FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Audition di Takashi Miike parla di amore, splatter e friendzone

    Audition di Takashi Miike parla di amore, splatter e friendzone

    Il film sull’amore ed i suoi risvolti morbosi del grandissimo regista giapponese: uno dei capolavori thrillerhorror del secolo scorso.

    In breve: si rappresenta un orrore interiore, forse uno dei più temuti ed irrazionali che possano esistere: quello delle nuove relazioni con un’altra persona. Nonostante la prima parte faccia temere una storia melensa, la forza del film è proprio nel contrasto tra quest’ultima e le agghiaccianti – e a tratti insostenibili – conclusioni. Un piccolo capolavoro dell’horror, spaventoso quanto realistico (e sostanzialmente inevitabile) molto forte visivamente quanto particolarmente cruento.

    Un vedovo (Aoyama) si convince, dopo sette anni dalla morte della moglie, a rimettersi alla ricerca della donna della propria vita: su suggerimento di un amico produttore, inizia a vagliare le schede di presentazione di diverse ragazze, in occasione di un’audizione cinematografica. La sua speranza è quella di trovarne una di proprio gradimento, magari sensibile, colta ed amante della danza. Il destino vuole che si metta in contatto con l’apparentemente dolce e gentile Asami (l’affascinante Eihi Shiina di Tokio Gore Police), reduce da una serie di traumi infantili ma, al tempo stesso, di natura terribilmente ambigua. A nulla valgono, a quel punto, gli inviti dell’amico produttore a razionalizzare la situazione: la storia degenerà in un delirio di violenza e sottomissione.

    “Io non sono nato ieri, e ti assicuro che non mi farò prendere in giro, e mi fido più del mio istinto che delle opinioni altrui”

    Eli Roth pare si sia ispirato pesantemente a questo film per sviluppare i suoi Hostel e Hostel II: quello che il regista è riuscito a fare in “Audition” è di esaltare fino al parossismo la crudeltà dell’amore, fatto di una componente drammatica, struggente e per certi tratti melensa, in aggiunta ad una ulteriore in cui l’orrore, prima solamente interiore, diventa fisico, esplicito e prepotente. Tanto più terrorizzante poichè il sottotesto è costituito da situazioni che, con i vari limiti del caso, qualsiasi essere umano potrebbe aver vissuto: del tipo un/una affascinante amato/a il quale, dopo aver seminato amorevolmente il terreno, scompare improvvisamente senza dare spiegazioni. Esattamente quello che viene rappresentato nella parte finale del film, in cui realtà e fantasia si confondono più volte e, di fatto, la sadica sottomissione a cui la protagonista (splendidamente delineata) sottopone il suo uomo diventa simbolo del trionfo definitivo del forte sul debole.

     “Ama solo me”

    Niente è quello che sembra, l’amore finisce spesso per illudere pregiudizialmente chi lo sta cercando e finisce per portarci alle contraddizioni più insostenibili, che qui – essendo un horror – sconfinano ovviamente nello splatter meno raccontabile che si possa pensare. Il regista, con Audition, sembra compiacersi nel demolire le convinzioni del suo pubblico, rappresentando un quadro nel quale è facile passare da felici innamorati a succubi assoluti, disposti proprio malgrado a subire violenza fisica da parte dell’amata. Al di là dell’ottima interpretazione di Asami, tanto mite e riservata quanto feroce e crudele, da ricordare almeno un paio di sequenze presenti nel film, come la decapitazione e l’amputazione dei piedi mediante un filo di ferro, e qualche dettaglio gore piuttosto disgustoso (oltre che tipico di questo sottogenere di horror).

  • La vestale di Satana: uno dei primi horror satanici, di Harry Kümel

    La vestale di Satana: uno dei primi horror satanici, di Harry Kümel

    Stefan e Valerie sono una coppia di novelli sposi che si ferma in un albergo di Ostenda prima di prendere il traghetto che li porterà in Inghilterra. Nel luogo sopraggiunge la contessa Elizabeth Bathory, che inizia a mostrarsi gentile e disponibile nei confronti dei due…

    Recensendo un classico del cinema horror come questo diventa difficile proporre considerazioni che non cadano nel “già sentito”; al tempo stesso, tuttavia, appare altrettanto irrealistico pensare che pellicole come quella di Kümel siano prive di difetti, oppure illudersi che non abbiano influenzato le rappresentazioni successive (quelle sui vampiri, nello specifico). Di fatto, la stessa etichetta orrorifica finisce in questo caso per risultare un po’ stretta, e questo nonostante il titolo evocativo che fa pensare, erroneamente, ad un film di natura occultistica o satanica.

