FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà: l’horror come pura idea

    …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà: l’horror come pura idea

    Nostalgica espressione di un cinema che non esiste quasi più: puo’ piacere  o meno, fare ribrezzo o sorridere, ma rimane l’idea forse più incontaminata della poetica lacerante di Fulci.

    In breve: una delle opere massime del regista romano, summa perfetta di uno stile fatto di eccessi, violenza estrema e crudele ma anche di poetica profonda ed in parte toccante. Da sempre nella mia top-ten per quanto riguarda lo splatter; leggermente sconnesso in alcuni tratti (specie se lo si vede una sola volta), delinea la poetica del regista romano e vale la pena vederlo anche solo per il mitico finale. Grandissimo lavoro, in questa sede, da parte di Giannetto De Rossi in fatto di effetti speciali.

    Raccontare l’Aldilà è impossibile senza descriverne almeno per grandi linee la trama: ed è quello che farò qui, considerando che la sua bellezza prescinde, per una volta, dal non “saperne troppo”, e mi pare doveroso specificare che dirò parecchio sulla storia bruciando così vari dettagli. Per chi non ha visto uno dei pilastri dell’horror italiano anni 80, mi sembrerebbe più opportuno provare a procurarsi il film prima, e leggere solo successivamente la mia recensione.

    …l’orrore si accetta in quanto idea pura. La ragione non c’è… c’è l’idea pura” (Lucio Fulci su “Paura nella città dei morti viventi”, citato in Paolo Albiero, Giacomo Cacciatore, Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci. Roma, Un mondo a parte, 2004)

    All’inizio, in alcuni suggestivi fotogrammi color seppia, vediamo un gruppo di persone – nell’anno 1927 – entrare nella stanza di hotel di quello che si scoprirà essere un pittore (Zweick): il loro scopo è quello di crocefiggerlo al muro, non prima di averlo sadicamente torturato a colpi di catene. L’artista è sospettato di stregoneria, e segue così la triste sorte della “maciara” de “Non si sevizia un paperino”: un tema, quello dell’intolleranza, evidentemente piuttosto caro al regista romano. Alcuni anni dopo vediamo Liza (la MacColl, attrice cult dei film di Fulci) eredita in Lousiana proprio quel vecchio albergo, nel quale si manifestano fin dal restauro alcuni strani incidenti: un operaio cade dall’impalcatura per colpa di un’improvvisa presenza oscura, mentre ad un idraulico perde un occhio per via di una “cosa” fuoriuscita da una tubatura. Inutile forse sottolineare che Fulci, già da queste prime scene, non ci risparmia alcun dettaglio gore: non bisogna dimenticare, comunque, che Fulci è molto influenzato anche dal fantasy (cosa che ha fatto anche nel “gemello” “Paura nella città dei morti viventi“, e per questo motivo non esita a contaminare le due cose in eccessi davvero sopra le righe.

    Dopo qualche strana premonizione, la protagonista scoprirà che l’edificio del suo hotel è costruito su una delle porte dell’inferno, dalla quale inizieranno ad uscire fuori morti viventi e a disseminare il panico sulla terra. Scenario alquanto suggestivo, quest’ultimo, se contiamo che di zombi nel film non se ne vedono per la maggioranza delle sequenze, per quanto pare si sia trattato di una mera scelta produttiva che voleva sfruttare l’onda degli zombi movie low cost. Un modo per variare la monotonia delle dinamiche da zombi-movie, a mio parere, che in molti dovrebbero rivalutare. Indimenticabile poi, come ricordavo all’inizio, la scena finale in cui Liza, assieme ad un altro compagno di sventura, nella fuga dai morti si troverà letteralmente all’interno di un quadro di Zweick. Si tratta di quello che rappresenta l’aldilà, un deserto di cenere e corpi nudi, un vuoto e desolante Nulla. Un viaggio quindi completamente surreale, a tratti realmente da brivido, dalla realtà all’incubo: la vendetta del pittore si esplica così attraverso la sua arte.

