FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • 13 Assassini di Takashi Miike è il film d’azione basato su una storia realmente accaduta

    13 Assassini di Takashi Miike è il film d’azione basato su una storia realmente accaduta

    Nella sterminata filmografia di Takashi Miike, frammisti tra manga cinematografici (Yattaman), horror, thriller e quant’altro, rischia di apparire pretenzioso esprimere un giudizio senza averne visti pressappoco la metà: del resto si tratta di quasi cento pellicole, molte delle quali disponibili esclusivamente su internet, e neanche tutte doppiate in italiano (solo sottotitoli).  Una situazione che costringe, di fatto, anche il cinefilo più incallito a valutare ogni suo film come una cosa a sè stante, facendo diventare un’impresa titanica delineare una linea di continuità tra le opere.

    Nel caso dei “13 assassini” ci può stare, credo, che si esprima una valutazione a prescindere da tutto, dato che – al di là della violenza estetizzante, tra Eli Roth e Tarantino – non è esattamente un horror, anche se eredita parecchio a livello di gore: non mi sorprenderebbe sapere che possa aver deluso chi ha visto ad esempio Audition, dello stesso regista, dato che si tratta di un sostanziale remake di un film anni 60 di arti marziali con lo stesso titolo. 13 assassini” è intriso di cultura e tradizione giapponese – con riferimento al mondo dei samurai, esaltandone il codice etico da guerrieri e, al tempo stesso, mettendo in discussione gli assunti di una società arcaica che si sta estinguendo. Due mondi contrapposti – dignitosa tradizione contro avida modernità – che combattono ferocemente  come consuetudine vuole anche nei film di Bruce Lee.

    La storia narra di un gruppo di dodici samurai (più un tredicesimo che si aggiungerà in seguito), che dovrà combattere contro un esercito intero per eliminare un signorotto feudale (Naritsugo) feroce e sanguinario. Il tutto per evitare che l’uomo possa consolidare ancora di più il proprio potere, approfittando dell’impunità di cui gode (etteparèva) e della schiera di soldati pronti a morire per difenderlo. Dopo una prima parte più contemplativa (anche se il sangue arriva dopo pochi minuti, mostrando il suicidio rituale di un uomo), si passa all’azione vera e propria: la dinamica di fatto è quella di un puro action-movie, solo con qualche spiegazione etico-filosofica in più rispetto alla media. I riferimenti di fondo, da tenere presente, sono almeno due: “I sette samurai” di Kurosawa – altro bellissimo film – e l’omonimo <<13 Assassini>> di Eiichi Kudo, del 1963.

    Questo film possiede dunque la struttura di un tipico film orientale di arti marziali elaborato in chiave moderna (ottima la fotografia), e trasposto nel mare di sangue di una guerra senza scampo, che potrebbe quasi considerarsi l’equivalente nipponico di Platoon. Di fatto molti tratti dei “13 assassini” sono (atipicamente, direi) “occidentalizzati”, a cominciare dallo svilupparsi lineare della trama, senza trascurare dettagli che saranno familiari un po’ a chiunque, come il samurai che minaccia il proprio opponente con un “ci vediamo all’inferno” che sa troppo di già sentito e di american-way. Un film inizialmente lento – è un luogo comune, in questi casi, ma va detto – che non mostra debolezze umane su cui sadici aguzzini infieriscono (come nel succitato Audition) bensì la figura di un Male assoluto, beffardo, compiaciuto e sostanzialmente estraneo a qualsiasi moralità. Un Male che gode nel vedere le proprie pedine combattere ferocemente, e difenderlo come se fosse un semi-dio.

    Se avete un po’ di insana curiosità, o comunque apprezzate il cinema orientale e non siete schizzinosi in fatto di sangue, secondo me dovete procurarvi questa pellicola ad ogni costo, e non credo rimarrete delusi. In caso contrario state alla larga, o alla meglio è bene che vi prepariate con la giusta predisposizione mentale ad assistere ad una pellicola insolita, che ha come suo principale “difetto”, se posso chiamarlo così, qualche momento lento e riflessivo non sempre troppo comprensibile. Una complessità che cozza con la tagline degna di un film di Schwarzy (“13 uomini / una missione / massacro totale“), forse un po’ subdola e che possiede il pesante difetto di suggerire una banale “tamarrata” anni 80.

