FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Non aprite quella porta – Parte 2: quando Hooper reinventa Leatherface

    Non aprite quella porta – Parte 2: quando Hooper reinventa Leatherface

    Sono passati molti anni dagli eventi del primo film, ma la famiglia di Leatherface sembra essere ancora in circolazione: ad affrontarli saranno la DJ di una radio locale ed uno sceriffo in cerca di vendette personali.

    In breve. Piaccia o meno è il seguito (ufficiale) di Non aprite quella porta: in breve, poco o nulla è rimasto dell’originale, e ciò che era orrore da documentario diventa horror grindhouse. Difficile dare un giudizio certo, anche se fan e critica propendono per la stroncatura.

    Il caso è più unico che raro: un regista di uno dei più famosi film del genere, amato da generazioni e difficilmente criticabile sotto qualsiasi punto di vista, smantella pezzo per pezzo la sua storia e la prosegue assumendosi, nel farlo, il rischio di rendere la saga un polpettone gore anonimo e incolore. A ben vedere (e a confronti di tanti altri squallidi epigoni) questo film ha anche dei pregi, che certo usciranno fuori soltanto negli ultimi tre quarti d’ora – momento in cui la storia riprende ritmo e si ravviva – e che sono tipici di un b-movie pieno di splatter, con qualche buon momento di tensione e tutto sommato gradevole.

    Criticare Non aprite quella porta – Parte 2 fa parte dello “sport nazionale” degli amanti dell’horror per una varietà di motivi: alla base c’è un problema di mancata continuity. L’introduzione fa infatti presagire un seguito sulla totale falsariga del capolavoro precedente, ma non è così: Hooper non ha mai amato ripetersi, ed opta per un cambio totale di registro. Molti aspetti del film, che risaltano più nella seconda parte del film che nell’interminabile prima, sembrano voler ricalcare la violenza estetizzante ed i deliri quasi cartoonistici di film come La casa o L’armata delle tenebre. E in effetti è facile pensare ai due protagonisti (sceriffo e DJ) come ad un calco di Ash ne La casa 2, se non fosse che questo film è uscito prima di quest’ultimo (e comunque dopo La casa, da cui potrebbe aver preso spunto). È chiaro, a questo punto, che pur non trattandosi di un capolavoro (difficilmente se ne trovano, nell’ambito slasher-splatter in assoluto) molta della fama negativa di Non aprite quella porta – Parte 2 è quantomeno ingiustificata.

    Il film soffre comunque per una sceneggiatura non troppo curata – per dire, si capiscono più i mugugni di Leatherface che certe frasi pronunciate da Drayton Sawyer – c’è qualche doppio senso che probabilmente si perde nella traduzione, c’è la scelta (opinabilissima, della serie come vi viene in mente) di chiamare Leatherface “Faccia di pelle” nel doppiaggio italiano – che sarebbe come chiamare Incubo Freddy Krueger o Michele Miei Michael Myers – la stessa scelta della protagonista convince come scream queen più alla fine che sulle prime. Nulla da dire sul ruolo assegnato a Dannis Hopper, per inciso, semplicemente perfetto – e calato alla grande – nella parte del “giustiziere”.

    Per il resto, è un horror splatter non eccelso ma onesto, che richiede la conoscenza del film precedente dato che cerca di allestire evocazioni più o meno sensate della stessa (la cena col nonno ultra-centenario, i cannibali, la consueta porta scorrevole che Leatherface cerca di sfondare, le seghe elettriche che saltano fuori come funghi), senza cercare di ricopiare un capolavoro, e provando a dare un seguito sensato all’incubo della famiglia cannibale. Il film prosegue la storia di Leatherface e del fratello-padre Drayton Sawyer, “il Cuoco” del primo episodio, che ha trovato lavoro come cuoco di una griglieria ambulante, e non è difficile immaginare a chi appartenga la carne cucinata. Nel frattempo la DJ di una radio locale entra casualmente in contatto coi maniaci, e si candida da subito a scream queen della pellicola. La scelta di utilizzare un registro da horror comico / black comedy è criticabile, in effetti, giusto nella soppressione di quel feeling sinistro e documentaristico che caratterizzava Non aprite quella porta. A conti fatti, Hooper sembra anche voler ironizzare sul fenomeno di culto creatosi dall’uscita del film.