    E ora affronterai il mare delle tenebre, e ciò che in esso vi è di esplorabile…”

    Secondo il regista romano, sembra di capire, dopo la morte vi è sempre l’oblio, e soltanto la memoria – per quanto dolorosa – puo’ salvarci dal diventare completamente ciechi. L’insistenza di Fulci sugli occhi, peraltro – e sul maltrattamento fisico che essi subiscono di continuo, non soltanto in questo film per la verità – sembra prestarsi sia a speculazioni filosofiche che ad un’allegoria – piuttosto grottesca – di ciò che dovrà subire lo spettatore. Inutile aggiungere, a questo punto, che il film è davvero crudissimo, in certe scene rasenta l’insostenibile e realizza, a mio parere, ciò che un Vero Horror deve fare: disgustare, spaventare, toccare le corde del terrore e spingerci a girare il capo dall’altra parte dello schermo. Un pessimismo lugubre, quello del regista romano, che si esprime attraverso la maggioranza delle sequenze del film, diventate cult per i motivi più svariati. Un esempio abusato è la partecipazione di Michele Mirabella nei panni del bibliotecario – assalito da un gruppo di tarantole – mentre una prova di gore sopra le righe è senza dubbio la ragazzina colpita da un colpo di pistola (scena atipica per il cinema volemose-bbene, presente esclusivamente nella versione uncut; per la cronaca ricorda un’esasperazione delll’omologa sequenza di Distretto 13 di Carpenter).

    Un capolavoro del genere, a mio parere, ma attenzione: rimane pur sempre un genere “popolare” e con un suo personale spessore (nel senso che è esente da simbolismi masturbatori), anche se a mio parere è indispensabile disporsi con una certa empatìa verso l’horror più estremo. Altrimenti è forse meglio lasciar perdere e dedicarsi ad altri film. Questo è certamente Horror – sarà forse banale scriverlo – con la “H” maiuscola proprio perchè sconnesso, fuori dalle righe, unico nel suo genere, a volte forse senza vere giustificazioni per quanto riconoscibile tra decine di altri cloni scadenti. E poi fa paura, fa sussultare lo spettatore che a volte stenterà a credere a quanto viene rappresentato: anche per i canoni odierni è molto probabile che lo sentirete “sporco”, realistico ed oscuro come non mai. Un qualcosa che lascia il segno, “…e tu vivrai nel terrore! L’aldilà“, e che spaventerà per bene gran parte degli spettatori. Del tutto fuori luogo, per la cronaca, alcune critiche a mio parere un po’ grossolane che vogliono questo lavoro di Fulci come una scopiazzatura malriuscita di Inferno di Argento (con cui si riscontrano alcune somiglianze, tuttavia i film vanno visti e limitarsi ad accoppiare sequenze a caso è davvero troppo, troppo superficiale).

    La versione in DVD del film possiede diversi speciali e soprattutto non è censurata come la versione tipicamente a noleggio (che, in molti casi, non riporta la sequenza color seppia dell’omicidio del pittore: pensavano che fosse il trailer di un altro film, a quanto pare…). Un buon criterio per regolarsi dovrebbe essere annesso alla censura (VM 14 per la versione edulcorata, VM 18 per la completa), mentre la limited edition della Anchor Bay sembra la più completa e meglio realizzata anche esteticamente, anche se indubbiamente ha un prezzo abbastanza spropositato.

  • Il ritorno dei morti viventi: uno dei film di zombi che non puoi non aver visto

    Il ritorno dei morti viventi: uno dei film di zombi che non puoi non aver visto

    Due dipendenti dell’azienda Undeea (sic) aprono inavvertitamente dei contenuti ripieni di gas tossico, che possiede la singolare capacità di rianimare i cadaveri. Gli zombi partono all’assalto del pianeta, apparentemente inarrestabili…

    In due parole. O’ Bannon, indiscusso genio della sci-fi e dell’orrore (suoi lo script di Alien e buona parte di Dark Star di Carpenter) firma il suo esordio alla regia mostrando zombi quasi cartooneschi, realizzando un film praticamente perfetto e puramente ottantiano nello spirito. C’è spazio per l’intrattenimento puro, per una colonna sonora tra le migliori dell’epoca e per un paio di scene super-cult: da non perdere!

