FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • E venne il giorno: il virus che induce al suicidio di Shyamalan

    E venne il giorno: il virus che induce al suicidio di Shyamalan

    Un insegnante di scienze, assieme alla moglie e ad una ragazza lottano per sopravvivere a un morbo che sembra causare il suicidio dei contagiati.

    In breve. Piccolo saggio post-apocalittico del 2008 che, rivisto oggi, conferma le perplessità della critica e del pubblico anche all’epoca della sua uscita.

    Guardare E venne il giorno di M. Night Shyamalan nel 2020, in tempi di Covid-19, può assomigliare più ad una mission impossible che ad altro. Se i toni di questi film di 12 anni fa, infatti, sono apertamente catastrofici, e parlano di un’umanità preda di un misterioso “qualcosa” che ne induce il suicidio – Suicide Club era già uscito nel 2002, tutto sommato – il tutto crea un’atmosfera che, a dirla tutta, avremmo già visto in quasi tutti i film del genere. Traffico bloccato, strade semideserte, gente rigorosamente morta (vedo la gente morta, cit.), morente, moribonda o meditabonda, un eroe “della strada” che sembra destinato a salvare il mondo. Il problema di fondo del film, al netto di un’intensità che sul momento non si discute, è che lascia poco o nulla allo spettatore, rendendo la visione di b-movie a tema virus (un genere che rimarrà tabù per molti anni, quasi peggio dei cannibalici, a mio modo di vedere) quasi preferibile e più accattivante, a confronto.

    Parliamo di cose già viste, che hanno certamente costituito parte dello Zeitgeist dal 2000 in poi, passando per vari titoli pop come ad esempio 28 giorni dopo o l’ancora più incisivo The divide. Mettere a paragone le varie produzioni di questo tipo, peraltro, appare come un’impresa ai limiti dell’apocalittico (tanto per dire la ricorsività, a volte), anche perchè si tratta di film prodotti con intenzioni, budget e “spiritualità” quasi sempre diverse l’una dall’altra. Conosciamo bene, a questo punto, la coralità e la coerenza delle opere di Shyamalan in generale: questo film la coglie appieno per quanto, alla prova dei fatti e al netto della spettacolarità visiva (peraltro neanche marcatissima), l’intreccio si riveli un pochino debole.

    Che altro dire? Possiamo anche fare finta che le candidature di “E venne il giorno” ai Razzie Awards 2008 siano state esclusivamente spocchia da intellettuali cinefili, perchè non è questo il punto: piuttosto, come nella tradizione dei film riusciti a metà, E venne il giorno scomoda un apparato universale che fa appello alle più profonde paure dell’uomo (e questo va benissimo), ma poi le risolve in una bolla di sapone (una didascalica rivolta della natura contro l’uomo, sia pur contestualizzando al 2008 e senza aggiungere un dettaglio “di quelli belli”, un si po’ sentì).

    Alla base dell’intreccio vi è la realtà scientifica (e psicologicamente analizzata in più contesti) dell’effetto spettatore, secondo cui maggiore è il numero dei presenti in una situazione di pericolo, minore è la probabilità che qualcuno di loro presterà aiuto alla persona in difficoltà o, peggio ancora, in pericolo di vita. Un principio sul quale si basano, del resto, la quasi totalità dei film di zombi di ogni ordine e grado, anche quelli che non scomodano il pessimismo antropologico alla Romero. Qui, semplicemente, non c’è abbastanza “carica” perchè il tutto possa detonare in un film realmente memorabile. “E venne il giorno”, per la cronaca, è stato girato in soli 44 giorni sfruttando quasi esclusivamente esterni (ben l’85% delle riprese, secondo IMDB).

    Vengono meccanicamente in mente i sempiterni anni 90, in cui uscì il video di “Just” dei Radiohead diretto da Jamie Thraves, caratterizzato da un mood probabilmente simile: la gente si sdraia dopo essersi fatta bisbigliare qualcosa nel video, che il pubblico non vedrà mai. Anche lì un clima “preoccupante”, nessuno sa perchè succeda quello sta accadendo, ma è la realtà. Un po’ come dice la tagline del film, insomma: “It’s Happening“, che poi sarà usata anche da altri film del regista come Signs. Il che è un po’ quello che abbiamo vissuto un po’ tutti in questo 2020, se vogliamo. E che questo film, di fatto, sembra vagamente “miope” nell’immaginare o aver reso in qualche modo suggestivo.

    Affermare che “E venne il giorno” sia stato un gran film, del resto, significherebbe fare un torto e non poter rendere omaggio ai film più sopra le righe del buon Manoj Nelliyattu Shyamalan, la cui migliore dimensione resta quella, a mio modesto avviso, di Unbreakable – Il predestinato, film per molti versi sorprendente rispetto all’epoca in cui uscì.