    Al bando le banalità, quindi, che mi sembra anche il modo più corretto per approcciare alla visione della pellicola. Anzitutto “La vestale di Satana” è una sorta di “studio di atmosfera” pregno di un certo sperimentalismo: certo non si deve pensare alle estremizzazioni pittoresche di Begotten quanto al clima inquietante del celebre “Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York” ma anche de “L’inquilino del terzo piano” (Polanski condivide i natali con il regista Kümel, ammesso che conti qualcosa). C’è da aggiungere, inoltre, che la storia di vampiri segue una dinamica piuttosto classica, anche se il mito della sanguinaria contessa Bathory viene soltanto citato (e con un certo compiacimento sadico-erotico, c’è da sottolineare), mentre le gesta della protagonista diventano una sostanziale (e convincente) variazione sul tema, con alcuni spunti realmente spaventosi e suggestivi.

    Al regista, di fatto, non sembra interessare la ricerca di un modo innovativo o troppo originale per spaventare il pubblico, quanto riuscire a delineare la natura perfida ed ambigua dei vampiri richiamandosi, dunque, alle atmosfere cupe e spesso poco esplicite tipiche dei succitati film di Polanski. Per completezza ed onestà c’è da aggiungere che vedere oggi “La vestale di Satana” è un’esperienza che può far sconfinare lo spettatore nella noia, anche piuttosto facilmente visto quanto si è deciso di diluire una trama che, tutto sommato, avrebbe potuto essere compressa di qualche minuto. Scelte tutto sommato rispettabili, visto che si tratta di cinema sostanzialmente contemplativo e quasi “al di là del bene e del male“, criticabile nella misura in cui è lecito farlo in rispetto ai gusti dei cinefili più affezionati e con qualche momento spaventoso solo nella parte finale, senza dimenticare qualche sprazzo cult (la celebre scena nei pressi della doccia).

  • Berberian Sound Studio: meta-horror concreto e accattivante

    Berberian Sound Studio: meta-horror concreto e accattivante

    Gilderoy è un fonico inglese inviato a Roma per lavorare ad un film. Una volta sul posto, si rende conto che qualcosa non va: l’atmosfera è tesa, il rimborso del suo viaggio tarda ad arrivare e la pellicola non è ciò che si aspettava.

    In breve. Meta-horror semplice ed originale, relegato ad una dimensione surrealista. Un terrore che si trova ad essere, atipicamente, di parola: difficile da raccontare quanto affascinante.

    Il curioso titolo del film fa riferimento al mezzosoprano Cathy Berberian, cantante lirica virtuosa e moglie del musicista (pioniere dell’elettronica sperimentale) Luciano Berio. Quest’ultimo pare abbia molto influenzato lo stile di Strickland, che racconta la storia mediante una sequenza minimalista (e dai tratti surreali) di scene. In esse è facile seguire la storia ma è difficile, al tempo stesso, cogliere il senso della condizione kafkiana del protagonista. Ad ogni modo Berberian Sound Studio non compare mai nei titoli di testa: all’inizio vediamo infatti il nome del film oggetto della storia, Il vortice equestre che sembra essere, fin dall’inizio, una storia di stregoneria. Non viene volutamente chiarita la cosa, a questo punto, ed il film nel frattempo prosegue con quest’aura di mistero e di curiosità indotta.