    Il regista, abile come pochi a costruire storie terrorizzanti e ad indagare i meandri dell’incubo e dell’irrazionale (come prova dovrebbero bastare la visione 1) dell’originale del 1974, 2) di Quel motel vicino alla palude e 3) dell’ottimo Il tunnel dell’orrore), sembra meno a proprio agio con la black comedy, anche perchè molte delle cose che dovrebbero far sorridere non si capiscono, o passano indifferenti. C’è il lato positivo di una storia semplice ma ben diretta, di villain grotteschi e almeno in parte azzeccati, soprattutto in un crescendo sul finale capace di omaggiare, negli ultimi fotogrammi addirittura il controverso Le colline hanno gli occhi.

    Non è, insomma – come alcuni sono portati a pensare – come se Deodato avesse auto-parodiato il suo Cannibal Holocaust, o come se Wes Craven avesse girato una versione più light di Nightmare facendo passare l’idea rassicurante di dire al pubblico “si scherza, è un film ed il sangue era finto“. Forse Hooper fa in parte questo “gioco”, ma a metà storia sembra ripensarci e da’ all’intreccio la sterzata decisiva: del resto, stiamo pur sempre della storia di uno sceriffo che vuole vendicare il fratello ucciso dalla famiglia di Leatherface (non c’è novità), e che nel farlo coinvolge la DJ di una radio locale che “guarda caso” si troverà a registrare la telefonata di una delle vittime (c’è un po’ di prevedibilità).

    Prendere o lasciare: se volete trascorrere un’ora e mezza di horror ottantiano “leggero”, o scoprire da dove abbia preso ispirazione un film come La casa dei 1000 corpi (da qui Rob Zombi ha preso, direi, a piene mani) Non aprite quella porta – Parte 2 potrebbe fare al caso vostro. Il resto del lavoro di Hooper mi sembra soggetto a valutazioni abbastanza soggettive per cui, visione alla mano – e trattandosi di intrattenimento con poche o nessuna pretesa – ognuno potrà farsi l’idea che preferisce. Rimane la nota stilistica sullo stile recitativo da grindhouse puro, sulle ambientazioni texane e sulle efferatezze mostrate come modello per i posteri.

    Nota di merito di cui si è parlato poco, infine, la colonna sonora del film, che è un discreto mix di gothic e rock new wave che riesce a non passare inosservato.

  • Ballata macabra: l’horror di Curtis con Bette Davis

    Ballata macabra: l’horror di Curtis con Bette Davis

    Una famiglia decide di spostarsi in una vecchia villa per le vacanze estive, a prezzo davvero stracciato: un edificio tanto splendido ed antico da sembrare vivo.

    In breve. Un cult settantiano che ha fatto scuola a livello di horror psicologico a tinte sovrannaturali, influenzando una varietà incredibile di autori e registi (da King ad Argento). Una storia semplice a tinte fosche, girata con pochi mezzi ed ottime interpretazioni.

    Girato nell’estate del 1975 in soli 30 giorni, e senza alcun set predisposto, ovvero sfruttando la struttura naturale di una vecchia villa, Ballata macabra è uno dei più famosi horror sovrannaturali del periodo, e anche uno dei più efficaci dal punto di vista del linguaggio e dei contenuti. Certo il titolo originale Burnt offerings (offerte votive, bruciate su un altare per motivi religiosi) era forse più suggestivo, ed avrebbe mantenuto un maggiore impatto mistico se lasciato in lingua originale; cosa che non è stata fatta, sfortunatamente, relegando questo film (come suo forse unico sostanziale difetto) nel limbo dei titoli tradotti un po’ arbitrariamente, e che sarebbero dovuti (parere personale, s’intende) rimanere distribuiti in inglese. Questo per la stessa ragione per cui nessuno si sarebbe sognato – e per fortuna nessuno l’ha fatto – di tradurre in italiano l’Alien di Ridley Scott o lo Shining di Kubrick/King.

