FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Trauma di Dario Argento parla di disturbi alimentari e shock psicologici

    Trauma di Dario Argento parla di disturbi alimentari e shock psicologici

    Aura Petrescu, una ragazzina sofferente di anoressìa, assiste all’omicidio dei propri genitori da parte di un killer: grazie all’aiuto dell’amico David scoprirà un’imprevedibile trama ordita dall’assassino…

    In breve. Un corposo trattato di sadismo, incentrato sulla figura di un inquietante serial killer tagliatore di teste: uno dei film forse meno noti di Argento che comunque, a ben vedere, rimane nella sua filmografia come lavoro di buona qualità.

    “Con un cappio attorno al collo… non sono stata la prima vittima, e non sarò nemmeno l’ultima!”

    Prima produzione americana – e questo si riflette nelle ambientazioni e nei ruoli dei personaggi – di Dario Argento, con soggetto scritto con Ferrini e Romoli incentrato sulle vicende di una ragazzina rimasta orfana. Proprio per il ruolo di protagonista venne scelta la figlia Asia, all’epoca giovanissima e, per questa ragione, probabilmente acerba rispetto all’importanza del ruolo che rivestì. Già questo rende “Trauma“, thriller novantiano ricco di tipiche trovate “teatrali” del regista, un film vagamente ostico da guardare, senza contare la sua lunghezza atipica (circa due ore) in cui, tanto per (non) cambiare, l’assassino viene rivelato solo alla fine dopo il consueto gioco di falsi sospetti ed indiziati. Al di là di una scelta di interpreti poco esaltante e di una trama forse poco incisiva nella prima parte, quasi nulla è da buttare, tenendo conto dell’ambientazione architipica, della dinamica da thriller mainstream, di alcune citazioni di Profondo rosso, del sottotesto del film e del fatto che riguarda l’anoressia, un dramma vissuto realmente dalla sorellastra di Asia (Anna, scomparsa nel 1994). Quantomeno potremmo affermare che questo lavoro è l’ennesima dimostrazione di come l’horror sappia essere, in opportune condizioni, un genere più maturo e profondo di quanto troppe persone vogliano farci credere. L’argomento cardine di Trauma, al di là delle micro-storie che contiene, riguarda un’imprevedibile vendetta dovuta ad uno spaventoso trauma – per l’appunto – vissuto dal killer, proprio come avveniva nel succitato capolavoro del regista.

    Trauma è un buon thriller, ben ritmato ed a forti tinte horror, che mostra il “tocco” dell’Argento più sanguinario e viscerale, a cominciare dalla scena di decapitazione presentata all’inizio (mediante un laccio metallico motorizzato), che poi rappresenterà – piuttosto atipicamente per il regista romano – l’arma del delitto prefissata. Un villain che, in questo contesto, si muove di soppiatto e quasi sempre in soggettiva, restando nascosto con cura fino all’imprevedibile finale, giusto il tempo necessario perchè Aura possa ricordare ciò che la sua psiche ha rimosso (la faccia del maniaco, per l’appunto). Contemporaneamente, pero’, i toni appaiono smorzati rispetto al mai troppo celebrato passato del regista, il quale preferisce abbandonarsi a suggestioni da tipico film made in USA che ai consueti “tocchi di classe” che lo caratterizzarono all’epoca: a vederlo oggi, a conti fatti, avercene film “commerciali” così.

  • Possession (1981): l’horror metaforico sulla gelosia di A. Zulawski

    Possession (1981): l’horror metaforico sulla gelosia di A. Zulawski

    Una donna in crisi col marito possessivo inizia a manifestare un comportamento sempre più crudele; i sospetti di infedeltà coniugale, poi, la renderanno ancora più sinistra.

    In breve. Sebbene relegato all’ambito del cinema d’essai, Possession è la dimostrazione di come l’horror possa essere un linguaggio ideale per la rappresentazione di drammi. Un piccolo capolavoro del regista recentemente scomparso, forse la sua testimonianza più importante. Nonostante qualche bizzaria nella narrazione, riesce a farsi seguire anche dal grande pubblico.

