli anni ’50.
    7. Accuratezza storica: Per creare gli abiti del film, la costumista Mark Bridges ha effettivamente usato vecchi modelli e tessuti autentici dell’epoca, cercando di mantenere la massima precisione storica nei dettagli degli abiti indossati dai personaggi.
    8. Set in casa: Gran parte del film è stata girata in una casa georgiana a Fitzroy Square a Londra, che è stata appositamente restaurata e arredata per ricreare l’atmosfera degli anni ’50.
    9. Finali multipli: Originariamente, il film avrebbe dovuto avere un finale diverso, ma il regista e gli attori hanno deciso di girare un’ulteriore scena finale per aggiungere un elemento di sorpresa alla storia.
    10. Curiosità sull’anello: Nel film, Reynolds Woodcock regala ad Alma un anello con un grande diamante. Quell’anello era in realtà una creazione del regista Paul Thomas Anderson e non un oggetto di scena standard. Daniel Day-Lewis ha ammesso che il valore dell’anello era così alto che l’ha tenuto in cassaforte ogni notte durante le riprese.

    Per prepararsi al film, Daniel Day-Lewis ha guardato filmati d’archivio di sfilate di moda degli anni ’40 e ’50, ha studiato stilisti famosi, si è consultato con il curatore della moda e dei tessuti del Victoria and Albert Museum di Londra e ha fatto un apprendistato con Marc Happel, capo del reparto costumi del New York City Ballet. Ha anche imparato a cucire e si è esercitato su sua moglie Rebecca Miller, cercando di ricreare un tubino di Balenciaga ispirato a un’uniforme scolastica.

    Spiegazione del finale Il filo nascosto

    Il finale di “Il filo nascosto” è intenzionalmente aperto e ambiguo, lasciando agli spettatori il compito di trarre le proprie conclusioni sulla natura della relazione tra i personaggi e il significato delle loro azioni. Il regista Paul Thomas Anderson ha voluto creare uno spazio per la riflessione e l’interpretazione individuale, lasciando che il pubblico decida come interpretare la complessa dinamica tra Alma e Reynolds.

    Attenzione: Spoiler a seguire per chi non ha visto il film.

    Nel finale, Alma, la giovane amante di Reynolds Woodcock, decide di assumere un approccio radicale per risolvere i problemi nella loro relazione. Essendo stufa della dominanza di Reynolds e dei suoi atteggiamenti controllanti, Alma decide di avvelenarlo sottilmente con dei funghi che ella stessa ha raccolto, portandolo in uno stato di debolezza e dipendenza da lei. La scena finale mostra Alma e Reynolds seduti insieme a fare colazione. Mentre Reynolds mangia, sembra debole e vulnerabile, accettando passivamente la situazione. La luce si spegne su di loro mentre Reynolds continua a mangiare.

    La spiegazione di questo finale può essere interpretata in diversi modi:

    1. Controllo ribaltato: Alma ha preso il controllo della situazione e della relazione con Reynolds. Potrebbe essere una forma di vendetta per come lui l’ha controllata in passato. Questo finale suggerisce che il potere nella relazione si è ribaltato, con Alma che ora detiene il controllo.
    2. Simbiosi e dipendenza: Alma e Reynolds sembrano intrappolati in una sorta di simbiosi tossica. Entrambi sembrano dipendere l’uno dall’altro, nonostante la loro relazione sia disfunzionale. Il finale può rappresentare la perpetuazione di questo ciclo di dipendenza.
    3. Amore e complicità nella follia: Il finale potrebbe suggerire che Alma e Reynolds, pur essendo coinvolti in un comportamento strano e talvolta dannoso, trovano una forma di amore e complicità nella loro stranezza e follia condivise.
    4. La natura dell’arte e dell’ispirazione: Il finale può essere interpretato anche come una metafora sulla natura dell’arte e dell’ispirazione. Reynolds potrebbe essere rappresentato come un artista che trae ispirazione dalle situazioni estreme e dalle emozioni forti, e la sua relazione con Alma è la sua fonte di ispirazione creativa.
  • Nuda per Satana: il surrealismo fuori dalle righe del 1974

    Nuda per Satana: il surrealismo fuori dalle righe del 1974

    Un medico ed una ragazza, subito dopo un incidente stradale, arrivano in un castello per cercare aiuto: quello che troveranno sarà decisamente surreale.