    Strickland dirige, atipicamente, un thriller visto da “dietro le quinte”, in particolare dall’ipotetico studio di doppiaggio di un horror italiano anni ’70: luogo in cui, in modo impeccabile, vengono mostrati (ed omaggiati) i trucchi del mestiere degli effettisti dell’epoca. Il tutto assume quasi la parvenza di un rituale religioso, un rispetto omaggio ai maestri del genere (da Mario Bava in poi) e, per assurdo, quasi a discapito dell’intreccio, il quale assume un’importanza molto contenuta (quanto giustificata, tutto sommato). Le scene gore e splatter, ad esempio, vengono fatte sentire (e non mostrate!) in modo quasi documentaristico; delle urla delle streghe torturate nel fake horror Il vortice equestre vediamo solo le smorfie di dolore delle doppiatrici. E per qualche straniante motivo, inducono tensione e fanno paura lo stesso. Il senso dell’ambizioso progetto di Strickland rimane criptico per molti minuti: il tutto fino alla rivelazione che, probabilmente, ogni personaggio si stava già rivedendo nel film stesso.

    Berberian Sound Studio (…o forse Il vortice equestre!) viene diretto con classe e conoscenza del genere dal regista, grazie all’uso abbondante di dettagli e primi piani, ironizzando sui modi composti del protagonista contrapposti a quelli burberi di tutti gli altri. Dal punto di vista degli appassionati del genere, poi, viene mostrato l’ingegnoso riutilizzo di martelli, padelle e coltelli, qui usati per distruggere ortofrutta di ogni tipo (ovviamente per simulare il suono delle scene più macabre: cadute rovinose, capelli strappati, torture con ferri roventi e via dicendo).

    È tutto finto, lo sappiamo bene, ma è difficile non farsi percorrere da un brivido lungo la schiena mentre vediamo Gilderoy attraversare questo mondo che non conosceva, e soprattutto (scena molto emblematica) trafiggere con malcelato gusto un cavolo, mentre sonorizza una delle scene più complesse (e mentre, forse, il confine tra la sua follia e lucidità sembra essere stato smarrito per sempre).

    Nel mentre, vengono evidenziati i rapporti esclusivamente conflittuali tra i personaggi (basati quasi sempre su rapporti di potere, soldi, sesso e prepotenza), personaggi che sono quasi tutti sulfurei e misteriosi oppure, al contrario, cinici e zoticoni. Dell’horror incluso nella trama, Il vortice equestre (che a più riprese e per varie assonanze richiama Suspiria) non scorgiamo ancora nulla. Vediamo solo un gruppo di produttori, tecnici o registi privi di scrupoli, abili solo a procacciare nuove doppiatrici (non certo per meriti artistici), e cercare nervosamente di finire il doppiaggio di un film che degrada, lentamente, in una spirale mostruosa, della quale è impossibile scorgere l’inizio e la fine. Quasi un nastro di Moebius, a questo punto, nel quale anche il mite Gilderoy sembra destinato a smarrirsi per sempre.

    Un meta-horror, quindi, perchè racconta la storia del genere usando le situazioni e gli strumenti dello stesso, doppiato pazientemente scena dopo scena, di cui all’inizio non vedevamo nulla – salvo improvvisamente accorgerci che lo stavamo già guardando.

    E qui l’omaggio, oltre ai maestri dell’horror nostrano come Argento e Fulci (senza dimenticare Angoscia di Bigas Luna ed il Lamberto Bava di Demoni), si deve a John Carpenter ed alle sue intuizioni meta-cinematografiche, ovvero Il seme della follia, film che viene omaggiato abbastanza chiaramente in una sequenza: quella in cui Gilderoy vede se stesso aggredito dal killer, e da allora inizierà a non parlare più in inglese. Ulteriore peculiarità di Berberian Sound Studio, infatti, è che si tratta di un horror di parola nel senso stretto del termine – e viene in mente l’analogo Pontypool, a questo punto – che viene anche recitato in due lingue: italiano ed inglese, che ogni personaggio parla più o meno fluentemente (per necessità di trama, ovviamente, non per vezzo). Un dettaglio, quest’ultimo, molto interessante ed originale, che se da un lato ha contribuito a rendere unico questo film, dall’altro, probabilmente, ha frenato un po’ la sua fama, soprattutto rispetto al pubblico che (senza doppiaggio e/o sottotitoli in italiano) non vuole saperne di vedere film.

    Reazione curiosa, tutto sommato, per un film che racconta una storia ambientata proprio in una cabina di doppiaggio.