    La storia di Ballata macabra (forse un eco della “danza macabra” tipica dell’arte medievale, caratterizzata da una danza tra uomini e scheletri) è tratta dal romanzo di Robert Marasco con lo stesso nome, e a quanto pare si sviluppa in maniera piuttosto fedele allo stile dello stesso. Tutti ricorderanno la protagonista Karen Black (voluta da Zombi nel suo recente La casa dei 1000 corpi), qualcuno in meno forse avrà presente il regista Curtis, che non è nuovo all’horror ed aveva diretto qualche anno prima Trilogia del terrore.

    Burnt offerings contiene una forte carica da horror psicologico a tinte sovrannaturali, ed è davvero infinita la lista di lavori analoghi che sono stati girati anche in seguito (The house of the devil). L’idea di una casa maledetta che influenzi la vita delle persone (in questo caso arrivando a trarre nutrimento dalle stesse fino a farle appassire) è declinata in maniera efficace, senza scomodare effetti speciali memorabili bensì puntando esclusivamente sulle duplici interpretazioni dei personaggi: una prima “versione” ordinaria e piccolo-borghese, una seconda decisamente più imprevedibile e vittima di rispettive ossessioni (la piscina, la casa, l’allucinazione del becchino dal sorriso inquietante). Se volessimo trovare un parallelo ancora più sostanziale, escludendo titoli troppo scontati, potremmo citare Un Natale rosso sangue; il film di Bob Clark condivide con questo intreccio l’idea di un “qualcosa” di invisibile ed immortale nascosto in una soffitta, il quale possiede e controlla a piacimento una casa e che, come da tradizione lovecraftiana, non è mai morta e non potrà morire. In quest’ottica, del resto, il finale del film si prefigura come uno dei più riusciti ed intensi mai realizzati nel periodo (e si scorgono vari echi dei racconti dello scrittore di Providence); attenzione alla versione che visionate, peraltro, perchè ne esiste una che è stata privata dell’unica sequenza esplicita di tutto il film (l’uomo che cade sulla macchina). Il tutto rende giustizia ad una storia decisamente scorrevole, che non si perde mai in lungaggini – questo nonostante la durata non convenzionale di quasi due ore.

    Un film che possiede più di un richiamo a Shining (la famiglia in una villa isolata, le influenze misteriose della stessa sulle relazioni tra i personaggi, il dramma che esplode inesorabile, gli orrori della casa che si specchiano nelle relazioni contraddittorie e labili tra i personaggi), tanto da essere uno degli horror preferiti da Stephen King che – anche nel fare un confronto anche approssimativo – ha attinto a piene mani da questo lavoro di Marasco (e dalla rispettive versione cinematografica di Curtis, probabilmente) per scrivere quello che è considerato, ad oggi, uno dei suoi romanzi più famosi.

    Chi si nasconde in quella casa? Chi è davvero la signora che la moglie del protagonista dovrà accudire? Perchè il contatto con la piscina e con i letti della casa sembra rendere i personaggi aggressivi gli uni contro gli altri, oltre a provocare loro una sorta di inspiegabile sonnolenza o narcolessia? Sono domande a cui lo spettatore smaliziato saprà trovare risposta immediata e, ammesso che sappia accettare ancora oggi il celebre “patto” di farsi incantare da ciò che il regista gli proporrà, riuscirà a godere della visione di uno dei migliori horror sovrannaturali anni ’70.

  • La fortezza: il film più mitologico (ed incompiuto) di Michael Mann

    La fortezza: il film più mitologico (ed incompiuto) di Michael Mann

    1941: un gruppo di nazisti viene inviato a sorvegliare una misteriosa fortezza, in una sperduta località rumena; alle prese con una forza crudele e sinistra, dovranno ingaggiare un professore ebreo per affrontarla.

    In breve. L’unico horror puro di Mann, abbastanza difficile da reperire e orrendamente mutilato rispetto alla director’s cut (che durava circa 3 ore rispetto ai 90′ della versione che è circolata). Un cult di cui il regista non sembra avere bei ricordi, anche perchè massacrato da buona parte della critica e del pubblico – non per demeriti propri, c’è da dire, ma per le circostanze che lo accompagnarono. Ad ogni modo, alcuni sprazzi sono notevoli e l’idea di fondo straordinaria; da vedere filologicamente.