    Possession rientra – almeno nella mia esperienza di spettatore, e ad una prima analisi – tra i film sostanzialmente privi di genere: classificato spesso come horror psicologico, sarebbe quantomeno onesto ammettere che si tratta di una semplificazione brutale – se non altro parziale, per non dire ingiusta – rispetto al lavoro di Zulawski.

    Possession è un film che funziona, in effetti, perchè focalizza le proprie qualità sulle doti interpretative dei singoli protagonisti, con un grado di espressività esasperata – tipica ad esempio del teatro moderno, più introspettivo o psicologico – per quanto si ceda, a volte, alla tendenza a rappresentare simbolismi forse astrusi, forse poco chiariti. Una splendida (in ogni senso) protagonista come Isabelle Adjani è in grado di calarsi completamente nella doppia parte Anna / Helen, e se il film è decisamente bello (e riesce a turbare lo spettatore) gran parte del merito è della sua interpretazione. Impossibile non notare, poi, l’ambientazione nella Berlino all’epoca divisa dal muro, sorvegliata militarmente e simbolo della divisione familiare forzata.

    In questo senso, e senza che ciò possa sembrare troppo arbitrario, Possession è un film lynchiano, nel senso che va vissuto nel suo fluire e che, soprattutto, lascia spazio alle interpretazioni soggettive degli spettatori, tutte egualmente valide – a patto che si sappia accettare il linguaggio (non proprio convenzionale) scelto dal regista. Buona parte della fama di incomprensibilità, per inciso, è probabile che derivi dalla versione italiana in videocassetta di questo film, doppiata in maniera discutibile e montata (cosa davvero assurda) in maniera arbitraria; la versione da vedere è quella di quasi due ore edita in DVD dalla Raro Video (e non banalissima da reperire, ad oggi).

    In questo contesto l’aspetto puramente narrativo finisce quasi in secondo piano, tanto che – astraendoci per un attimo dal contesto – saremmo di fronte a premesse tanto banali da risultare sconcertanti: una donna sposata con un figlio trova un amante, e vive il dramma del divorzio. La storia è tutta qui, per cui è chiaro che la regia di Zulawski ha contribuito grandemente ad impreziosirla ed espanderla. Un discreto (e neanche originalissimo) melodramma che, nel caso di Possession, è solo il punto di partenza per l’evoluzione e lo sviluppo di situazioni imprevedibili, e per favorire il dispiegarsi di una tragedia consumata tra mostri interiori ed esteriori.

    Il predominio dei personaggi è tanto forte da essere, di fatto, il vero focus su cui concentrare l’attenzione: il rigido conformismo e l’aggressività latente di Mark, incapace di accettare la mutazione (in parte cronenberghiana) della moglie, ed ossessionato dal proprio amore al punto di perdere il controllo di sè; la natura doppia ed imprevedibile di Anna, in bilico tra come – suo malgrado – sta diventando (Anna, nella sua versione “posseduta” da un amante incontrollabile, imprevedibilmente violenta e tormentata e, poco dopo, assassina) e come il marito vorrebbe che fosse, in versione idealizzata (la maestra, angelo del focolare domestico, Helen). L’autolesionismo dei due, che emerge simbolicamente nel momento in cui si feriscono, deliberatamente, col coltello elettrico, da’ il via al lato più terrificante della storia, che fino alla comparsa del mostro visibile poco dopo – e che gli ha conferito la fama di horror di cui sopra. L’elemento di mostruosità (il “polipone” ideato da Carlo Rambaldi) interviene nel film a spezzare l’ordinarietà del dramma, e poco importa quanto possa apparire fuori posto una presenza del genere; è proprio questo mix, piuttosto, a rendere Possession un unicum del suo genere, alla pari di film analoghi sulla possessione/ossessione amorosa imprescindibili per qualsiasi amante del genere (e non posso fare a meno di pensare ad Audition, e a quanto Miike possa aver da qui attinto a livello di atmosfere).

    Proprio il tema del doppio, certamente non nuovo al cinema – basterebbe pensare a Doppelganger del 1969, ma anche a buona parte della filmografia di David Cronenberg – è centrale in questo film del regista polacco. La sequenza in cui Anna urla e scalpita in metropolitana, emblema di una psicosi al culmime,  se da un lato appare quasi grottesca nella sua insistenza, finisce per rappresentare l’essenza dei suoi tormenti interiori, da sempre in bilico tra una (apparente) libertà che la illude, ed un vincolo familiare che la fa semplicemente sentire in colpa.