  • Pagliacci assassini dallo spazio profondo è un horror di vecchia scuola ironico e intelligente

    Pagliacci assassini dallo spazio profondo è un horror di vecchia scuola ironico e intelligente

    Un gruppo di alieni dall’aspetto di clown (sic) arriva sulla Terra e terrorizza una piccola cittadina americana.

    In breve. Un piccolo e misconosciuto capolavoro low-budget anni ’80: da non perdere, se amate il genere horror e fantascienza e non vi dispiacciono le parodie, per quanto semplicistiche o demenziali possano essere.

    Killer Clowns degli statunitensi fratelli Chiodo (trio artistico specializzato nell’effettistica cinematografica che ha prodotto, ad oggi, questo unico film alla regia) è una commedia horror che produce, almeno all’inizio, un effetto straniante. Se il richiamo immediatamente comprensibile, infatti, è quello della fantascienza classica, dopo qualche minuto si intuisce che le cose non andranno come di solito accade. Gli alieni hanno un aspetto mostruoso, ma sono dei veri e propri pagliacci da circo, che sfruttano il proprio aspetto per avvicinare esseri umani in modo divertente e poi, ovviamente, catturarli. Nel farlo, usano armi decisamente non convenzionali – ad esempio, un fucile che spara popcorn.

    Sai se sono vulnerabili? Sì: devi sparargli sul naso.

    I due milioni di dollari di budget, all’epoca, vennero interamente investiti nei costi di produzione; questo implicò la realizzazione artigianale di quasi tutti gli effetti speciali del film, nella media – questi ultimi – rispetto alla produzione del periodo, per non dire di tutto rispetto. Se è vero che il cinema di genere è anche un gioco di ricicli e rielaborazioni, nello script di questo film c’è davvero qualcosa in più – e persiste nella mente dello spettatore, anche a costo di sollevare più di un sopracciglio durante la  visione (ciò che gli anglofoni esprimono efficacemente con un semplice acronimo, ovvero WTF: What The Fuck!?). Questa sorta di curiosità, che nel teatro si esprimerebbe attraverso un effetto straniante sullo spettatore, è più stimolante che respingente, e costringe letteralmente lo spettatore a scoprire un’assurdità dietro l’altra, alcune delle quali davvero piuttosto divertenti. Killer clowns è proprio così, inebriato dalla propria demenzialità autocelebrativa, in barba a qualsiasi protesta da parte del pubblico impegnato. Come spesso si dice in questi casi, “prendere o lasciare“: e per gli amanti del cinema di genere, è davvero il caso di prendere.

    Qualsiasi trucco o trovata topica da pagliaccio assume, qui, una parvenza horrorifica: se da un lato questo è autenticamente divertente (le torte in faccia usate come armi, le trombette da clown che soffocano le vittime, i bozzoli per catturare gli umani mediante zucchero filato) altre volte rischia di sembrare forzoso, per non dire troppo assurdo per essere vero. Ma in questo caso il film, nella sua semplicità, riesce a reggersi sulle proprie gambe, e questo lo eleva rispetto ad una certa media qualitativa, che è in genere piuttosto bassa, in questi scenari del genere.

    Le stesse interpretazioni degli attori, del resto, non sempre sono all’altezza (con poche eccezioni), i dialoghi giocano sulle situazioni tipiche da b-movie e, in buona sostanza, ne fanno una divertente contro-parodia: il cult di riferimento è il genere di fantascienza modello The brain, ma anche Invaders from Mars ed ovviamente Blob – Fluido mortale, in cui – evergreen – una piccola città è invasa dagli alieni, nell’indifferenza delle autorità. Tantissime situazioni, al limite del parodistico-demenziale, vedono gli alieni-clown muoversi esattamente come dei pagliacci, ovvero con movenze buffe o facendo scherzi (il mazzo di fiori con lo spruzzo d’acqua, ad esempio), ma nell’unico interesse di rapire esseri umani per cibarsene. Se non altro, qui siamo di fronte a situazioni parodistiche che si fanno accettare per quello che sono: non c’è tempo per puntualizzare, e bisogna per forza di cose sopravvolare sulle situazioni meno probabili, anche perchè il film garantisce un format leggero per la classica serata b-movie tra amici.