    Uscito al cinema e pubblicato in seguito solo in LaserDisc e VHS, non esisteva in DVD fino allo scorso anno (per un mix di problemi legati, peraltro, ai diritti non disponibili sulla colonna sonora, notevolissimo lavoro dei Tangerine Dream), in Italia circola esclusivamente in una versione TV di qualità media, anche se in seguito ho trovato su Amazon.com sia il DVD che la versione in streaming, ma sono in inglese. Abbastanza sicuro, del resto, che il DVD disponibile sia Region 1 – per cui è visibile solo su lettori canadesi e USA – e che entrambe le versioni di cui sopra sono quelle di circa un’ora e mezza. Sì, perchè esiste un ulteriore mistero sulla versione uncut o director’s cut de La fortezza: una versione di 210 minuti (stando alla Wikipedia inglese, quantomeno) che andò male durante le anteprime e venne ridotta a quella che conosciamo dalla Paramount, ovviamente contro il parere di Mann (che a quanto pare bloccò la pubblicazione della versione completa in DVD). Questo comporta che nel film siano presenti dei “buchi” e dei salti temporali considerevoli, senza contare che alcuni cerchi non si chiudono narrativamente, lasciando il film in un senso di sospensione tutt’altro che affascinante. Film che, nelle intenzioni di Mann, avrebbe dovuto essere un mix tra una fiaba per adulti ed una caratterizzazione realistica dei dialoghi e dei personaggi, giocando sui toni dell’horror più simbolista e introspettivo (“A fairy story for grown-ups. Fairy tales have the power of dreams, from the outside. I decided to stylize the art direction and photography extensively, but use realistic characterization and dialogue.“)

    What are you? Where do you come from?

    Where am I from? I am… from YOU!

    Parlare de “La fortezza” di Michael Mann, pertanto, deve per forza passare per la conoscenza di queste micro-storie smarrite nel nulla; se l’intenzione del regista era di proporre un horror che simboleggiasse il fascino delle ideologie fasciste sulle persone, il risultato finale non sembra purtroppo essere all’altezza delle aspettative, anche per via di uno stile ibrido tra i tempi lenti da film d’autore (molte riprese si soffermano sui panorami molto più di quanto ci si aspetterebbe, ad esempio, e c’è un’attenzione esasperante sul parlato) e l’immediatezza dell’horror fumettaro (il Golem protagonista venne ideato dal fumettista Enki Bilal, e a vederlo oggi non sfigurerebbe in un cine-fumetto di quelli più popolari). Un ibrido già atipico di suo, certo non aiutato da una produzione travagliata e dal fatto che, soprattutto, gli effetti speciali siano monchi: Wally Veevers, supervisore agli effetti speciali, morì in post-produzione (e a lui è dedicato il film), senza lasciare alcuna indicazione su un’enorme quantità di girato. Probabile, quindi, che l’uncut non vedrà mai la luce ufficialmente per questo motivo: il regista si ritrovò con una grossa quantità di video grezzo di cui non sapeva cosa fare, per cui fu costretto a riadattare il finale per quello che poteva.

    Se i toni sono quelli ideali del genere, equilibrati e al tempo stesso follemente creativi di tanti film di culto del periodo (penso a Predator e, almeno in parte, Hellraiser), l’opera è quindi considerata sostanzialmente apocrifa: è chiaro che manca qualcosa al film. Per Mann fu un vero e proprio trauma e ne parlò poco o nulla in seguito, ad ogni modo il principale riferimento narrativo dovrebbe risiedere nel film Ardenne ’44: un inferno (1969) di Sydney Pollack, che possiede una storia ed una struttura in parte analoghe, seppur con i toni della commedia. L’idea di collocare i nazisti in un contesto horror-fantastico, con riferimenti storici ben precisi innestati in un intreccio inventato, è un qualcosa che oggi definiremmo “tarantiniano“: di per sè è una grande idea, perchè fornisce al regista uno strumento impagabile per comunicare un messaggio, con il linguaggio forte e disambiguo dell’horror. Il cast di livello (da Ian McKellen a Jurgen Prochnow, passando per Scott Glenn) e l’ambientazione sulfurea (in quasi tutto il film è visibile una nebbia sinistra) impediscono qualsiasi pensiero di stroncato di questo lavoro, pur considerando il suo problema di fondo: è un horror apocrifo.