  • Hereditary: cast, storia, produzione, sinossi, spiegazione finale del film

    Hereditary: cast, storia, produzione, sinossi, spiegazione finale del film

    Ecco una panoramica completa di “Hereditary,” compresi il cast, la storia, la regia, la produzione, lo stile, una sinossi, alcune curiosità e una spiegazione dettagliata del finale del film con un pre-avviso spoiler:

    Cast Principale:

    • Toni Collette nel ruolo di Annie Graham
    • Alex Wolff nel ruolo di Peter Graham
    • Milly Shapiro nel ruolo di Charlie Graham
    • Gabriel Byrne nel ruolo di Steve Graham
    • Ann Dowd nel ruolo di Joan

    Regia e Produzione:

    • “Hereditary” è stato scritto e diretto da Ari Aster, che ha esordito con questo film come regista.
    • Il film è stato prodotto da A24, una casa di produzione conosciuta per il suo impegno nel cinema indipendente e di genere.

    Stile e Atmosfera:

    • “Hereditary” è noto per il suo stile visivo cupo e disturbante, con una forte enfasi sulla tensione e la suspense psicologica.
    • La colonna sonora, composta da Colin Stetson, contribuisce a creare un’atmosfera angosciante e claustrofobica.

    Sinossi: La trama di “Hereditary” ruota attorno alla famiglia Graham, composta da Annie (Toni Collette), suo marito Steve (Gabriel Byrne), il figlio maggiore Peter (Alex Wolff) e la figlia minore Charlie (Milly Shapiro). Dopo la morte della madre di Annie, la famiglia inizia a sperimentare eventi inquietanti e sconvolgenti che rivelano segreti oscuri nella loro storia familiare. Mentre la tensione aumenta e il terrore si fa più intenso, la famiglia viene trascinata in un mondo di tragedie e oscure presenze supernaturali.

    Curiosità:

    • Il film è noto per la sua complessità e simbolismo, con numerosi dettagli nascosti e riferimenti all’interno della storia.
    • Toni Collette ha ricevuto elogi unanimità per la sua interpretazione nel ruolo di Annie, guadagnandosi persino una nomination all’Oscar.
    • Il film è stato descritto da molti critici come una delle opere più spaventose e disturbanti degli ultimi anni.

    Spiegazione del Finale (Spoiler): Attenzione, da qui in poi ci saranno spoiler sul finale del film.

    Alla fine di “Hereditary,” la tensione raggiunge il suo culmine quando la possessione demoniaca si rivela essere un elemento chiave della trama. Annie, alla ricerca della figlia Charlie, scopre il libro delle invocazioni demoniache della madre e si rende conto che sua madre era coinvolta in rituali demoniaci per portare il demone Paimon in un corpo mortale. Joan, un’amichevole vicina di casa che ha fatto amicizia con Annie, si rivela essere parte di un culto che cerca di portare Paimon nel corpo di Peter. Nel climax del film, Peter viene posseduto da Paimon e Joan pronuncia un incantesimo per invocare l’entità nel corpo del ragazzo. Questo porta a una serie di eventi scioccanti, tra cui la decapitazione di Annie da parte di Peter e la successiva coronazione di Peter come ospite di Paimon. Il finale del film è estremamente oscuro e pessimista, poiché Paimon ottiene successo nella sua possessione e la famiglia Graham è completamente distrutta. La sua ossessione per il controllo e la possessione è stata portata a termine, e il culto riesce a ottenere ciò che desiderava.

    Si scopre che la famiglia Graham è stata manipolata da una setta segreta che adora un’entità demoniaca nota come Paimon. Joan, interpretata da Ann Dowd, è uno dei membri chiave di questa setta. Joan ha manipolato Annie per invocare Paimon nel corpo di Peter. Nella sequenza finale, Peter, sotto l’influenza di Paimon, diventa posseduto dalla divinità e decapita la madre Annie. Joan, Peter, e altri membri della setta, si riuniscono in un rito che trasferisce il corpo di Peter a Paimon. Nel momento culminante, Peter viene coronato come l’ospite perfetto per Paimon, e la setta celebra il suo successo. Il finale è ambiguo e inquietante, lasciando molte domande senza risposta e concludendo con l’orrore che si perpetua. La famiglia Graham è stata completamente distrutta dalle forze oscure e dai segreti del passato. La narrazione del film riflette la discesa nella follia e nel terrore, con il destino inesorabile che porta alla tragedia.