    In breve. Un horror-erotico dal registro non banale, con la capacità di impressionare giocando sui contrasti; almeno, nelle intenzioni. Alla prova dei fatti è una sublimazione settantiana del “so bad is so good“: un gotico-porno sul tema del doppio, con pretese surrealiste e abbastanza poco riuscito. Gli inserti hardcore gratuiti, l’insistere su dialoghi ostentatamente lirici, le nudità randomizzate smantellano quasi del tutto l’impianto. Per gli amanti del cinema bis può essere comunque una gradevole esperienza.

    Nuda per Satana rimane scolpito nell’immaginario cinefilo soprattutto per la sua storia, che vorrebbe essere un singolare esperimento tra horror ed erotico (alla Jess Franco, per intenderci), e che possiede poco terrore e troppo osè. Tanto per proporre qualcosa di diverso dalla solita elencazione di difetti, partirei proprio dalla parte erotica: quella che fa diventare il film “di cassetta”. Fin dal titolo, del resto, si intuisce di un legame con suggestioni liberatorie ed occulte, e questo viene preannunciato dalle primissime sequenze – nelle quali non si perde occasione per mostrare la Calderoni nuda, una vera e propria costante della pellicola (anche quando sarebbe tutt’altro che necessario).

    Si è molto discusso e sbeffeggiato questo lavoro(cosa che, personalmente, non accetto di fare quasi per nessun film) proprio a cominciare dagli inserti hardcore, che spiazzano il pubblico – e per ragioni tutto sommato lecite, che valsero il divieto ai minori, ovviamente. Del resto si tratta di un erotismo distaccato, da VHS, ostentatamente esibizionista quanto impacciato; in un bizzarro equilibrio tra nudo artistico e porno classico, un insolito sesso esplicito, a più riprese, finisce per padroneggiare le scene senza un vero motivo. Se si volesse cercare un difetto anche qui, dovremmo parlare di gestualità che – il più delle volte – emulano il piacere, e che (soprattutto oggi) appaiono molto poco coinvolgenti. Il sesso nel film è un comparto staccato dal resto, e a poco o nulla serve che venga raffigurato come momento onirico o liberatorio.

    Quello che manca più concretamente in Nuda per Satana, del resto, è un solido tessuto di connessione tra le scene hard ed il resto della storia: storia che, sebbene suggestiva dalle premesse, risulta fastidiosamente spezzettata in più punti, e dal ritmo troppo altalenante. Avrebbe forse funzionato se si fosse basata su una dichiarazione di intenti meno seriosa, come accade ad esempio in tanti film di Russ Mayer o Tinto Brass (per i quali il sesso è spesso delirante, ma è anche giocoso), o al limite nel divertimento citazionista del Rocky Horror Picture Show (che nomino perchè, probabilmente in modo incidentale, Nuda per Satana mi pare ne condivida alcuni snodi narrativi: l’incidente di una coppia, un maggiordomo grottesco, un padrone di casa dal singolare fascino, una ambientazione gotica surreale, vari personaggi disinibiti contrapposti a due protagonisti sessualmente inebetiti dalle convenzioni). Se la parte erotica fosse stata meno ostentata, pertanto, Nuda per Satana avrebbe (forse) meglio fatto da contraltare alla componente orrorifica: ma nemmeno quest’ultima componente funziona del tutto, e così il film ne risente in ogni singolo fotogramma. Spaventarsi in questo film, per intenderci, è piuttosto arduo, e lo è almeno quanto provare a pensarlo in qualche modo eccitante. Peccato, anche perchè – al netto del resto – le ambientazioni e la colonna sonora (un delirio psichedelico a suo modo memorabile) erano particolarmente azzeccate. E, per inciso, su questo genere si è visto molto, ma molto di peggio.

    L’idea dei “doppi”, del resto, e l’ambientazione surreale non erano niente male: siamo negli anni ’70, ed i richiami a combattere le convenzioni e la repressione sessuale erano all’ordine del giorno. Il periodo, le masturbazioni mentali dei critici d’epoca e il pubblico a caccia di erotismo facile li caldeggiavano parecchio, per cui potevano tranquillamente starci. Per dovere di cronaca, quindi, Batzella un onesto tentativo lo fa: riprese sulfuree, qualche inquadratura azzeccata (e molte curiosamente fuori asse), suggestive ambientazioni fumose ed un montaggio/effetti speciali che a volte funzionano … e a volte no (su tutti, i vestiti di Susan che spariscono “al volo” e l’indimenticabile ragno gigante, visibilmente finto).