    La fortezza è un vecchio castello in pietra abbandonato, collocato in Transilvania nei pressi del Passo di Dinu (inesistente nella realtà), costellato di 108 T fatte di nickel, fattore scatenante la rovina dei nazisti. Girato in una vecchia cava abbandonata nel Galles, ambientazione del tutto naturale ed in grado di evocare sinistri presagi già di suo, alterna parte delle riprese nelle caverne di Llechwedd Slate, a sua volta “a black monumental structure” come ebbe a dire lo stesso regista in una definizione sintetica, espressiva e completa. La fortezza è un horror a forti tinte fantasy come tanti se ne sono visti nel cinema, eppure con una sua propria originalità di fondo – derivante almeno in parte dal romanzo da cui è tratta la storia, di F. Paul Wilson, a detta dei più superiore alla versione filmica. L’autore del romanzo, peraltro, non ha mai fatto mistero del suo disaccordo con la versione di Mann del suo libro, che ad esempio ha visto la sostituzione del vampiro protagonista con un Golem (figura antropomorfa della mitologia ebraica), riferendolo come un film visivamente intrigante, ma per molti versi incomprensibile (visually intriguing, but otherwise utterly incomprehensible). Pare peraltro che il racconto successivo di Wilson dal titolo Cuts non sia casuale, dato che parla di uno scrittore che pratica il voodoo contro un regista, colpevole di aver distrutto un suo lavoro.

    La fortezza è l’ultimo passaggio per un mondo (in tal senso, puramente lovecraftiano) di orrori pronti a scatenarsi sulla terra, scaturiti dall’avidità dei nazisti – qui rappresentati in modo tutt’altro che stereotipato, a cominciare dalla figura del militare dissidente (e dai tratti umani) Woermann, contrapposto alla ferocia di Kaempffer. Un film che inizia come un classico war-movie d’epoca e che evolve, poco dopo, in un sinistro fantasy-horror, incentrato più sulle atmosfere che sullo splatter: in tal senso, potremmo definirlo un’opera dai tratti fulciani (il Fulci de L’aldilà e Paura nella città dei morti viventi, s’intende). I dialoghi sono essenziali per lo svolgimento della storia, e sono recitati in uno stile sostanzialmente epico, tanto da sembrare straniante per il pubblico (e di certo il cut scomodo non aiuta e rischia di renderli non intellegibili).

    Di per sè, quindi, le sensazioni evocate da The keep sono più che altro originali e positive: con un po’ di fortuna, sarebbe stato un grandissimo horror epico, destinato a fare scuola. Ovviamente le circostanze hanno finito per renderlo un’opera sostanzialmente incompiuta, abbandonata al suo destino, nota sul web per via di recensioni più che altro insulse. In tal senso, quindi, finirà per essere apprezzata solo dai cinefili più appassionati di horror, disponibili a collocarlo nel contesto storico di cui ho discusso.

  • Nuda per Satana: il surrealismo fuori dalle righe del 1974

    Nuda per Satana: il surrealismo fuori dalle righe del 1974

    Un medico ed una ragazza, subito dopo un incidente stradale, arrivano in un castello per cercare aiuto: quello che troveranno sarà decisamente surreale.

    In breve. Un horror-erotico dal registro non banale, con la capacità di impressionare giocando sui contrasti; almeno, nelle intenzioni. Alla prova dei fatti è una sublimazione settantiana del “so bad is so good“: un gotico-porno sul tema del doppio, con pretese surrealiste e abbastanza poco riuscito. Gli inserti hardcore gratuiti, l’insistere su dialoghi ostentatamente lirici, le nudità randomizzate smantellano quasi del tutto l’impianto. Per gli amanti del cinema bis può essere comunque una gradevole esperienza.