    Dall’altro lato, la rigida tranquillità di Mark pronta ad degradare nella follia (un Sam Neill in una delle due migliori interpretazioni), è anch’essa magistrale, tanto da presentare echi di ciò che lo renderà celebre quasi quindici anni dopo (l’assicuratore de Il seme della follia di John Carpenter). La possession della moglie diventa, per lui, pura ossessione: ossessione per le sue ordinarie ambizioni (il lavoro, la carriera, l’amore, la famiglia), che lo porteranno inevitabilmente all’autodistruzione.

    Per un film del genere, poi, qualche parola va inevitabilmente spesa per il finale: i due coniugi sembrano avere un doppio, apparentemente frutto di una mente ormai distorta dalle circostanze. Nel momento in cui tali doppi si sostituiscono agli originali, arriva il momento dell’apocalisse, simboleggiato dal suicidio finale del figlio (davvero terrificante nella sua semplicità) e dall’incontro tra Helen ed il doppio di Mark, una versione algida e sulfurea che sembrerebbe “nata” dal mostro partorito da Anna, che preannuncia una spettacolare quanto spiazzante apocalisse (le bombe che si sentono esplodere dall’esterno).

    Se è genericamente improprio chiamare horror Possession di Zulawski, dunque, può essere quantomeno sensato notare che le sue dinamiche narrative sono, a tutti gli effetti, quelle degli horror, a partire dal crescendo da una situazione ordinaria ad una decisamente imprevedibile. Molti passaggi del film sembrano non causali e questo, oltre ad essere tipico del genere, è anche tipico del periodo. Del resto ci troviamo negli anni del Fulci dell’assurdo visto nel cult …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà, e proprio con quest’ultimo si potrebbero scovare interessanti parallelismi; su tutti, il finale apocalittico che, almeno in parte, li accomuna: l’aldilà del quadro, simbolo della conclusione dell’esistenza terrena, e l’apocalisse di Possession, simbolo dell’isolamento e della solitudine.

  • Il primo film di Aldo Lado: “La corta notte delle bambole di vetro”

    Il primo film di Aldo Lado: “La corta notte delle bambole di vetro”

    Un giornalista viene ritrovato apparentemente morto dentro un parco: in realtà è ancora vivo, ma non riesco a muovere un muscolo pur avendo ancora la capacità di pensare.

    In breve. Il primo film di Aldo Lado (Chi l’ha vista morire?, L’ultimo treno della notte) è probabilmente uno dei più sorprendenti che abbia mai girato: segue la struttura di un giallo argentiano e riesce, soprattutto, ad accarezzare l’horror più incisivo senza inutili eccessi.

    Film decisamente interessante e poco valorizzato dalla critica, che tendenzialmente lo capì poco (le recensioni sul Davinotti, ad esempio, sono discordanti e quasi tutte impietose). Introdotto da una tagline piuttosto classica (When things are not what they seem, ovvero quando le cose non sono quello che sembrano) che sembra dire pochissimo di per sè (le apparenze decostruite diventeranno un classico del cinema horror, da Society in poi), ma che rivela un impianto molto originale. Qualcosa che all’epoca deve avere molto sorpreso il pubblico, che si trovano di fronte una realtà surreale e spaventosa: il protagonista è apparentemente morto, ma riesce ancora a pensare. Si scoprirà che questo stato catatonico è stato indotto da una serie di circostanze, per le quali molta critica arrivò a parlare di vera e propria fanta-politica.

    Dead? I’m dead? Can’t be. I’m alive. Can’t you tell I’m alive? I’ve got to make them see. You! Listen to me! Look at me! Can’t you hear me? Maybe it’s a nightmare. I’ll try to wake up. I’ve got to move. Yeah, a finger. Ca’ Can’t! I must! Don’t leave me like this. Help me! HELP ME!

