FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • The Den: chat-roulette e serial killer dal dark web

    The Den: chat-roulette e serial killer dal dark web

    Elizabeth è una studentessa universitaria incaricata di studiare un campione di persone che interagiscono con una chat-roulette, ovvero una videochat ad interlocutori casuali (The Den potrebbe tradursi come “il covo”); dopo aver incontrato persone di ogni genere, assiste ad un omicidio in diretta.

    In breve. Un serial killer che si annida nel dark web: è questa l’idea alla base di uno slasher modernizzato, “ambientato” quasi interamente in una chat. Può sembrare banalotto, ma non lo è.

    La caratteristica principale di The Den è che la maggiorparte del film – non tutto – viene ripreso dall’interno di una chat, quindi mediante schermi di Mac e di smartphone. Siamo di fronte ad uno degli archetipi meglio realizzati di quella che a breve sarebbe diventata una tendenza – gli horror “virtualizzati” – da Unfriended (che è simile in tanti aspetti) fino ad un precedente altrettanto interessante: l’ingiustamente sottovalutato Smiley (che condivide la presenza di Melanie Papalia come attrice).

    Ogni cinefilo che si rispetti diffiderà per forza di cose da un film girato in webcam, ma questo soprattutto per una forma di legittimo “purismo” (qui parzialmente ingiustificato: i mezzi visivi non latitano, e non c’è monotonia), ma soprattutto memore del precedente argentiano de “Il cartaio“, storia di un killer su internet con videopoker non troppo amato dai fan, quanto immensamente premonitore del filone (è un film del 2004, un anno in cui neanche esistevano cam in HD).

    Se da un lato la visione di un omicidio in webcam sembra poveristica quanto improbabile o voyeuristica (la protagonista assiste ad uno snuff in diretta, ed è questo che farà degenerare la storia), è la tecnologia ad essere la vera protagonista: fin dall’inizio, infatti, finiamo per curiosare via computer tra i vari momenti privati della giornata di Elizabeth, anche quando non sta facendo alcuna ricerca – testandone così umore, sentimenti e legami con l’esterno.

    Tutte cose che non vedremmo in questa veste con una telecamera ordinaria, e che viene affidata a situazioni realistiche, forse al limite del semplicistico quanto “appetitose” per lo spettatore, il quale ha la sensazione di spiare davvero nella vita intrigante e nei segreti di una ragazza. Del resto se la parvenza vuole essere quella di real life, o esperimento di vita vissuta che chiunque potrebbe vivere (le chat roulette esistono sul serio, e sono un’esperienza dai tratti effettivamente inquietanti), resta una considerazione di fondo sul fatto che ad Elizabeth piaccia davvero scoprire il “lato oscuro” delle stesse, al di là del fatto che ci sia una borsa di studio a finanziarla. Ed il pubblico è messo davanti a questa situazione prima di qualsiasi altra considerazione, e prima della rivelazione – totalmente realistica – di ciò che si nasconde dietro i delitti. The Den è soltanto un software, un mezzo che porta (non è chiaro se incidentalmente o volutamente) alla morte ed alla sua osservazione morbosa.

    L’aspetto hacker, in questo dilagare di tecnologia quotidiana, è quello che finisce per spaventare sul serio col trascorrere dei fotogrammi: una tecnologia che sembra ribellarsi al controllo della protagonista, non solo riattivandosi autonomamente – ma anche registrandola a sua insaputa ed inviando i filmati via email. Se tutto questo poteva sembrare fantascientifico anni fa, con lo sviluppo tecnologico di oggi sappiamo che tutto ciò è non solo possibile, ma già successo: si pensi ai software RAT, ai ricatti online con video intimi, ai software di controllo remoto o alle attività di spionaggio di chi produce di malware.

    La stessa protagonista, del resto, finisce vittima di un clickjacking, seppur ciò in realtà possa avvenire in casistiche circoscritte (per fortuna). A questo punto, in ottica modernizzatrice del genere, qualsiasi zombi o irrealistico villain dovrebbe farsi da parte in favore di questo orrore (quantomeno filosoficamente) cyberpunk, calato in una fantascienza che viviamo e che ci illude con il mito più difficile da combattere: quello dell’esistenza di un “mondo virtuale” (vedi la polizia che non da’ importanza alle denunce di Elizabeth), quando si tratta più propriamente di un mondo interconnesso.

    Del resto se si pensa allo sviluppo della trama, c’è qualche feeling che potrebbe richiamare Hostel, un film in parte degradato da un’etichetta semplicistica (torture porn), ed a cui il regista sembra essersi ispirato per più di un aspetto. Forse è proprio quest’ultimo, un virtuale che diventa realtà, a rendere il film nettamente superiore a qualsiasi altro epigono del virtual horror.

    Da un punto di vista di collocazione di genere, The Den si colloca a pieno diritto nello slasher modernizzato, dove le componenti di base sono quelle di sempre (il college, il killer di ragazzi), giusto posizionate in una moderna videochat. Il richiamo al sottogenere inventato – tra gli altri – da Non aprite quella porta sembra adeguato, del resto, se si pensa ad un killer dalle fattezze vagamente simili a Leatherface. Al tempo stesso, Donohue insiste parecchio sull’aspetto “guardone” della trama non a sproposito, utilizzando telecamere non convenzionali (a circuito chiuso, portatili, di uno smartphone, di un PC) come unico “occhio” per conoscere la realtà, conferendo peraltro un vantaggio enorme al killer, che si annida tra esse e che agisce come un “Grande Fratello” (vede tutto senza essere quasi mai visto).