    Nuda per Satana rimane scolpito nell’immaginario cinefilo soprattutto per la sua storia, che vorrebbe essere un singolare esperimento tra horror ed erotico (alla Jess Franco, per intenderci), e che possiede poco terrore e troppo osè. Tanto per proporre qualcosa di diverso dalla solita elencazione di difetti, partirei proprio dalla parte erotica: quella che fa diventare il film “di cassetta”. Fin dal titolo, del resto, si intuisce di un legame con suggestioni liberatorie ed occulte, e questo viene preannunciato dalle primissime sequenze – nelle quali non si perde occasione per mostrare la Calderoni nuda, una vera e propria costante della pellicola (anche quando sarebbe tutt’altro che necessario).

    Si è molto discusso e sbeffeggiato questo lavoro(cosa che, personalmente, non accetto di fare quasi per nessun film) proprio a cominciare dagli inserti hardcore, che spiazzano il pubblico – e per ragioni tutto sommato lecite, che valsero il divieto ai minori, ovviamente. Del resto si tratta di un erotismo distaccato, da VHS, ostentatamente esibizionista quanto impacciato; in un bizzarro equilibrio tra nudo artistico e porno classico, un insolito sesso esplicito, a più riprese, finisce per padroneggiare le scene senza un vero motivo. Se si volesse cercare un difetto anche qui, dovremmo parlare di gestualità che – il più delle volte – emulano il piacere, e che (soprattutto oggi) appaiono molto poco coinvolgenti. Il sesso nel film è un comparto staccato dal resto, e a poco o nulla serve che venga raffigurato come momento onirico o liberatorio.

    Quello che manca più concretamente in Nuda per Satana, del resto, è un solido tessuto di connessione tra le scene hard ed il resto della storia: storia che, sebbene suggestiva dalle premesse, risulta fastidiosamente spezzettata in più punti, e dal ritmo troppo altalenante. Avrebbe forse funzionato se si fosse basata su una dichiarazione di intenti meno seriosa, come accade ad esempio in tanti film di Russ Mayer o Tinto Brass (per i quali il sesso è spesso delirante, ma è anche giocoso), o al limite nel divertimento citazionista del Rocky Horror Picture Show (che nomino perchè, probabilmente in modo incidentale, Nuda per Satana mi pare ne condivida alcuni snodi narrativi: l’incidente di una coppia, un maggiordomo grottesco, un padrone di casa dal singolare fascino, una ambientazione gotica surreale, vari personaggi disinibiti contrapposti a due protagonisti sessualmente inebetiti dalle convenzioni). Se la parte erotica fosse stata meno ostentata, pertanto, Nuda per Satana avrebbe (forse) meglio fatto da contraltare alla componente orrorifica: ma nemmeno quest’ultima componente funziona del tutto, e così il film ne risente in ogni singolo fotogramma. Spaventarsi in questo film, per intenderci, è piuttosto arduo, e lo è almeno quanto provare a pensarlo in qualche modo eccitante. Peccato, anche perchè – al netto del resto – le ambientazioni e la colonna sonora (un delirio psichedelico a suo modo memorabile) erano particolarmente azzeccate. E, per inciso, su questo genere si è visto molto, ma molto di peggio.

    L’idea dei “doppi”, del resto, e l’ambientazione surreale non erano niente male: siamo negli anni ’70, ed i richiami a combattere le convenzioni e la repressione sessuale erano all’ordine del giorno. Il periodo, le masturbazioni mentali dei critici d’epoca e il pubblico a caccia di erotismo facile li caldeggiavano parecchio, per cui potevano tranquillamente starci. Per dovere di cronaca, quindi, Batzella un onesto tentativo lo fa: riprese sulfuree, qualche inquadratura azzeccata (e molte curiosamente fuori asse), suggestive ambientazioni fumose ed un montaggio/effetti speciali che a volte funzionano … e a volte no (su tutti, i vestiti di Susan che spariscono “al volo” e l’indimenticabile ragno gigante, visibilmente finto).