    Il gioco regge ancora meno la prova del tempo, con un livello narrativo non lineare quanto non troppo curato, per non parlare delle interpretazioni discutibili di quasi tutti i personaggi – unica vera eccezione la protagonista, che sembra l’unica nel giusto feeling con la storia. C’è anche spazio per due doppi personaggi (Dr. William Benson / Peter e Susan Smith / Evelyn), e questo aumenta ulteriormente l’aura mitologica del film. Nonostante tutto, Nuda per Satana rimane un cult da riscoprire: ma questo solo per chi ritenga divertente seguire il delirante “flusso di coscienza” che accompagna la narrazione, quei primi piani inspiegabili, le criptiche riflessioni dei personaggi (che vorrebbero sembrare saggi esistenzialisti, ma non lo sono), e la filosofia misticheggiante che dovrebbe accompagnare il tutto. A suo modo, un film da ricordare.

  • Schramm: l’horror violento e insostenibile di Buttgereit

    Schramm: l’horror violento e insostenibile di Buttgereit

    Retrospettiva autobiografica di Lothar Schramm, un tassista ed insospettabile serial killer che sta morendo: mediante una serie di flashback vediamo la sua vita e le sue allucinazioni ossessive.

    In breve. Un altro tassello di horror del regista Buttgereit, solo apparentemente più “amichevole” nel formato (rispetto ad altre digressioni filosofico-esistenziali di altri film); nonostante questo, il film è una autentica mazzata in quanto a ferocia ed effetti espliciti.

    Appare difficile dare un giudizio certo su questo Schramm, uno dei film più lineari di Buttgereit ma, al tempo stesso, tutt’altro che appetibili nella forma, quasi sempre esplicita e priva di allusioni: la storia di Lothar si prefigura quasi come una favola nera, con un uomo timido e impacciato segretamente innamorato della vicina che fa la prostituta. Utilizzando un sapiente uso della telecamera ed effetti speciali forse un po’ datati ma, al tempo stesso, decisamente realistici e disgustosi, Schramm esplicita la filosofia esistenzialista del regista, tanto da far sembrare ogni nudità corporea corrispondente ad un’ossessione o perversità, capace di travolgere il protagonista in un vortice di orrore. Alla base di tutto, una frustrazione latente ed un senso di forte inadeguatezza per il mondo reale (“Sono seduto in classe, l’insegnante sta camminando su e giù mentre detta qualcosa. Improvvisamente realizzo che sono completamente nudo. Mi guardo intorno molto intimorito che qualcuno possa averlo visto, quindi lentamente, con attenzione faccio scivolare la mia mano fra le mie cosce ma non c’era niente, assolutamente niente“).

    Girato in 16mm per imprimere un maggiore realismo, il formato diventa anche una scusa per mostrare le peggiori efferatezze senza pietà, comprese sequenze di masochismo davvero estreme e difficilmente visibili in qualsiasi altro horror (quella sul pene, soprattutto, visibile in primo piano perchè lo stile di Buttgereit questo impone). Numerosi i riferimenti ad altri serial killer, su tutti il Lipstick Killer (il killer del rossetto) e qualche riferimento a Jeffrey Dahmer, morto un anno dopo l’uscita del film. Se il primo è noto soprattutto per via della sua ossessione feticista per la collezione di oggetti personali delle sue vittime, quasi sempre di sesso femminile, il secondo lo fu per gli atti di particolare ferocia sulle proprie vittime, aspetto da cui Schramm non è certamente esente. Tuttavia è evidente come Buttgereit abbia sviluppato indipendentemente i caratteri del suo personaggio, facendolo vivere di vita propria e di una certa imprevedibilità.

    La patologia da cui è affetto Schramm è un disturbo antisociale di personalità, caratterizzato da un disprezzo patologico per le regole e le leggi della società, dall’incapacità di assumersi responsabilità e dall’indifferenza e dalla mancanza di senso di colpa nei confronti degli altri, pur soffrendo di base un forte senso di solitudine (che potrebbe un po’ essere la chiave di lettura globale del film). Una forma di schizofrenia che affligge il protagonista, quindi, che appare come vittima e carnefice fin dall’inizio: sappiamo che sta per morire, la sua morte sarà completamente accidentale e quello che vediamo è solo un flashback del suo passato, di come è arrivato lì. Al tempo stesso, il secondo vero personaggio della storia, la prostituta vicina di casa – che sembra più compatirlo e sfruttarlo che esserne realmente attratta, fa emergere tutte le sue debolezze in modo esplicito, ed è questo che causa prima la sua reazione in un climax di ferocia (dall’usare una bambola gonfiabile ad auto-mutilarsi) che poi culmina in ennesimi omicidi.

    Schramm in tal senso è un film decisamente esplicito e davvero per stomaci forti, non annoia e non rischia in nessun caso – se non altro – di lasciare indifferente lo spettatore.