  • Il seme della follia: il miglior horror anni 90 di sempre

    Il seme della follia: il miglior horror anni 90 di sempre

    John Trent è un agente senza scrupoli che stana i truffatori per conto di un’assicurazione, il quale viene incaricato di indagare sulla scomparsa dello scrittore horror americano Sutter Cane. L’uomo è convinto che si tratti di una messinscena di marketing per vendere il nuovo libro, ed inizia a documentarsi sull’autore leggendone le opere (dei “polpettoni” senza capo nè coda). Ma la verità sconvolgente sta per rivelarsi agli occhi del protagonista…

    In breve. Uno dei migliori Carpenter di sempre: un film tesissimo, ricco di horror ottantiano, apocalittico e folle. In una parola, perfetto; da vedere almeno una volta nella vita.

    La storia di Sutter Cane – lo scrittore dall’aria inquietante che ha probabilmente ispirato, tra gli altri, Ubaldo Terzani – ha fatto scuola, a suo modo, e rimane come testimonianza di una delle migliori opere mai viste sullo schermo in questo genere. Pur con la sua aria da b-movie – ostentata con orgoglio in una delle sequenze più celebri, quella in cui Trent viene rincorso dentro ad un tunnel da creature puramente “lovecraftiane” – scalza dignitosamente molte alte produzioni di livello del periodo, e si candida a diventare negli anni uno dei film di culto del genere horror apocalittico. In effetti esso assume un senso pienamente compiuto se viene affiancato alle altre due componenti fondamentali dello stesso regista (La cosa e Il signore del male), a formare così una trilogia concettualmente molto ben definita e che richiama la poetica del macabro, ad esempio, espressa da Lucio Fulci con i suoi tre film più famosi (L’aldilà, Paura nella città dei morti viventi e Quella villa accanto al cimitero). Si trova qui, per la cronaca, il Carpenter più apertamente nichilista, che dopo aver espresso chiaramente il suo pensiero politico (Essi vivono) riprende in parte le atmosfere dei precedenti Fuga da Los Angeles / Fuga da New York, e le declina come se “la cosa” stesse per arrivare a fare strage sulla Terra. Il risultato è privo di difetti, incalzante, oscuro e con un finale da brivido.

    Sutter Cane ha scritto un libro con il quale – potenza dello scrivere, vedi anche “La metà oscura” – prenderà possesso del mondo diventandone un diabolico deus ex machina, popolandolo dei mostri orribili dei suoi intrecci da romanzetti pulp. La stessa Hobbs End, il mitico luogo in cui egli si sarebbe rifugiato, non esiste su alcuna cartina geografica: è un semplice luogo immaginario che testimonia a suo modo l’inafferabilità dell’autore, ed il suo porsi al di fuori della storia come una sorta di nuova divinità. Un film sul potere della penna, dunque, e più in generale sui fenomeni di culto legati ad un’opera, da cui (forse con una certa auto-ironia) il grande regista americano decide di mettere in guardia. Abbondanti nel film sono i riferimenti all’amatissimo (da Carpenter) Lovecraft (verso la fine compare per qualche istante il mostro-pesce Dagon, ad esempio) e ad alcuni classici come “L’esorcista” (donna che scende le scale con la testa rovesciata) ed il poliziotto-zombi che sembra uscito fuori direttamente da “Maniac Cop”: Carpenter fa fuori, quindi, la linearità del racconto riempendolo di non sequitur, ma non per questo il film diventa inintellegibile o vuotamente “accademico”. Piuttosto è un film che si segue con passione, e Carpenter si diverte, nel finale, a giocare pure con il meta-cinema (durante l’apocalisse il protagonista va a cinema a vedere “Il seme della follia” di John Carpenter e… impazzisce dopo averlo (ri)visto!). Un tema, quest’ultimo, che deve essere piaciuto talmente tanto al regista da proporlo in veste rinnovata anche nel suo più recente (e notevolissimo) Cigarette Burns.

  • Tesìs: il film che racconta il commercio dei film snuff

    Tesìs: il film che racconta il commercio dei film snuff

    Una studentessa spagnola sta realizzando una tesi sull’estremizzazione della violenza negli audio-visivi: finirà coinvolta in una singolare storia di commercio clandestino di snuff-movie.

    Tesìs è un film molto interessante dal punto di vista narrativo, in cui la presunta faccenda dei filmati amatoriali che mostrano violenza e morte reale di vittime umane diventa un pretesto per proporre una forte critica al voyeurismo dei media e, soprattutto, degli spettatori stessi. Abituati a tonnellate di orrori che i media usano proporre spesso senza filtri e mezzi termini, Amenàbar – qui al suo esordio cinematografico – si rivolge a tutti noi, e riesce a riassumere in due ore tutte le angosce e la morbosa voglia di guardare che accomuna gli esseri umani.