    Un film davvero incredibile, pertanto – forse tra le migliori commedie horror americane anni 80, poco nota in Italia, probabilmente, ma da riscoprire senza indugio. Era inoltre previsto – ultime notizie sono del 2017 – un sequel sempre da parte dei fratelli Chiodo, che sarebbe dovuto essere girato in 3D (dal titolo provvisorio: The Return of the Killer Klowns from Outer Space in 3D). A quanto pare, pero’, il sequel non uscirà per via di alcune complicazioni produttive: ma in questi casi, ovviamente, mai dire mai.

  • Urban Legend: le leggende metropolitane in chiave horror

    Urban Legend: le leggende metropolitane in chiave horror

    In un campus americano anni 90, una ragazza decide di indagare sugli omicidi di un killer, che sembra ispirarsi alle leggende urbane raccolte in un libro che sta studiando.

    In breve. Lo slasher portato ad una dimensione pop, relativamente accessibile per lo spettatore (rispetto ai cult anni 70 e 80 che, invece, lo avevano reso quasi insostenibile per il pubblico medio). L’intreccio di Urban legend viene privato della componente exploitation, diventando un punto di riferimento anche negli anni a venire: teenager curiosi ed eroici contro un villain misterioso ed inafferabile. Il film, complessivamente, non è male, e riserva un discreto finale a sorpresa.

    Diretto da Jamie Blanks e scritto da Silvio Horta, Urban Legend inaugura una mini-saga slasher che non ebbe troppo successo in Italia, ma che si ispirò grandemente a Scream di Wes Craven. Lo stesso film che aveva ri-codificato il genere, slegandolo dagli stereotipi del genere settantiani (improntati sul crudo realismo, il più delle volte) e dando, fin da allora, la sensazione allo spettatore che si trattasse solo di un film.  L’incanto, il “patto” del regista con lo spettatore viene subito svilito e demistificato, a favore di un intreccio che se non è puro intrattenimento ci si avvicina parecchio. Se Urban Legend è lontano dalle sperimentazioni estremizzate di film come The last house on dead end street o dagli eccessi di Nero criminale, si ispira grandemente all’opera di Craven, quello Scream che riportò nuova linfa in un horror che, all’epoca, sembrava spento e non più credibile.

    Per certi versi, Urban Legend (con il suo incedere lento, lineare ed inesorabile quando, a volte, prevedibile) vuole essere una satira ironica sugli stereotipi da film dell’orrore, ma anche (per non dire soprattutto) sulle leggende urbane. Le storie incredibili a sfondo orrorifico o sessuale che fanno parte del folklore, e che vengono (soprattutto negli USA, verrebbe da dire) credute quasi a prescindere. Il film vanta una piccola perla in tal senso, peraltro, perchè i dettagli sull’argomento vengono approfonditi durante una lezione in aula – in cui il docente è interpretato da Robert Englund (che cita, neanche a dirlo, la leggenda metropolitana che sembrerebbe alla base della trama di Black Christmas).

    Al netto del fatto (difficilmente discutibile) che si tratti di un buon calco di Scream, c’è da riconoscerne la carica innovativa che, all’epoca (1998), cita ancora a piene mani il cinema che conta (da Nightmare alla blaxpoitation: chi ricorda, ad esempio, che la poliziotta onnipresente nel college è rappresentata come fan sfegata del genere, e conosce a memoria le battute di Pam Grier in Foxy Brown?). In questo, il film non disdegna un cenno ironico, ad esempio, alla serie Dawnson’s Creek (la musica nell’autoradio poco prima della morte del personaggio interpretato da Joshua Jackson), e gioca con i propri personaggi come burattini nelle mani del villain. Allo spettatore, nel frattempo, non rimarrà altro da chiedere – se non “chi è il prossimo“?

    I riferimenti alle leggende urbane, nel film, sono innumerevoli: dalla ragazza che sostituisce la pillola anticoncezionale della compagna di stanza con un’aspirina, passando per la leggenda delle Bubble Yum che non andrebbero mai mischiate con bevande gassate. Tra le altre, vengono citate la leggenda della macchina senza fari fino alla fanciulla che aveva acidità di stomaco dopo aver ingoiato dello sperma. Se molte urban legend sono a sfondo sessuale, del resto, è coerente con il contesto scanzonato da campus americano, in cui eccedere nelle droghe e trovare fanciulle disinibite sembra normale quanto essere uccisi senza una ragione apparente. Per certi versi, Urban legend coinvolge e fa anche sorridere, a cominciare dal sottotesto complottista che suggerisce, per buona parte del film, che gli omicidi del killer siano in qualche modo protetti dall’università stessa.