    Il gioco regge ancora meno la prova del tempo, con un livello narrativo non lineare quanto non troppo curato, per non parlare delle interpretazioni discutibili di quasi tutti i personaggi – unica vera eccezione la protagonista, che sembra l’unica nel giusto feeling con la storia. C’è anche spazio per due doppi personaggi (Dr. William Benson / Peter e Susan Smith / Evelyn), e questo aumenta ulteriormente l’aura mitologica del film. Nonostante tutto, Nuda per Satana rimane un cult da riscoprire: ma questo solo per chi ritenga divertente seguire il delirante “flusso di coscienza” che accompagna la narrazione, quei primi piani inspiegabili, le criptiche riflessioni dei personaggi (che vorrebbero sembrare saggi esistenzialisti, ma non lo sono), e la filosofia misticheggiante che dovrebbe accompagnare il tutto. A suo modo, un film da ricordare.

  • Pirati fantasma: guida pratica a “The fog” (J. Carpenter, 1980)

    Pirati fantasma: guida pratica a “The fog” (J. Carpenter, 1980)

    Durante la ricorrenza del centenario della nascita della tranquilla cittadina di Antonio Bay (21 aprile), una misteriosa nebbia avvolge le navi di passaggio e le case dei singoli abitanti. Al suo interna sembrano celarsi dei misteriosi esseri che uccidono utilizzando spade ed uncini…

    In breve. “The fog”, film in parte sopravvalutato ma discretamente interpretato: un’ interessante digressione di vecchia scuola b-movie da parte di un buon Carpenter, che firma soggetto, musiche e regia. Avvolgente e lento – almeno nelle intenzioni – come un racconto di E. A. Poe (a cominciare dalla citazione iniziale), il suo sostanziale limite si rileva nell’intreccio stesso, ben costruito ma piuttosto scarno e troppo tirato per le lunghe.

    Seduti attorno al fuoco, un gruppo di ragazzini di Antonio Bay ascolta una storia di pirati seduta attorno al fuoco: con questa atmosfera suggestiva inizia “The fog“, un film horror che omaggia la scuola anni 50, e che vive di suggestioni molto classicheggianti. Prima di tutto, e non poteva che essere così, le atmosfere di H. P. Lovecraft, a cominciare dall’oscurità incombente sulla piccola cittadina, continuando con le solite presenze malefiche non umane sfumando poi su un sepolto senso di colpa, legato ad un misfatto collettivo che si scoprirà soltanto alla fine. Del resto nell’introduzione ci ricorda, con le parole di Poe, che “tutto ciò che vediamo o a cui rassomigliamo è soltanto un sogno dentro un sogno“, quasi a voler sottolineare le illusioni e le suggestioni di un mondo senza memoria storica, senza passato e (forse) senza futuro.

    Il formato anamorfico, utilizzato ostinatamente dal coraggioso ed indipendente regista, e concepito per dare maggiore dignità alla pellicola, visto oggi finisce quasi per fare tenerezza: i pirati fantasmi rimangono per tutto il film poco più che un’ombra, ed il livello di azione e di sangue è piuttosto vago e indefinito. I mostri, privati del proprio oro dall’avidità degli abitanti cento anni prima (etteparèva), vengono commentati dalla suadente voce di Stevie (Adrienne Barbeau), speaker radiofonica (a volte) fuori campo, che potrebbe aver parzialmente ispirato Fulci, Fragasso e compagnia in Zombi 3. Questo espediente serve a mantenere il film parzialmente affascinante anche al giorno d’oggi, anche se bisogna riconoscere che la faccenda è tirata un po’ troppo per le lunghe, annoia in più di un tratto e potrebbe risultare facilmente soporifera per il pubblico di oggi: assolutamente inadatto, quindi, a chi si aspetta colpi di coda e thrilling intenso. Qui è come se Carpenter si sia crogiolato troppo nelle proprie idee, finendo così per sfornare un prodotto gradevole soltanto per gli iper-appassionati. Buono, comunque, il livello della regia, capace di rappresentare un doppio o triplo livello di vicende in contemporanea, senza mai creare confusione ed unendo vari punti con intelligenza ed efficacia. Peccato per gli effetti speciali, davvero troppo essenziali: qualche oggetto in movimento, qualche ombra indefinita, qualche orologio che si spacca e delle automobili che si avviano senza guidatore sono un po’ pochino per parlare di un horror corposo. E questo rimane vero, purtroppo, anche contestualizzando il tutto al periodo di uscita di “The fog“…