    Leggere l’intervista al regista, l’ultima concessa a Nocturno prima che morisse nel dicembre 2009 affetto da un male incurabile, fa capire molto dello spessore e dello spirito anticonformista del regista-attore-sceneggiatore americano. Se egli deve molto della sua fama alla stesura e all’ideazione di Alien di Ridley Scott, paradossalmente rimase molto distante dal mondo hollywoodiano e, probabilmente, anche dallo stesso scenario del cinema underground cui naturalmente apparteneva. Esordio scoppiettante il suo, dato che tirò fuori assieme al coinquilino John Carpenter l’idea di un “2001 Odissea nello spazio” in chiave demenziale, producendo il piccolo capolavoro low-budget Dark Star. Qui siamo al suo esordio registico: l’influenza di Romero, all’apice dello splendore in quegli anni con il lugubre Il giorno degli zombi, e qualche anno prima Zombi, si sente parecchio. Ma Dan non si limita a clonare le idee dei film famosi come fecero in molto: piuttosto reinventa la mitologia dei morti viventi aggiungendovi dettagli originali e momenti di curiosa demenzialità, come avrebbe fatto, in modo decisamente più esasperato, Peter Jackson.

    La storia, di per sè, è forse il dettaglio meno interessante: un ragazzo viene assunto in una ditta che si occupa di procurare cadaveri alle facoltà di medicina, e casualmente entra in contatto con un gas tossico che inizia a risvegliare i cadaveri. Nel frattempo gli amici del giovane (per la maggioranza punk e metallari, per inciso) vanno a prenderlo sul posto, avvicinandosi incautamente al cimitero lì vicino. I morti viventi di O’ Bannon sono maledettamente veloci, corrono come ossessi e sono indistruttibili: non serve sparargli in testa, non serve farli a pezzi, non serve neanche bruciarli perchè, come espresso malamente in Zombi 3, ciò contribusce solo a contaminare l’aria ulteriormente.

    Dinamica da puro action movie quella de “Il ritorno dei morti viventi”: e vari dettagli explotation come gli occhi nelle orbite che si muovono ancora, qualche momento gore ben dosato, alcuni scheletri degni de “L’armata delle tenebre” e (non si dica che guasti) la bella Linnea “Trash” Quigley, punk dai capelli rossi che se ne va in giro natiche al vento dopo un improbabile strip integrale nel cimitero, sono tutti elementi che fanno di questo film un cult da non perdere per nessun motivo. O’ Bannon mostra di saperci fare con la macchina da presa, e realizza uno dei migliori zombi-movie mai visti sullo schermo, privati della componente più deprimente e con un finale apertamente nichilista: probabilmente come solo un regista davvero “rock’n roll” come lui avrebbe saputo fare. Vale inoltre la pena di ricordare che la colonna sonora, oltre a riportare un theme davvero indimenticabile, è di matrice punk-hardcore con alcuni momenti melodici che contrastano con la drammaticità delle scene (quasi sempre riprese da lontano, come ricordava lo stesso regista), capaci di creare un contrasto davvero notevole e a tratti spassoso.

    R.I.P., Dan!

     

  • Sola in quella casa: il film di Takács omaggia il genere thriller

    Sola in quella casa: il film di Takács omaggia il genere thriller

    Virginia, giovane appassionata di letteratura horror, lavora in una libreria e rimane letteralmente stregata dai romanzi del misterioso Malcolm Brand, tanto da iniziare a vedere i protagonisti delle sue storie nella vita di ogni giorno…

    In breve. Discreto b-movie senza pretese, piuttosto equilibrato e ben diretto, anche con una storia piuttosto originale. Da riscoprire ancora oggi.

    Sola in quella casa (traduzione arbitraria dell’originale I, madman, e che probabilmente strizzava l’occhio ai titoli gloriosi degli anni ’70) si presenta come un lavoro decisamente originale: la storia che vediamo all’inizio coincide con la narrazione del racconto che sta leggendo la protagonista, appassionata di romanzi horror – oltre che simbolico fan in cui buona parte degli spettatori potranno immedesimarsi. Il film presenta numerosi cambi di punti di vista – tra la Virginia nella vita reale e quella che si immedesima con la protagonista della storia – con la presenza di sequenze piuttosto dirette ed evocative, senza sconfinare nel visionario puro (per una volta questo sembra essere un pregio: gioca a favore della comprensibilità della storia).