    Sull’argomento leggende urbane, uno dei migliori e più completi libri sembra essere, per inciso, Sarà vero di Jan Harold Brunvand, che le raccoglie e le cataloga meticolosamente.

  • Virus L’inferno dei morti viventi: gli zombi secondo Bruno Mattei

    Virus L’inferno dei morti viventi: gli zombi secondo Bruno Mattei

    Un’industria multinazionale operante in Nuova Guinea (la H.O.P.E.) produce un pericoloso prodotto nocivo, che ispirerà parte di Resident Evil e soprattutto trasformerà le persone in zombi cannibali: una parabola ecologista e di denuncia sociale condita nel solito splatter all’italiana.

    In due parole. Direi che Mattei non si tocca: si può discutere lo script fallato, l’interpretazione traballante e lo svolgimento piuttosto noioso, ma è impossibile a mio parere dire che questo film sia girato male. Anche gli inserti documentaristici “mondo” che inframezzano il film non sono montati malaccio, ma bisogna riconoscere che l’attesa per la Evelyn nuda è forse una delle poche sostanziali “molle” voyeuristiche che spingono a (ri)vedere il film oggi (molto di più, per intenderci, del gore in sè o delle discutibili zombi-walk). Un revival sull’onda di Zombi di Romero, fatto ovviamente con molti meno mezzi e capacità, che richiama addirittura i militari vestiti in modo identico e- cosa davvero incredibile – la stessa colonna sonora.

    Quando si recensisce un prodotto del genere c’è il forte rischio, a mio avviso, di lasciarsi prendere la mano. Molte recensioni rischiano così di ridursi ad uno sterile elenco di difetti, senza che il suo potenziale pubblico possa davvero rendersi conto di cosa stiamo parlando. Anzitutto, direi che dopo un’intro piuttosto accattivante (un incidente nella centrale chimica che degenera nel putiferio) siamo introdotti alla storia dei quattri miltari protagonisti: gli stessi che, qualche momento dopo, saranno inviati in Nuova Guinea sostanzialmente a fare occultare le prove del fatto che il disastro apocalittico è esclusivamente colpa dell’uomo.

    La cosa non viene fatta capire troppo chiaramente ma tant’è: uno dei principali difetti di “Virus” è esattamente la scarsa consequenzialità di moltissime sequenze. Giocando un po’ con il residuo di spirito ecologista e no-global ereditato dagli anni 70, Mattei propone un film a fortissime trame kitsch, in cui i personaggi – cosa impossibile da non notare – vengono introdotti senza contesto, bensì sono spiattellati sullo schermo come se fosse la cosa più normale di questo mondo (di morti viventi). Un problema dello script di Mattei e Fragasso, a mio avviso, che ha certamente contribuito a consolidare la fama del duo presso i trash-seeker di tutto il mondo.

    Se è vero che, ad esempio, tra i quattro militari solo il mitico Santoro (quello che passa il tempo ad insultare i morti viventi nei modi più improbabili) ha capito che bisogna sparare loro in testa, al tempo stesso i suoi colleghi non sembrano aver chiaro questa semplice cosa: sparano invece all’impazzata, cercando accuratamente di NON colpire il cranio dei mostri e questo, evidentemente, fa sfociare la pellicola ad un passo dal ridicolo involontario. Al tempo stesso è impossibile non notare che, ad esempio durante l’aggressione in ascensore, viene inquadrata una zombi che, nonostante la situazione drammatica, sembra chiaramente ridere (sic). Del resto gli occhi perennemente spalancati della bella Margie Newton non aiutano la qualità recitativa, anche se l’idea di mescolare cannibalico e zombi movie è – nonostante non sia un picco di originalità – niente male di per sè.