    Vedere Greg Moore portare la propria compagna (Mira) ad un party in cui sono tutti ricchi, potenti ed anziani non potrà che far pensare al succitato cult di Brian Yuzna, tanto da suggerirne una potenziale ispirazione. La trama si sviluppa come un flashback dei ricordi del giornalista, intervallati dai tentativi di un amico chirurgo che cercherà in ogni modo di rianimarlo. Riuscirà Gregory a svegliarsi prima che la sua ora arrivi definitivamente? Lo scopriremo solo nell’ultima scena, quella che probabilmente ha consacrato la fama di questa opera prima di Lado, a mio modo di vedere, come uno dei migliori film di genere giallo-thriller.

    Esiste un piccolo mistero sulla scelta del titolo, dato che non è esplicitato quali siano le “bambole di vetro” (il titolo originale è The Short Night of the Butterflies, ovvero La corta notte delle farfalle, le farfalle – che, si dice nel film, “non volano più“, uno degli indizi per ricostruire l’enigma). A meno che non si voglia pensare alle bambole di vetro come alle ragazze tenute in stato catatonico e sostanzialmente controllate dalla setta, per quanto questa cosa non sia forse sufficentemente rimarcata dall’intreccio (a parte Mira, solo un’altra ragazza dimostra esplicitamente di aver subito questa sorte: l’americana presentata a Gregory durante il party, poco prima che la sua compagna scompaia nel nulla).

    C’è da sottolineare la parvenza rivoluzionaria dello spaventoso quid della trama, ovvero la capacità di tenere il cervello attivo di una vittima, dandogli esternamente la parvenza di morto. Il non-morto cerca disperatamente di comunicare con l’esterno ma non riescono a sentirlo, e questa cosa viene schiaffata in faccia allo spettatore dopo qualche minuto di film: uno spaventoso stato catatonico che evoca, almeno in parte, il soldato tenuto in vita forzatamente protagonista di E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo.

  • Begotten è la fiamma che brucia l’oscurità

    Begotten è la fiamma che brucia l’oscurità

    Begotten, per quanto mi risulta, è uno dei film in assoluto più bizzarri e incomprensibili mai visti su uno schermo: mescola al proprio interno trama e messaggi criptici, che diventano chiari (forse!) solo alla fine, lasciando lo spettatore quasi tramortito nel mentre. Ce ne vuole, ad essere onesti, perchè un arthouse puro del genere sia seriamente equiparabile alle allucinazioni lynchiane o alle complesse simbologie annidate negli oscuri horror nipponici o tedeschi: ma nel frattempo il pubblico resta annichilito, e della visione (alla fine dei conti) sopravvive poco o nulla. Sta di fatto che è uno dei film più noti di Merhige, partorito nel 1991 e parte della visionaria esperienza artistica di un regista che, tra le altre cose, ha diretto alcuni dei video musicali più famosi di Marylin Manson.

    In breve: guardare “Begotten” per intero è un progetto cinematograficamente suicida, una “mission impossible” da effettuarsi con tempi e modi quasi anacronistici, rispetto alla fruibilità “usa e getta” delle serie TV e dei cortometraggi virali a cui siamo abituati. Begotten è un viaggio di sola andata, che potrebbe cambiare per sempre la vostra idea del cinema, o – più probabilmente – farvi maledire il regista Merhige a vita. Se si riesce a vederlo tutto, senza sbirciare la trama, tanto meglio, ma il senso del film rimane sproporzionatamente più piccolo rispetto al linguaggio utilizzato.

    Come una fiamma che brucia l’oscurità, la vita è carne su ossa che si agitano sulla terra“: questa enigmatica frase chiude l’introduzione dell’opera di E. Elias Merhige, regista sui generis molto debitore dell’espressionismo (suo anche il film L’ombra del vampiro). Il regista di Begotten vuole stupire, questo è certo, e presenta un film essenziale, girato in bianco e nero, senza dialoghi con lo scopo di disturbare, causare shock e, in certa misura, fare discutere. Ma attenzione: qui non si tratta degli equilibrismi simbolici azzardati da Jorg Buttgereit in Der Todesking, i quali (nel loro morboso realismo) si mantengono sia pur vagamente comprensibili.

    Il regista Elias Merhige, classe 1964, il cui cognome dovrebbe pronunciarsi come marriage (matrimonio), è noto al pubblico soprattutto per L’ombra del vampito del 2000, e per aver diretto questo unicum del genere affiancato ad alcuni video musicali di Marilyn Manson (Cryptochild e Antichrist superstar, di quello che potrebbe considerarsi il periodo d’oro della produzione di Manson). Merhige esordisce a teatro e pensa a Begotten come opera di teatro sperimentale, mettendolo in scena per un breve periodo. Ad oggi dovrebbe lavorare esclusivamente sui palchi, dopo un terzo e ultimo lungometraggio dal titolo Suspect Zero, del 2002.