    Se le sue ripetute letture evocano a più navigati suggestioni modello Ai confini della realtà con il ben noto (e genuino) approccio al genere, tra porte che si chiudono all’improvviso, il leitmotiv del pianista dalla finestra ed i temporali che iniziano puntualmente quando Virginia inizia a leggere, c’è da sottolineare che la creatura di Tibor Takàcs – regista tra l’altro del piccolo cult Non aprite quel cancello, altro titolo da non giudicare male in base all’apparenza – è un rispettabile saggio dell’orrore, non completamente esente da difetti, ma piuttosto compatto come forma e stile.

    La storia romantica del mad doctor Malcolm Brand, disposto a tutto per amore (ivi compresa la mutilazione di varie vittime, i cui pezzi sono usati per modificare il proprio aspetto – o quantomeno illudersi di farlo – per piacere all’amata), e l’archetipo di Virginia come simbolo dell’appassionato di horror rendono, già da soli, grande giustizia alla pellicola, penalizzato fortemente solo da un doppiaggio italiano probabilmente non troppo espressivo. Al tempo stesso, non si tratta di un film gotico nel senso stretto del termine (come potrebbe esserlo L’arcano incantatore oppure Il demonio, per intenderci), ma di un buon ibrido in cui parte del feeling deriva sia dai film di serial killer (Vestito per uccidere, Henry – Pioggia di sangue) che dagli horror più intrisi di introspezione, psicosi e ossessioni (Possession).

    Mentre legge, Virginia è estremamente coinvolta dal racconto, tanto da sospettare che sia la narrazione a guidare la realtà; una realtà che vedere una serie di omicidi inspiegabili quanto collegati al libro di Brand. Il richiamo a Il seme della follia (seppure in una forma parziale, e senza scomodare paragoni fuori luogo), rimane d’obbligo, tanto che sembra lecito sospettare che il maestro Carpenter abbia potuto farsi influenzare da questo film per la stesura del suo celebre (e forse più lovecraftiano) film girato ad oggi. Inutile sottolineare che la dimensione onirica che vive la protagonista non sarà minimamente creduta dal mondo reale, evidenziando ancora di più la dimensione tragica di chi vive situazioni di isolamento o emarginazione.

    La storia sceneggata da David Chaskin rimane ad un livello ordinario, accessibile anche ai non patiti del genere, ed è pesantemente influenzata dagli horror classici, sempre intelligentemente trasposti nei libri letti dalla protagonista senza, per questo, perderne efficacia narrativa e potenza orrorifica (si veda, ad esempio, la terrificante sequenza dell’ingresso del dottore in casa della vittima, prima narcotizzata e successivamente decapitata; oppure l’omicidio visto dalla finestra modello La finestra sul cortile, per poi mostrarsi con le sole ombre dei personaggi).

    Sul finale Takács si prodiga in un doppio finale che sembra quasi richiesto a gran voce dagli spettatori; al tempo stesso, conclude in modo ordinario la vicenda e con quel tocco di fantasy che si era accennato all’inizio, senza scomodare sociologia pessimista, finali amari o indagini sulla natura del male (come forse era lecito aspettarsi). Ne rimane pertanto un buon horror ottantiano, e questo è quanto.

  • The Rocky Horror Picture Show: guida pratica per chi non ne sa ancora nulla

    The Rocky Horror Picture Show: guida pratica per chi non ne sa ancora nulla

    Brad Majors confessa il suo amore a Janet Weiss, e poco dopo partono per far visita al Dr. Everett Scott, il loro ex-insegnante di scienze; un temporale improvviso ed uno pneumatico forato li costringe a dirigersi verso un vecchio castello…

    In breve. Musical cinematografico divertente, splendidamente diretto ed interpretato, ovviamente fuori dalle righe; concepito come gigantesco tributo al mondo dei b-movie, mai passato di moda fino ad oggi.

    I’ve done a lot, God knows I’ve tried
    To find the truth, I’ve even lied
    But all I know is down inside I’m bleeding.
    And Super Heroes come to feast
    To taste the flesh not yet deceased
    And all I know is still the beast is feeding.
    And crawling on the planet’s face
    Some insects called the human race
    Lost in time, lost in space… And meaning

    Diretto da Jim Sharman due anni dopo il debutto del musical, si tratta di uno dei più popolari cult del genere, tratto da una sceneggiatura del regista stesso e di Richard O’ Brian (che recita nel panni del maggiordomo-alieno Riff Raff), capace da un lato di tributare il mondo dei b-movie e, dall’altro, di presentarsi in maniera autenticamente trasgressiva, divertente e fuori dagli schemi, quantomeno per l’epoca in cui uscì.