  • Nero criminale di Pete Walker è il thriller settantiano semi-dimenticato

    Nero criminale di Pete Walker è il thriller settantiano semi-dimenticato

    Edmund e Dorothy Yates sono una coppia condannata a 15 anni di manicomio: trascorso questo periodo, rientrano a casa ed apparentemente riprendono una vita normale. La figlia e la figliastra, rispettivamente, rientreranno presto a contatto con loro…

    In breve. Un cupo thriller settantiano in crescendo, che vira verso l’exploitation fino ad una conclusione grottesca e delirante; abbastanza sottovalutato da pubblico e critica, contiene spunti interessanti ed è, per certi versi, considerabile un cult.

    Questo film di Pete Walker, regista inglese di b-movie prevalentemente horror, si pone sulla scia dei thriller sugli psicopatici che uscirono all’epoca: basterebbe citare Il mostro della strada di campagna, uscito qualche anno prima, con cui questo lavoro presenta qualche affinità. Se ne caso del film di Fuest si poteva parlare di pre-slasher, in questo di Walker gli omicidi servono a porre il problema sociale del reintegro nella società dei malati di mente.

    Rinunciando all’etica del politically correct, Walker mostra la storia di una coppia condannata per cannibalismo, che vive internata in un manicomio quindici anni per poi essere rimessa in libertà: la coppia ha una figlia naturale che non li conosce, ed una figliastra che se ne prende cura e fa di tutto per nasconderglieli. Per quanto si scoprirà, Dorothy Yates in realtà non è mai guarita; il marito, mite ed apparentemente sano ma preda di incontrollabile devozione coniugale, continua a coprirne le efferatezze; la figliastra è vittima, nonostante tutto, dei propri legami affettivi e coniugali. Ci sarebbe abbastanza perchè un film del genere scatenasse il putiferio in termini di discussioni, eventuali accuse di reazionarietà (il messaggio del film sembra chiaro: il reintegro dei malati è inutile e dannoso) e richieste di censura e messa al bando; cosa che non sembra essere successa, probabilmente perchè si sono sempre evidenziati i limiti della produzione, che è da onesto b-movie e non particolarmente sorprendente sul piano degli effetti speciali o della narrazione/ritmo. Se uscisse oggi, un film come Nero criminale provocherebbe polemiche taglienti e distruttive a cominciare dall’ambiguità brutale della traduzione del titolo (dal sapore vagamente razzista, per quanto puramente accidentale).

    Eppure “Nero criminale” rimane un film di discreta qualità, pur nei suoi limiti di genere, che sa presentare una lucida discussione sul tema, sfruttando il linguaggio dell’horror ed una narrazione gradevole, con buone interpretazioni ed una punta di biasimo, inevitabile, nei confronti delle istituzioni. Non c’è dubbio che dai personaggi di questo film, a cominciare dall’inquietante madre-criminale nonchè veggente – che sembrerebbe, stranamente per un film del genere, possedere reali poteri sovrannaturali – esca fuori un quadro pessimista sull’uomo e sulla sua natura. Lo dimostra l’episodio dello psichiatra, il personaggio in cui il pubblico tenderà ad identificarsi e che ne uscirà piuttosto male.

    Le due figlie della coppia possiedono polarità opposta e funzionano grandemente: la prima sembra accomodante, vuole voler evitare il discorso e vivere in un comodo conformismo, puntando ad una propria vita “normale”. La seconda è puramente antisociale, difficile e dall’attitudine violenta, che scoprirà casualmente un’insano feeling con i genitori che la sorella le aveva tenuto, di fatto, nascosti. Non si vedrà granchè a livello di sangue, è bene specificarlo: questo nonostante le tematiche exploitation e nonostante, soprattutto, si capisca quasi sempre quello che sta succedendo: Walker dosa con cura le scene di violenza, e questo contribuisce a creare un clima di terrore a volte accennato e forse più intenso di quello esplicito. Inutile sottolineare, poi, che sia Craven (che usò spesso l’horror come rappresentazione dei mali sociali e della criminalità) che soprattutto Hooper (con la sua famiglia cannibale e le ormai celebri cene grottesche e cannibaliche) si possano trovare forti punti di contatto con queste tematiche.