    Per quanto riguarda gli zombi, abbiamo visto di meglio in giro: del resto non si spiega perchè alcuni siano verdastri, altri invece un po’ più scuri (Mattei ha amato molto, a mio avviso, mostrare di continuo occhi spalancati su volti coperti di trucco nero, per cercare di spaventare il suo pubblico in modo forse un po’ ingenuo). Qualche momento splatter all’ennesima potenza, corpi dilaniati senza un perchè, gente che spara quasi sempre a casaccio, le solite fughe all’impazzata ed un finale cupissimo: senza ulteriori descrizioni, direi che “Virus” è pressappoco questo. A poco serve, a questo punto, la metafora contro la società consumistica ed industrializzata, ormai del tutto indifferente al grido di dolore del Terzo Mondo: immersa in un contesto del genere il tutto finisce per passare decisamente in secondo piano.

    Un film adatto, dunque, ai sinceri estimatori del brutto cinematografico: non sarà un capolavoro – anzi, non lo è di sicuro – ma non è neanche lo zenith del trash come suggerito da moltissimi.

  • Tetsuo: The Iron Man: il cyberpunk vintage più bello che esista

    Tetsuo: The Iron Man: il cyberpunk vintage più bello che esista

    Un composto business-man provoca un incidente stradale ad uno sconosciuto; lentamente inizierà a trasformarsi in un ibrido uomo-macchina.

    In breve: fantascienza low-budget con elementi horror, trama sconnessa e richiami al primo Cronenberg. Una chicca cyberpunk originale quanto delirante, non agevole da visionare quanto cult all’ennesima potenza. Girato volutamente in bianco e nero, con stile delirante e con pochi mezzi (il regista interpretò una parte per ovviare ad esigenze di budget), è (come minimo) uno dei migliori film del genere.

    “Esiste una bipolarità: stress e amore. Amore perché la tecnologia ha permesso la crescita economica del Giappone, stress perché ha finito per opprimerci, e se vengo oppresso l’unico desiderio che provo è quello di una tabula rasa: distruggere, per creare qualcosa di migliore” (S. Tsukamoto)

    Uno dei cult più assoluti del cyberpunk cinematografico, rappresenta l’alienazione esistenziale prodotta da una tecnologia sempre più perfetta e sempre più disumana. Convulso incubo metropolitano, il cui senso è relegato alla visione completa della trilogia (Tetsuo 2 – Body Hammer del 1992 e Tetsuo 3 – The bullet man del 2009), nonchè esasperata riflessione sulla condizione umana e sul suo rapporto con la tecnologia. La trama, in questi termini, è poco più di un accessorio a malapena necessario.

    Tetsuo parte da un presupposto inquietante: come in Tokio Fist, il dolore è presentato come una parte inevitabile della vita.  Attraverso esso, infatti, si veicolano le uniche sensazioni autentiche rimaste all’Uomo (idea forse mutuata da Hellraiser), un Uomo intrappolato nelle gabbie della modernità, della vuota produttività, del senso del dovere, in una frustrazione che trova sfogo nella segreta perversione del dolore auto-inflitto.

    I non sequitur di “Tetsuo – The iron man” (e ce ne sono parecchi), tutt’altro che a portata di tutti, fanno parte di un’estetica da accettare come “patto” tra spettatore e regista, resi dignitosi da un modo letterario di fare cinema proprio perchè di natura squitamente cyberpunk. Un cinema come espressione di legame malato tra uomo e macchina, i cui massimi esponenti furono James Ballard e, almeno in parte, Philiph Dick. Il cyberpunk cinematografico, del resto, si è sviluppato in modo alquanto disorganico, e non presenta tratti riconoscibili ed esclusivi: questo non depone a vantaggio di un film del genere, e ne esaspera la scarsa visionabilità. È anche vero, comunque, che il suo sviluppo in forme più “commerciali” (penso alla saga di Matrix, e a tutto quel filone light che comprende, ad esempio, Johnny Mnemonic), non è riconducibile a questa corrente, per molti versi l’unica vera corrente cyberpunk. Una scena altamente simbolica del film, del resto – spesso dimenticata da (inutili) tentativi di delinearne la trama – si presenta allo spettatore quando il “metal fetishish” protagonista annuncia che “presto il tuo cervello diventerà di metallo“, e mostra “un mondo nuovo” al povero Tomoo (ormai interamente mutato): un campo di fiori fatto di ferro, con steli a forma di molle, a delinare un mondo “metallizzato” ovvero materialistico e per nulla umano.