    L’intreccio del Rocky Horror Picture Show è noto: una coppia della provincia americana, casta e inibita, si imbatte casualmente nello spettrale castello del bizzarro Dr. Frank-N-Furter, carismatico scienziato in reggicalze che vuole costruirsi un amante perfetto artificiale. Al di là di questo (e dei suoi successivi ed imprevedibili sviluppi) è interessante analizzare nel film la presenza di due componenti: quella puramente ludico-sessuale che, naturalmente, trasuda da ogni poro, alternando momenti spassosi ad altri, come la prima comparsa di Frank-n-Furter, che sono rimasti scolpiti nell’immaginario collettivo, ed una seconda più seria (mai troppo, se non nel tragico e secondo alcuni enigmatico finale), che si ricollega in più parti ad una delle opere d’arte più celebri degli anni ’30 in America.

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    Mi riferisco naturalmente ad American Gothic“, il dipinto del 1930 realizzato dall’artista statunitense Grant Wood, che viene periodicamente parodizzato all’interno del film, e questo fin dal primo istante in cui compare la coppia Richard O’Brien / Patricia Quinn.

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    Poco prima del Time Warp, la danza rock’n roll che simboleggia il film più di qualsiasi altro brano, alle spalle di Riff Raff è possibile vedere il dipinto in questione.

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    Con nomi del calibro di Susan Sarandon (che pare non accettò di recitare nuda, come le era stato richiesto, durante l’autoesplicativa Touch me, Touch me), Barry Bostwick, Tim Curry (che vestirà 15 anni dopo i panni dell’inquietante Pennywise the Dancing Clown, nella trasposizione cinematografica del romanzo IT di Stephen King), Patricia Quinn (comparsa anche nel recente Le streghe di Salem sempre di Rob Zombi) e gli altri protagonisti del cast del Royal Court Theatre, il Rocky Horror Picture Show è diventato uno dei midnight movie per eccellenza, amato incondizionatamente da generazioni di fan. Guardarlo ad Halloween, ad esempio, è un rituale impossibile da mancare per qualsiasi appassionato, e la fama del Rocky Horror Picture Show ha avuto continue conferme, tanto da essere riproposto più volte al cinema, in TV ed ovviamente nella movimentatissima versione teatrale The Rocky Horror Show. Il Museum Lichtspiele (Monaco di Baviera) ha riproposto il film settimanalmente dal 1977, offrendo al pubblico uno speciale RHPS-Kit per consentire una opportuna partecipazione del pubblico: quest’ultimo conteneva un biscotto, del riso, un fischietto, una candela ed ovviamente le istruzioni cartacee per eseguire il Time Warp.

    Nell’immaginario di Sharman, bravo a dipingere magistralmente la storia e ad alimentarla in un turbine di riferimenti culturali americani – a cominciare dal celebre American Gothic – a finire alle figure archetipiche della sci-fiction classica, dai mostri ai vampiri passando per scienziati nazisti in incognito ed alieni armati di raggi laser, espressione (gli ultimi due in particolare) di una società sempre più repressiva nei confronti della libertà sessuale e della disinibizione. Il brano simbolo dell’opera rimane probabilmente Don’t dream it, be it, un monito ai personaggi (ed al pubblico che assiste, ovviamente) a liberare il proprio io e a non limitarsi di sognare la propria liberazione sessuale, ma anche viverla nel modo più appagante ed incurante del perbenismo dominante: simbolo di questa trasformazione sarà proprio la trasformazione di Brad e Janet, iniziati entrambi al sesso dal conturbante Frank-N-Furter, creatore di un novello frankstein dal fisico scultoreo, e che intende utilizzare come giocattolo sessuale. Sembra poca cosa se raccontata a parole, ma la carica erotica e spassosa del film resta intatta dopo tanti anni, e sembra quasi voler omaggiare la celebre massima di Woody Allen “il sesso è stata la cosa più divertente che ho fatto senza ridere“.