    Nero criminale è in definitiva un buon film di genere anni 70, annoverabile tra i b-movie d’epoca e, per questo, con tutti i limiti ed i difetti di questo tipo di produzioni; uscito in un periodo in cui il genere era al proprio apice, del resto, sarà facile trovare titoli anche decisamente più incisivi ma questo, a mio avviso, merita comunque un occhio. Se l’horror non sempre è riuscito a dispensare messaggi significativi alla società, limitandosi a curare al più l’aspetto prettamente narrativo, “Nero criminale” rappresenta una notevole eccezione a questa regola, e si presenza come un film da riscoprire. Con occhio critico, s’intende, ma pur sempre da riscoprire.

  • Winnie the Pooh, Sangue e Miele: un horror stranamente sensato

    Winnie the Pooh, Sangue e Miele: un horror stranamente sensato

    Detta senza mezze misure, Winnie the Pooh: Sangue e Miele è una cafonata cosmica. Meglio: non poteva essere diversamente. Sulle prime sembra volersi palesemente divertire (in chiave splatter) su uno dei miti dell’infanzia di chiunque, fregiandosi di cinismo e riprese calcolate come nella migliore tradizione slasher horror. Poi ti viene il sospetto che ci sia dell’altro, qualcosa da dire, qualcosa da raccontare in modo originale. Forse c’è, forse no. Vederlo per intero è l’unico modo per capirlo. Perchè se l’impianto del film è pensato per risultare allegramente sgradevole, è soprattutto quel finale ad essere nerissimo, cupo, senza speranza e (cosa non da poco) senza alcun rispetto della struttura narrativa precedentemente imposta. Contenti voi, contenti tutti, e questa è.

    C’è sicuramente l’auto-indulgenza tipica di certo horror, c’è pure l’orgoglio di aver prodotto un film del genere senza alcun tipo di condizionamento artistico, sia pur a costo di averlo forse troppo frammentato in micro-episodi che sanno molto di accozzaglia di centinaia di trailer diversi. D’altro canto Winnie the Pooh: Sangue e Miele rimane una cafonata consapevole, dato che sfrutta coerentemente gli stilemi del genere – gliene va dato atto, sono gli stessi stilemi modello La casa: perchè mai continuino a funzionare, tutto sommato, film in cui dei giovani fanno cose irragionevoli (per non dire peggio), rimane un mistero. Un mistero del tipo: perchè andare da soli in un bosco oppure, come avviene all’inizio di questo lavoro, perchè la moglie di Cristopher Robin accetta bonariamente di recarsi nel bosco a vedere gli animaletti dell’infanzia? Qualcuno, al suo posto, avrebbe chiesto il divorzio.

    Eppure, strano a dirsi, al netto di certe ventate di realismo (che non fanno bene all’horror in generale), e per quanto sia alienante esserne consapevoli, fin dall’inizio della pomposa campagna di marketing di questo horror di Rhys Frake-Waterfield possiamo dire che il film sostanzialmente funziona, fa il proprio dovere, risponde alle aspettative di chi va a vederlo (bontà sua). Ovvio, poi non funziona più di una qualsiasi opera di Rob Zombi nè più di un qualsiasi Non aprite quella porta: ma funziona.

    Funzionicchia, se proprio volessimo essere critici: è girato discretamente, ma è completamente senza intreccio, senza filo logico, più interessato a shockare che ad altro, senza contare i non sequitur a granularità minima e vari momenti in cui (come in parte della filmografia di Zombi, significativamente) non si capisce bene cosa stia succedendo. I dialoghi del film, per larga parte, sembrano estratti dai fake trailer di Rodriguez-Tarantino, privati di quell’aura ironica che li rendeva quantomeno divertenti. Qui si ride pure, anche solo di riflesso e per nervosismo, e ci si sente quasi in imbarazzo nel farlo.

    “Non sembra umano, Logan. Non sembra nemmeno un orso!

    Mmm, non mi piace questo tipo.

    È il tuo giorno sfortunato, amico. (colpisce Winnie The Pooh, che resta in piedi) Sei un duro, devo ammetterlo!”