    Il voler stare fuori dalle righe di Tsukamoto provoca un certo disorientamento nello spettatore medio, sfavorendo nettamente la visione di Tetsuo. Nonostante l’appeal un po’ troppo teorico, comunque, Tetsuo ha il merito di aver riconsegnato un’autentica dimensione artistica in chiave moderna al genere: e di averlo fatto in modo non banale o fine a se stesso, lanciando messaggi sovversivi quanto preoccupati sul nostro futuro. Innumerevoli i riferimenti ad altri film simili come stile e tematiche: si va dal classico Eraserhead di David Lynch (stile delle riprese, trama sconnessa) fino a Cronenberg, omaggiato all’inverosimile: ad esempio La Mosca, nella mutazione di una relazione a seguito di un cambiamento fisico (il trapano-fallico in questa sede, la mutazione in insetto di Brundle-mosca), e anche Videodrome, nell’uso dello schermo e della tecnologia come strumento di alienazione.

    Vi sono alcuni punti salienti della trama che, evidenziandoli, possono aiutare la comprensione dell’opera: anzitutto le fotografie di atleti collezionate all’interno della macchina – sembra infatti che il metal fetishish (interpretato da Tsukamoto in persona) non sia altro che un maratoneta che, probabilmente, cercava nuovi modi per incrementare le proprie prestazioni. Questo lo si deduce non tanto dalla sua corsa frenetica (all’inizio ed alla fine del film), quanto dal fatto che indossi una maglietta da corridore con una “X”, probabilmente il numero di gara dell’atleta.  L’ impiegato Tomoo Taniguchi (interpretato da Tomorowo Taguchi) e la fidanzata (interpretata da Kei Fujiwara) hanno prima investito il feticista, poi lo hanno trasportato via in macchina e, in preda al panico, lo hanno prima lasciato in un burrone e poi, per smaltire la tensione, hanno grottescamente fatto sesso – magari in preda ad una inquietante eccitazione sullo stile di Crash.

    Poco dopo la colazione, poi, vediamo Tomoo parlare al telefono con la donna, ed il fatto che i due ripetano vuotamente “Pronto?” potrebbe in qualche modo rappresentare il senso di colpa che li opprime. Alla fermata della metropolitana Tomoo incrocia una donna, contaminata da una “cosa” metallica informe (che, nonostante le dimensioni, sembra “contenere” o essere controllata a distanza dal metal fetishist) che le intacca la mano e la trasforma in una specie di androide, metà donna e metà macchina. La donna cerca di aggredire il salary-man protagonista – e questo perchè la vendetta del metal fetishish si sta concretizzando – rincorrendolo fino ai bagni della metropolitana, e poi fino a casa, dove grazie ad un cacciavite l’uomo ha la meglio, ma è comunque rimasto infetto dal metallo (l’idea del metallo come malattia è tipicamente da Cronenberg). Nella stessa ottica alienante è possibile rivisitare la scena in cui l’uomo sogna di essere sodomizzato dalla compagna, mutata anch’essa in una malefica danzatrice provvista di un tubo metallico in corrispondenza del pube. Tutto in Tetsuo è simbolo, tutto serve a creare suggestioni e a suggerire idee di una malata (quanto inevitabile) contaminazione tra metallo-demoniaco e uomo-corrotto.

    Il metallo, poi, sembra anche conferire una sorta di invulnerabilità a Tomoo, che non risente delle numerose coltellate subite dalla ragazza dopo aver tentato di aggredirla con il mostruoso (e citato a sproposito) trapano-fallico. Il delirio di effetti speciali del finale, poi, va seguito con grande attenzione, perchè mostra un’immensa e dettagliatissima ragnatela di tubi metallici, fili e circuiteria elettrica che fa meraviglia, di per sè, per una produzione low-cost. Molte sequenze sono state girate a passo uno, ovvero utilizzando un solo frame al secondo al posto dei consueti 25, creando un effetto di immagini “a scatti” usato qui in modo estremamente suggestivo.  Impressionante il modo in cui Tsukamoto, da qui, rende gli effetti speciali impressionanti e realistici: si vedano, ad esempio, i circuiti nel braccio di Tomoo.