    Probabilmente è questa una delle chiavi di lettura più importanti del Rocky Horror cinematografico, capace di coniugare ironia e serietà senza mai scadere nel serioso o, peggio, nel gratuito: questo, al di là degli imperdibili giochi pirotecnici sulla scena, degli arrangiamenti scenici magistrali, della regia perfetta e dei continui doppi sensi di cui è pervaso il film, molti dei quali smarriti nell’approssimativa traduzione italiana: tanto per fare un esempio, Riff Raff accoglie i due protagonisti alludendo all’essere “wet” – tradotto un po’ alla buona come fradicia a causa della pioggia. L’allusione è (era) piuttosto esplicita, e la donna mostra di averla colta, anche con un certo risentimento. Ovviamente non esiste una versione doppiata del Rocky Horror (la versione italiana è sottotitolata), e verrebbe da pensare che sia un piccolo miracolo che a nessuno sia mai saltato in mente di farne una.

    Numerose le ulteriori curiosità su questo film: la locandina dell’epoca riporta un riferimento parodico al film Lo squalo (Jaws, cioè fauci, letteralmente), e recita: “The Rocky Horror Picture Show – a different set of jaws” (più o meno “qualcosa di diverso da Lo squalo“, con riferimento ironico ad uno dei film più in voga all’epoca). Al di là degli innumerevoli e raffinati riferimenti di genere, il Rocky Horror cinematografico è molto fedele allo spirito da horror puro, con i suoi riferimenti alla cinematografia gotica: le cronache dell’epoca riportano che in molte scene l’espediente utilizzato era quello di non dire agli attori cosa sarebbe successo in seguito, al fine di accentuare la loro reazione spontanea. Ad esempio, pare che la scena della cena con “sorpresa” finale sotto il tavolo (una scena che Rob Zombi citerà in chiave più seria nel suo recente 31) gli attori che interpretano i due fidanzati non fossero a conoscenza di quello che li aspettava, per cui la loro reazione sarebbe autentica.

     

    Come ogni cult che si rispetti, dal film è stato tratto anche un poco noto videogame – oggi retrogame – per Apple II, Amstrad CPC, Commodore 64/128 e ZX Spectrum – prodotto dalla CRL Group, defunta azienda inglese di software che produsse molti altri giochi a tema horror (fonte delle immagini: mobygames.com).

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    Nel finale, inoltre, non appena i due fratelli alieni svelano la propria vera identità, l’opera viene riproposta in versione futuristica, dove il forcone (che simboleggia l’essenza del redneck americano e, per estensione, del bigottismo provinciale che si oppone ferocemente alla “decadence” della trasgressione) diventa un laser letale, utilizzato per eliminare sia il dottore che la sua muscolosa bionda creatura Rocky. Il finale del Rocky Horror denota una componente tragica (e per certi versi ermetica), che sembra evocare la caducità dell’esistenza solo in favore di rafforzare il senso di edonismo ed gusto per la sana trasgressione che pervade l’opera.

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    In definitiva, l’eredita di questo musicalcult anni settanta è arrivata, a quanto pare, intatta fino ad oggi, per costituire uno dei più celebri musical al mondo, oltre che – naturalmente – uno dei più longevi.

    (informazioni sul film tratte da imdb.com, screenshot tratti da flickr.com/photos/seeing_i)

  • Baskin: l’horror splatter surrealista che non dimenticherete facilmente

    Baskin: l’horror splatter surrealista che non dimenticherete facilmente

    Un gruppo di poliziotti riceve una chiamata di emergenza per recarsi in un edificio abbandonato: troveranno ad attenderli un gruppo di efferati individui.

    In breve. Incubo surreale per un gruppo di poliziotti, costretti a fronteggiare un nemico apparentemente invincibile e, forse, la propria coscienza. Soprattutto per appassionati di horror senza remore, con livello di gore abbastanza alto.