    Per gran parte della storia le suggestione che arrivano sullo schermo sono zeppe di sangue e violenza esplicita, a ben vedere non diverse da quelle di un qualsiasi Venerdì 13 o analoghi, gli stessi film con alternanza di senso di colpa / vendetta di cui abbiamo perso il conto in questi anni. Da sempre sospesi nel desiderio di capire, mentre ne scrivevamo, se davvero valesse la pena parlarne o meno. E mi viene in mente quello che ho sentito dire a Dario Argento dentro a un cinema di Roma, qualche giorno fa: che (parafrasando) i mostri non sono mai solo mostri, ma sono espressioni delle profondità d’animo.

    https://twitter.com/sarbathory/status/1719423421149311361

    Perchè dietro un horror non c’è mai solo l’orrore, effettivamente, e lo sappiamo (dovremmo saperlo). È una tentazione concettuale in cui molti sono caduti, in passato, a cominciare dal celebre studio di genere di Carol J. Clover (Men, women and chainsaws), che rispondeva alle accuse di non sense e misoginia mosse a gran parte degli slasher anni 70. Altri tempi, decisamente. Perchè all’epoca quell’orrore si rivolgeva a persone ordinarie che il più delle volte non capivano neanche troppo di rivoluzione culturale, Sessantotto e via dicendo, oggi si rivolge ad una platea che crea meme direttamente in sala e che è abituata a sputare sentenze sui social. Qui non si potrà proporre una raffinata analisi sociologica (anche se Winnie The Pooh in chiave horror è il mito dell’infanzia perduta che si rivolta contro di noi e la nostra presunta adultità). No, non varrà la pena farlo perchè già ne abbiamo letto abbastanza, o perchè no, davvero, l’horror su Winnie The Pooh non l’avrebbe girato manco Peter Jackson o Sam Raimi da giovanissimi per scommessa. Il che magari è un merito, e non ce ne siamo ancora accorti.

    Resta il fatto che un film traumatizzante del genere non può che essere figlio dei tempi dissacranti, privi di eroi, conformisti, cinici e violenti in cui ci troviamo a vivere nostro malgrado. Non è uscito negli anni Ottanta dei satanic panic, non è uscito nei Settanta delle sette ambigue e manipolatrici, nè nei Novanta dell’uso disinvolto di droghe: è uscito oggi, in tempi feroci e a loro modo traumatici, in cui poco o nulla importa del piano simbolico e tutto si sposta sul piano visivo, emozionale, shockante, jump scare. Tempi in cui la paura non è più metafora o metonimia, ma vira sul gusto di shockare fine a se stesso, e tanto basta. Come un bambino viziato e troppo cresciuto, di quelli che si divertono a distruggere i propri giocattoli, rinnegando il passato e cancellando il futuro. Figlio dei tempi, per l’appunto.

    Di OswaldLR - DVD, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=6296170
    Di OswaldLR – DVD, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=6296170

    Con un qualcosa in più, o in meno (dipende dai punti di vista), o con il vincolo di dover per forza di cose accettare quel punto di vista dissacrante, grottesco (e spesso sostanzialmente gratuito) con cui Winnie The Pooh, da orsetto innocuo e spensierato possa diventare un serial killer feroce, addirittura creativo nelle soluzioni che riesce a trovare per uccidere, a cominciare da quella con cui miete una delle prime vittime (usando un gigantesco tritacarne).

    Il film, peraltro, è zeppo di citazioni più o meno esplicite al mondo dell’horror classico, a cominciare dalle soluzioni omicide originali tipo Freddy Krueger a finire agli assassini simbolici, cruenti e creativi di Venerdì 13, Halloween e così via. Ma anche qui: non sembra esserci abbastanza sostanza per poter proporre un qualche paragone degno, che non vada per la consueta celebrazione auto-indulgente dei classici da parte di cineasti incalliti, che forse oggi è un po’ superata dai tempi.

    Che cosa mi vuoi fare? Perchè stai facendo tutto questo? Lasciala andare: hai ucciso troppe persone, Pooh. C’è ancora del buono in te.