    Ascolta il podcast di questa recensione

    L’ermetismo di Begotten

    Nelle notissime Memorie di un malato di nervi l’autore Daniel Paul Schreber racconta della nascita della propria psicosi, seguito di un’educazione rigida e severissima da parte del padre, nei termini di una comunicazione tra i suoi stessi nervi e Dio in persona: scrive infatti che Dio propriamente, in base all’ordine del mondo, non conosceva l’uomo vivente e nemmeno aveva bisogno di conoscerlo: bensì aveva rapporti solo con cadaveri. In Begotten le danze si aprono sulla morte di Dio, intesa in senso letterale e sostanzialmente blasfemo dato che è Dio stesso a suicidarsi. Se quella era l’espressione del singolare misticismo materialista che vive l’autore, e che lo porta ad esprimere la propria visione nevrotica del mondo come agglomerato di raggi e nervi in grado di comunicare a distanza, in Begottone c’è una sequenza altrettanto lacerante e significativa. La morte di Dio che coincide con la nascita del mondo,

    All’interno di quella che sembra una piccola baracca, una figura vestita – descritta come “Dio che si uccide” nei titoli di testa – si sventra con un rasoio a mano libera e muore dopo avergli aperto l’addome e rimosso alcuni dei suoi organi interni. Una donna, che rappresenta la Madre Terra, emerge dai suoi resti mutilati. Porta il cadavere all’eccitazione e usa il suo sperma per fecondarsi. Il tempo trascorre e la Madre Terra, visibilmente incinta, sta accanto alla bara del dio morto. Vagando in un mondo vasto e desolato, dà alla luce il Figlio della Terra, un uomo malformato e convulso. Un figlio che verrà presto abbandonato dalla madre, lasciato a se stesso.

    Di Designer unknown. The film's production company is Theatreofmaterial. – Propaganda magazine no. 18 (Spring 1992), p. 38 (via the Internet Archive). A similar logo was later used on home media releases of the film—see, for example, the logo on the 1995 VHS tape. Extracted from scan into PNG by uploader., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=93449283

    La tendenza all’ermetismo in Begotten è ancora più estremizzata, ancora più accentuata nel mostrare crudeltà e violenza, e questo senza che ci siano dialoghi nel film e senza una trama che risulti lampante. Quindi è peggio ancora, se possibile, perchè in più parti lo spettatore non capirà cosa si stia guardando, e non è detto che questo sia un bene: nessun dialogo, nessuna musica, nessun vero punto di riferimento sull’intreccio – se non strane figure mascherate ed incappucciate, che effettuano strani rituali e sembrano vivere fuori dal tempo. Probabilmente, se non altro, un espediente efficace per obbligare il pubblico a vedere  il film fino alla fine prima di emettere giudizi.

    Significato di Begotten

    Begotten: letteralmente significa generato, procreato, il che suggerisce che il film abbia a che fare con il processo della nascita (e sembra proprio essere così). Ad un secondo livello, begotten sembra un termine utilizzato a livello mistico-religioso, con frasi che richiamano al concetto di unigenito (l’unico generato, nella teologia cattolica è Gesù).

    Il suicidio di un uomo mascherato all’inizio, il parto di un umanoide tremante, sevizie e violenze di gruppo, rappresentazione di un dolore senza redenzione, senza motivazione apparente, ed ampio spazio alla rappresentazione della natura (tramonti, albe, alberi e vegetazione in generale): per il resto preferisco non approfondire la trama perchè, in fondo, è davvero essenziale e sarebbe imperdonabile banalizzarla attraverso la sintesi. Begotten non è altro che un’insostenibile carovana di orrore distillato da cineforum, reso suggestivo da determinati tipi di inquadrature ed accortezze stilistiche, ed è fondamentalmente distante da qualsiasi stile riconoscibile: certo, si puo’ parlare di sperimentazione pura, ma questa è un’arma a doppio taglio per cui lo spettatore potrà, in molti casi (e comprensibilmente) abbandonare la visione dell’opera dopo neanche 15 minuti. Prendere o lasciare, in qualche modo.