    Coproduzione turca e americana e girato in sole 28 notti, Baskin è un buon horror recente dal ritmo incalzante e con una certa dose di surrealismo, che poi si traduce in sogni (o allucinazioni) che vive uno dei protagonisti (neanche a dirlo, quello con cui buona parte del pubblico tenderà ad identificarsi). Un thriller a sorpresa con presupposti da mistery movie puro, con tanto di poliziotti in atmosfera pulp decisamente umanizzati e, per certi versi, non esenti da difetti – tanto da evocare i più celebri anti-eroi di John Carpenter, regista certamente influente su questo lavoro a cominciare dal compromesso, più che riuscito, tra atmosfere oniriche, elementi simbolici (le rane) e splatter. Film che, per inciso, è tratto da un corto omonimo dello stesso regista, che viene qui sviluppato per esteso con integrazioni e modifiche dove necessario (nel corto, ad esempio, il Padre è una Madre).

    C’è da dire che il film non potrà passare indifferente agli occhi del pubblico, o quantomeno al cospetto di quello orientato sugli horror con elementi apparentemente sconnessi e, in certi caso, a dispetto della causalità degli eventi raccontati. A questi personaggi così umani quanto brutali, come vedremo, il destino sembra aver riservato uno dei più crudeli avversari da dover fronteggiare, caratterizzato dalla figura del Padre (ispirato, a quanto pare, al Colonel Kurtz di Apocalypse Now) e dei suoi deformi adepti: il Padre, peraltro, è anche l’unico personaggio in grado di dare un indizio concreto sul senso del film.

    Sembra che il tutto ruoti sulle efferatezze di una crudele setta, che esplica il proprio culto attraverso sanguinolenti rituali, e fa assumere ad ogni atto, in modo forse non troppo esplicito, un significato di espiazione da qualche peccato commesso in passato. Senso che, al netto delle mie (come di altrui) speculazioni, ogni spettatore dovrà saper trovare, soprattutto per il finale sui generis che chiarisce alcuni punti della trama e fornisce quello che in linguaggio urban viene definito mindfuck: un elemento, quello onirico e spazio-temporale in particolare, che ridefinisce l’ambiente e le circostanze, chiarendo ed forse razionalizzandone certi aspetti. Questa è forse la cosa che ho apprezzato di più a caldo, anche se per esperienza so che si tratta di un aspetto soggettivo che non tutti coglieranno. Che poi molti non abbiano tempo, voglia e volontà di coglierli è altra storia, peraltro ben nota per tutti gli horror surrealisti di cui sono a conoscenza, ma di questa chiusura imprevedibile ed efficace va ampiamente dato atto al regista.

    In un’intervista a Fangoria a riguardo, il Evrenol ha indicato Descent e Frontiers come sue principali ispirazioni per questo film: chi ne ha visto almeno uno, a questo punto, potrà farsi un’idea coerente di ciò che vedrà. Avrei aggiunto – parere personale, of course, dato che non ho la pretesa di saperne di più del regista – anche Hellraiser alla lista delle influenze, sia per le atmosfere cupe che per i continui viaggi tra sogno, dimensioni e realtà e sia, forse soprattutto, per la figura del padre, che non avrebbe certo sfigurato come cenobita. Non approfondisco il discorso per evitare spoiler involontari, ma per completare la lista di analogie ci sarebbe da citare il sottovalutato Shadow di Zampaglione, che certe intuizioni e simbolismi li aveva (ri)proposti già anni prima.

    Non mancano in Baskin (secondo Nocturno il titolo potrebbe fare riferimento alle parole repressione o coercizione) i punti di contatto con altri film horror, e sarebbe impossibile – quantomeno a livello di impianto narrativo – non citare anche il recente 31 di Rob Zombi, molto simile nella situazione quanto meno grottesco e, se possibile, più sinistro. Molto probabile che Zombi abbia potuto ispirarsi almeno in qualcosa per questo singolare lavoro per il suo ultimo film: del resto il cinema di genere è (anche) un gioco di rielaborazioni. Al di là dell’impianto narrativo, la situazione sa apparentemente di già visto, per quanto l’attenzione resti sempre viva: questo soprattutto perchè i protagonisti sono dei poliziotti, e non i classici giovinastri in cerca di avventure e dal destino segnato. Ciò a mio avviso tende a proporre chiavi di lettura molto varie, forse al di là della classica redenzione e catarsi legata ad analoghe “discese all’inferno”: abbastanza, insomma, per dire che si tratta di un buon film.