    All’inizio del film, in effetti, è riassunto in pochi minuti quello che è lo spirito principale dell’opera: i passeggeri di un treno, tra i quali la protagonista Angela (Ana Torrent), vengono fatti scendere ad una stazione poichè una persona è appena finita sotto lo stesso. I passeggeri vengono fatti uscire ordinatamente in fila, ma quasi nessuno di loro – protagonista inclusa – puo’ fare a meno di cercare di carpire qualcosa del macabro scenario appena accaduta, provando a sbirciare al di là della zona interdetta.

    E’ questo, in definitiva, l’interrogativo che si vuole porre all’interno di Tesìs: non tanto comprendere se gli snuff siano un fenomeno vero o inventato, quanto chiedersi perchè le persone cerchino questo genere di opere. E la risposta sembra essere legata alla stessa natura umana, insensatamente e pessimisticamente crudele. L’effetto straniante dell’assistere alla “morte in diretta” viene presentato in modo molto ambiguo a partire dalla stessa protagonista: la brava ragazza della porta accanto, per la quale il regista non puo’ fare a meno di sottolineare il suo guardare-non guardare, il suo rifiutare la violenza visuale di quelle crude (e realistiche) immagini ma esserne, al tempo stesso, fortemente attratta. E’ vero che le immagini le serviranno per la ricerca ma, in fondo, sembra quasi che le brami solo per se stessa. Cosa peraltro molto ben delineata dalla sua doppia attrazione sia verso Chema, suo collega misantropo appassionato di cine-gore (ed in possesso di svariati e violentissimi mondo-movie), che verso il “normale”  Bosco Herranz, prototipo di bullo da college.

    Un film davvero notevole, senza mai un calo di tono e che riesce a farsi seguire con grande attenzione, rivelando alla fine uno scenario che vuole un professore della scuola di cinema coinvolto nei fatti: perchè, dice a più riprese, l’unico modo per salvare il cinema è dare al pubblico ciò che vuole (che è anche una celebre affermazione di Joe D’Amato: “Quello che noi abbiamo sempre cercato di fare è stato dare al pubblico quello che il pubblico voleva. Con passione ed entusiasmo. E senza un filo d’ipocrisia“). Il tono del film, comunque, non è mai inquisitore o moralistico, nè tantomeno accondiscendente: lo sguardo della telecamera non mostra mai più che un accenno ai presunti snuff, e il più delle volte limita la sua rappresentazione alle espressioni disgustate – o soddisfatte! – dei protagonisti che, loro malgrado, osservano. Bello anche il finale, geniale nella sua impostazione per un film davvero senza alcun vero difetto.

    Sul mondo degli snuff, del resto, andrebbe aperto un articolo a parte, e a tale riguardo mi sembra interessante l’analisi effettuata da Snopes che li declassa a mera leggenda metropolitana.

  • Hostel 2 gioca con la exploitation anni 70 e con i ricchi che pagano per uccidere

    Hostel 2 gioca con la exploitation anni 70 e con i ricchi che pagano per uccidere

    Seguito di Hostel molto efficace sempre dello stesso regista, offre nuove suggestive e violentissime visioni, oltre a qualche sprazzo di caratterizzazione dei personaggi ed il sano revival da revengemovie anni 70-80.

    Il film si apre con un misterioso individuo che brucia all’interno di un forno documenti, fotografie, vestiti ed oggetti personali dei ragazzi massacrati – evidentemente – nel primo episodio: tiene per sè stesso soltanto il denaro. Nel frattempo i titoli di testa annunciano che si tratta di un film di Eli Roth, con la partecipazione tra gli altri di due volti ben noti del cinema italiano: Luc Merenda ed Edwige Fenech.

    Ci parli un po’ di questo posto in Slovacchia

    E’ un vecchio fabbricato… in cui delle persone molto ricche pagano per uccidere dei ragazzi

    Paxton – sopravvissuto al precedente episodio – sente su di sè una comprensibile apprensione che lo porta ad avere incubi tremendi: nel primo di questi, splendidamente disegnato dal regista, viene interrogato da un inquietante ambasciatore slovacco che prima insinua il suo coinvolgimento nell’omicidio del suo precedente aguzzino, e poi lo pugnala senza pietà. Neanche il tempo di capacitarsi della terribile visione notturna che finisce decapitato dalla Confraternita, al cui capo (Sasha) viene consegnata la testa del ragazzo all’interno di una scatola.