    Resta il fatto che Begotten è insostenibilmente violento ed esplicito, e va visto con molta attenzione perchè è facile disorientarsi al suo interno. Il rischio è che il tutto venga declassato ad un delirante radical-chic intellettualistico e fine a se stesso: un rischio, a dirla tutta, abbastanza fondato, che serve – più che a sminuire il gusto e le doti artistiche di Merhige – a mettere in guardia il suo pubblico (chiunque esso sia) a capire un cinema fuori dal tempo (e non solo perchè film del genere sono rari, ed emergono davvero molto raramente). Se lo spettatore regge fino alla fine, del resto, solo dai titoli di coda riuscirà a comprendere il senso dell’opera, e non è detto che l’epifania sia  soddisfacente. A molti, tanto per dare un’idea in più, sembrerà di vedere una piece teatrale del Beckett più contorta, espressa in chiave horror-concettuale.

    Al di là del tema dell’ambientalismo, secondo me, diventa complesso fornire interpretazioni ulteriori che sconfinerebbero, a mio avviso, in discorsi privi di senso. Tutto sommato l’idea è buona, e nessuno mi toglierà dalla testa che come cortometraggio sarebbe stato decisamente più efficace (e non necessariamente più appetibile, che è una cosa ben diversa). A dirla tutta, come accennavo poco fa, l’idea è tutt’altro che stupida, solo che Merhige non possiede il dono della sintesi (o vi rinuncia deliberatamente), finendo per declinare il tutto in una sorta di elitarismo intellettuale. Forse, inoltre, si dilunga troppo a spaventare, disgustare ed insistere su dettagli poco chiari, col risultato che – alla peggio – rischia solo di annoiare.

    Le scene presentano comunque una fotografia notevole, tanto che il regista ha affermato che ogni singolo minuto di girato (72 in tutto) ha richiesto ben 10 ore di lavoro in fase di creazione dell’effetto “pellicola consumata” e del tutto priva di mezzi toni. Ad ogni modo un film che gli appassionati di sperimentazioni orrorifiche e psichedeliche potrebbero gradire e, alcuni, in ogni caso una delle più importanti pellicole di tutti i tempi a livello sperimentativo.

    Begotten è noto per il suo stile visuale unico e disturbante, creando una sensazione di surreale oscurità.  “Begotten” è un film sperimentale in cui il concetto visivo prevale sulla narrazione convenzionale. La trama è aperta all’interpretazione e il film si presta a una varietà di interpretazioni filosofiche e simboliche. Data la sua natura altamente sperimentale e avanguardista, il film è stato accolto con opinioni molto varie dalla critica e dal pubblico.

    I più curiosi, a questo punto, vorranno quasi certamente cimentarsi a vederlo.

    Regia e Ideazione

    Il film è stato diretto da E. Elias Merhige, che ha anche ideato il concetto. Merhige voleva creare un’esperienza visiva e cinematografica intensa, prendendo ispirazione da influenze artistiche come l’espressionismo tedesco e il cinema surrealista.

    Sceneggiatura

    La sceneggiatura di “Begotten” è stata scritta da E. Elias Merhige. La trama è minimalista e l’attenzione è posta principalmente sull’aspetto visivo e sperimentale del film. La trama segue il ciclo della creazione, morte e rinascita attraverso una serie di scene surreali e disturbanti.

    Produzione

    La produzione del film è stata realizzata anch’essa da E. Elias Merhige. A causa del suo stile unico e sperimentale, il budget del film è stato limitato. Merhige ha utilizzato tecniche di ripresa insolite per creare l’atmosfera inquietante del film, tra cui la sovraesposizione delle immagini e la manipolazione in post-produzione.