    Winnie the Pooh horror, signore e signori. Winnie, con quel tuo ghigno assente, a metà tra l’espressione inquietante di Michael Myers (stalker mostruoso che puniva il desiderio sessuale e i suoi annessi) e quella ontologicamente incazzata di Jason Voorhees (figlio abbandonato da una madre poco presente e oppressiva), si esplica col suo evidente richiamo simbolico al mondo dell’infanzia violata, al fatto che viviamo in uno dei periodi più polarizzati e orrorifici di sempre, al fatto che se davvero non ci è rimasto nemmeno Winnie The Pooh a tranquillizzarci e non mandarci in overthinking, è davvero il caso (forse) di cambiare registro. E mentre ce ne capacitiamo l’ennesimo villain è sempre lì, pronto a punire una nuova giovinezza inconsapevole, vanitosa e traumatizzata, sia pure a costo di farci più ridere che spaventare. Ma anche qui: il riso indotto da certe scene cruente (o improbabili) di Winnie the Pooh: Sangue e Miele è il riflesso di un tabù che non sappiamo accettare, che forse mai accetteremo, e che (se fosse il caso di specificarlo) difficilmente piacerà ai fan “nudi e puri” del cartone originale.

    “È stato Pimpi, quel sadico, si è divertito a torturarmi. Non c’è un motivo. E io non me ne andrò di qui finchè lui non sarà morto. Vieni qui Pimpi, porco schifoso!”

    Per quanto la critica abbia tendenzialmente massacrato questo titolo, è impossibile non riconoscerne qualche merito, in fondo. Non è un horror autoriale, ovviamente, e ci mancherebbe pure. Non c’è l’approfondimento psicologico degno di nota, o forse ce n’è solo un accenno vago: una delle universitarie protagoniste è reduce da un percorso di terapia dopo essere stata assaltata da uno stalker. Questo in fondo è  solo un horror slasher come miriadi ne sono usciti in passato, con l’idea originale di dissacrare un innocente cartone per bambini ed urlare al pubblico di averlo fatto.

    Credits: imdb.com

    Qualsiasi cosa ciò possa significare, in effetti, e con le stesse riserve che abbiamo espresso nel giudicare altri horror analoghi (ce ne sono pure troppi, su questa falsariga) a volte pure di buon livello, ma anche eccessivamente autoindulgenti e compiaciuti di ciò che mostravano. Eppure qui – al netto di tamarrate assortite, soprattutto perchè decontestualizzate – la sostanza si affaccia, a volte, sia pur in modo destrutturato e quasi privo di trama, con ragazzi dai mille problemi e con grottesche (e consuete per il genere) tendenze suicide, mentre Pimpi e Winnie si aggirano nel film ad uccidere gente un po’ a casaccio.

    Credits: imdb.com

    La parte migliore del film, del resta, rimane quella realizzata tipo cartone animato dei minuti iniziali, dotata di una sua solenne dignità e maestria: Cristopher Robin ha smesso di giocare con Winnie e gli altri, è cresciuto, è andato al college, ha scoperto la sessualità, adesso ha una moglie, una vita adulta, un lavoro, e non può più pensare agli animaletti della sua infanzia con cui tante esperienze aveva condiviso. Se facciamo morire la dimensione immaginaria del gioco, in altri termini, siamo destinati a pagarne le conseguenze, mediante la simbolica rivolta dei giocattori dell’infanzia che, a ben vedere, conosciamo almeno dai tempi dell’iconico La bambola assassina. Gli animaletti diventano animalazzi (cit. Simpson) sempre più feroci, regrediti allo stato brado e dediti al cannibalismo per vendetta. Soprattutto, odiano Cristopher Robin, il quale li ha, dal loro punto di vista, abbandonati nel bosco, dove hanno assistito loro malgrado alla morte di uno di loro e dovuto cavarsela da soli.

    Estremo paradosso, Winnie the Pooh: Sangue e Miele non è affatto il vero Winnie the Pooh, se non attraverso richiami ai personaggi (Tigro è stato escluso per motivi di copyright, a quanto pare), e non può fare a meno di Winnie the Pooh originale, perchè in fondo se non ci fossero lui e il buon Pimpi, questo sarebbe l’ennesimo slasher anonimo di cui tra un mese non ricorderemmo neanche il titolo. E allora, forse, vale la pena dare una possibilità al film, sia pure con riserva e con l’idea di essersi tolti la strana curiosità di vederlo.

    Ammesso che, ovviamente, vi aggradi realmente l’idea di assistere a questa insana trasformazione, cosa tutt’altro che ovvia.