    Seppur mantenendo dinamiche da classico b-movie – le studentesse a caccia di avventure, lo stereotipo di nerd al femminile, il presunto maniaco che esce fuori immancabile dopo qualche minuto, i bravi ragazzi che non sono tali – sviluppa in modo molto originale il tema, inserendo spunti abbastanza imprevedibili. Eli Roth è, da buon seguace di Tarantino, affetto da una inguaribile mania citazionista: tanto per citare le prime tre, inserisce la Fenech – protagonista di gialli ed erotici italiani a cui il film si ispira – nei panni della rassicurante insegnante di belle arti; successivamente delinea il clima di paranoia claustrofobica all’interno del treno (citazione quasi letterale da “L’ultimo treno della notte di Aldo Lado“), e come se non bastasse mostra due avvenenti fanciulle che guardano Pulp Fiction dentro l’ostello. Come sempre, come non mai, l’oggetto dell’orrore è la crudeltà e l’avidità umana: siamo noi, nel nostro lato peggiore e più morboso.

    “Che cosa farai lì dentro?”

    “Non vorresti saperlo”

    Non dimentichiamo che si tratta di un sequel, ad ogni modo: la tensione impalpabile del primo episodio è in parte smarrita, visto che il pubblico sa già dove si andrà a parare anche se, a conti fatti, è una buona scusa per ricalcare ed approfondire con una certa verve sarcastica quello che è il messaggio del film. I ragazzi dell’ostello sono venduti letteralmente all’asta, mentre i ricchi di tutto il mondo giocano al rialzo (chi col palmare, chi con il PC, chi con un cellulare) mediante una sorta di mercato online della morte che potrebbe ricollegarsi alla presunta dinamica degli snuff-movie.

    La Confraternita prevede che i ricchi killer vengano tatuati: ma “un tatuaggio non è facile da spiegare” afferma candidamente il padre di famiglia Stuart (apoteosi di humor nero: evidentemente pagare per uccidere qualcuno è più semplice!). Del resto, come avrebbe giustificato l’orrido disegno sulla pelle agli occhi della moglie che, a suo dire, “non ha una mente molto elastica“?

    Il personaggio contraddittorio di Stuart, peraltro, è quello che da’ una certa svolta ad “Hostel 2” rispetto al suo predecessore: c’è tempo per accorgersi che l’uomo sta visibilmente male, che non sa affrontare i propri problemi e che sembra praticamente un perfetto incapace, impedito anche nel torturare la povera Beth. Il pubblico non fa in tempo a tentare di identificarsi in lui che, all’improvviso, rivela la propria anima nera come la pece: esattamente il contrario accade con il suo amico Todd, odioso ed arrogante fin dall’inizio, ma tutto il male fisico che riuscirà ad infliggere sarà dato praticamente per caso, fino alla sua morte.

    (Beth rivolta ad Axelle) “Allora tu e Sasha state…”

    “Oh no, santo cielo, potrebbe essere mio padre!”

    Nulla è casuale in questo film, tutto è sadicamente e millimetricamente misurato: come la suggestiva scena della novella contessa Bathory – che uccide a colpi di falce e fa sanguinarsi addosso, stando completamente nuda, la povera Lorna. Oppure l’immancabile baby-gang  castigata ferocemente da Sasha con un colpo in testa per aver osato tentare di aggredire una delle preziose ragazze, pagate ognuna decina di migliaia di euro. Del resto il clou del film sta proprio nel modo in cui Beth si trova a salvarsi: dopo aver sedotto il proprio aggressore, esalta la tradizione del revenge-movie, prima trafiggendo un orecchio del suo carnefice e poi, neanche a dirlo, castrandolo con una cesoia. Guarda caso anche qui la donna bella e aggressiva è un ulteriore stereotipo preso in prestito da Quentin Tarantino, ma saranno esclusivamente le sue doti monetarie ad avere la meglio e a concederle di non violare comunque il contratto: il gioco prevede comunque la morte, per cui Stuart – con il quale sembrava quasi avere feeling, all’inizio – dovrà semplicemente morire dissanguato. Nessuna speranza e solo morte che ritorna, dunque, con la macabra decapitazione finale di Axelle da parte di Beth, e la cui testa diventerà un vero e proprio pallone da calcio per la baby-gang (collegamento, forse inconscio, con i tifosi che infastidivano le ragazze in treno all’inizio).

    A mio avviso se non fosse per la poco incisiva “storia” tra la saggia e cinica Beth ed il frustrato Stuart, staremmo davvero a parlare di un incredibile capolavoro di Roth, che comunque merita di essere visto ed è, senza dubbio, per pubblico dallo stomaco d’acciaio.