    Cast

    Il film presenta un cast molto ridotto e praticamente semi-anonimo, dato che l’accento è posto più sulla rappresentazione simbolica che sui personaggi identificabili. Alcuni dei membri del cast includono:

    • Brian Salzberg nel ruolo di “Dio”
    • Donna Dempsey in quello della “Madre”
    • Stephen Charles Barry in quello del “Figlio della Terra”
  • La frusta e il corpo: il capolavoro gotico di Mario Bava

    La frusta e il corpo: il capolavoro gotico di Mario Bava

    Il nobile Kurt, cacciato dal proprio castello per via della propria vita dissoluta, viene freddamente riaccolto dai familiari: ha alcuni conti in sospeso ed è ossessionato dall’amore negato di Nevenka, la quale ha dovuto sposare il fratello di lui su imposizione del padre. In realtà i due sono amanti segreti, e vivono un rapporto sado-masochistico clandestino: un giorno Kurt viene trovato morto ed il suo fantasma, almeno apparentemente, inizia a tormentare la famiglia…

    In breve. Uno dei capolavori di Mario Bava: gotico puro dall’immenso stile, ritmo e livello registico-recitativo, senza esplosioni di violenza (quasi sempre solo accennata) e con una trama molto ben delineata. Alcuni elementi della storia (i tradimenti tra benestanti apparentemente irreprensibili, ad esempio) saranno ripresi dai migliori gialli all’italiana, che usciranno di lì a qualche anno.

    La frusta e il corpo” rientra tra i film più importanti di Mario Bava: il maestro di Dario Argento, infatti, già nei primi anni 60 propose una trama incentrata sulla sottomissione ed il sadomasochismo, esplicitato nel rapporto morboso tra Nevenka (Daliah Lavi) e Kurt (Cristopher Lee). Una storia in cui l’aspetto psicologico finisce per farla da padrone, e che rimane tanto semplice quanto suggestiva – per non dire archetipica: l’uso del Technicolor, un castello a due passi dal mare, l’espressività inquietante di Lee e pochi personaggi appartenenti ad una sorta di nobiltà decaduta sono tutti elementi che bastano a creare un film di culto totale.

    E si tratta di elementi che risultano autosufficenti anche per via del marchio registico: l’artefice de “La maschera del demonio” per una volta deve rinunciare a Barbara Steele e concentrare l’attenzione sul personaggio della Lavi, riuscendo a risultare sempre all’altezza della situazione con grande continuità. Come sempre la storia viene abilmente “decorata” dai dettagli, che sono letteralmente dipinti sulla macchina da presa (il pugnale sotto la teca o il labirintico castello con i suoi segreti ed i suoi passaggi misteriosi).Tutto questo basta per creare un film indimenticabile (ovviamente contestualizzandolo al periodo in cui è uscito) e garantendo l’implementazione di un meccanismo perfetto di definizione dei personaggi.

    Lo possiamo vedere, per fare un esempio, durante i funerali di Kurt: il regista propone gli sguardi in primo piano di tutti i protagonisti, e dal volto di ciascuno di essi traspaiono chiaramente i sentimenti e la personalità di ognuno: lo sprezzante rancore di Giorgia, l’indifferenza mal celata di Cristiano ed il dolore di Nevenka. Una cosa non troppo comune, a questo livello di dettaglio, all’interno del cinema del terrore successivo e che, bisogna sottolineare, riesce a far salire il enormemente il livello. Tale delinare la trama in modo teatrale e quasi “pittorico”, del resto, sarà una delle caratteristiche delle migliori produzioni argentiane (oltre ad alcune fulciane),questo a prescindere dalla trama che – come accennato – è piuttosto semplice e lineare. Il dolore della bella Nevenka, alla fine, ed il suo compiacimento per le frustate del sadico Kurt di cui è innamorata saranno la chiave di lettura del film: costruendo lentamente i presupposti della storia, infatti, senza svelare mai troppo e soprattutto senza mai annoiare lo spettatore, facendo uscire fuori una verità che, come sempre, è stata sotto i nostri occhi dall’inizio. A Bava, poi, bastano una finestra spalancata durante una tempesta, una mano che proviene dal buio (“come un ragno”, verrà detto nel film), un corridoio vuoto o dei semplici cambi cromatici per creare paura, tensione, anche solo atmosfera. E questo si ricollega, oltre alla perizia registica, alla validità dello script e del cast, oltre che al lavoro fotografico semplicemente superlativo operato dal regista e da Ubaldo Terzano (David Hamilton) – quello che ha ispirato il nome di Ubaldo Terzani nel film di Albanesi.

    Un must assoluto per gli amanti del gotico e non solo.