    Questo lo porta registicamente ad abusarne anche quando non sarebbe necessario, ma tutto sommato riesce a risolvere in modo eccellente quasi ogni scena, fino ad un finale in crescendo e ad una discreta sorpresa conclusiva. Sarebbe bello pensare di aver di fronte una vera, nuova generazione di horror che parta da qui, ma Zachary Donohue è al suo primo – e ad oggi unico – lungometraggio: meglio andarci cauti prima di parlare di un vero e proprio cult, ma sicuramente si tratta di un ottimo horror passato inosservato ai più, di cui probabilmente riconosceremo i meriti solo tra qualche tempo.

  • Ultimo mondo cannibale: l’insostenibile visionarietà del genere cannibalico

    Ultimo mondo cannibale: l’insostenibile visionarietà del genere cannibalico

    Un gruppo di persone si reca nella giungla di Mindanao per una ricerca petrolifera: l’accampamento è di fatto deserto, e tutte le persone che erano lì sono state uccise dai Manabu…

    In breve. Un cannibal italiano classico ed iper-violento: visione destinata ai patiti del genere ed ai cinefili più incalliti. Serve una buona dose di predisposizione mentale a vederlo, oltre ad un (in)sano gusto voyeuristico.

    Disgustato dai consueti caroselli televisivi, e col sonno che tarda ad arrivare, mi decido a vedere il mio primo cannibal movie: sarà “Ultimo mondo cannibale” di Ruggero Deodato (1977), regista di culto che pare ami parecchio insistere sui dettagli truculenti ed inserire molti inserti documentaristici (animali uccisi realmente) nelle sue opere. Valore storico da premettere: pare che sia il primo cannibal italiano degno di questo nome. Stasera… forse pensieri negativi di troppo, delusioni che si affacciano nei ricordi senza un vero perchè. Ok, devo darmi una scossa. Questo, molto sinceramente, mi sono detto qualche minuto prima di visionare il film in questione per giustificare in qualche modo una visione che, per la cronaca, se non avessi un blog che parla di cinema difficilmente avrei fatto assieme ad amici e parenti.

    Quando guardate “Ultimo mondo cannibale“, è da premettere: scordatevi del Macbook, del disinfettante, della doccia con temperatura regolabile, del bagno appena pulito, dei vestiti targati Nike o Armani, delle mutande firmate, della TV, del cellulare, dell’iPad, del rasoio elettrico, dei vostri amici. Che vada nell’oblio anche il vostro pudore, dato che sarà messo a dura prova. Dimenticate di essere “civilizzati”, insomma: perchè solo così quest’opera avrà un’effetto catartico su di voi, ammesso che riusciate ad arrivare alla fine (e non sarà affatto banale). Esagero? Di sicuro, non azzardatevi a vedere “Ultimo Mondo Cannibale” con l’occhio da ingenuo “modernista”, perchè vi risulterà una schifezza grottesca e senza senso. Preparatevi invece a sorbire formiche che passeggiano su ferite aperte, uomini trafitti da trappole mortali, e, non ultimi, atti di cannibalismo espliciti, di duro impatto e certamente non per tutti gli stomaci.

    A proposito, la trama: quattro persone si recano nella giungla alla ricerca di petrolio ma la legge che troveranno è, neanche a dirlo, esattamente quella della giungla. Un film che colpisce nel segno, letteralmente con il mirino di precisione, e che non lascia scampo come molti altri pari in termini di exploitation (penso a The day of the woman). Due degli uomini saranno divorati dai non socievolissimi autoctoni, gli altri riusciranno solo a perdersi nella giungla, mentre il protagonista Robert Harper (l’italiano Massimo Foschi) sarà catturato da un’altra tribù, e sottoposto ad un trattamento non propriamente a base di “the delle cinque“. Spogliato, deriso, preso a sassate, usato come orinatoio ed umiliato sessualmente, l’uomo viene rinchiuso in una gabbia e sottoposto incessantemente allo scherno dei suoi carnefici.

    Welcome to the jungle, altro che Guns’n Roses ed il loro “Appetite for destruction“: ridotto all’esasperazione e trattato come una bestia qualunque, il protagonista di “Ultimo mondo cannibale” vive le sue uniche fortune nel fatto di trovare una simpatia reciproca con un’indigena (interpretata da Me Me Lay) e nel fatto di riuscire progressivamente a comunicare con gli uomini del posto. Parentesi doverosa: ho trovato perfettamente inutili le violenze (a quanto pare verissime) sugli animali (un serpente ed un coccodrillo sventrati dagli indigeni), che non aggiungono un beneamato nulla a quanto non sia già stato visto, se non violenza fine a se stessa. Del resto Deodato è sempre stato così: prendere o lasciare. La mia non vuole essere un’opinione vuotamente buonista e detta “tanto per” prendere le distanze, anche perchè il film l’ho visto comunque come migliaia di altri spettatori (in)consapevoli: se da un lato puo’ sembrare sacrosanto ritenere che sia stupido sacrificare degli animali per un film, dall’altra bisogna riconoscere una buona volta che se le cose rappresentate ricalcavano quanto la tribù del posto faceva sul serio, bisogna addirittura riconoscere il valore semi-documentaristico dell’opera, per quanto al limite del mockumentary. Nel seguito, vediamo il nostro protagonista riuscire a fuggire, portando ovviamente con sè la signorina appena conosciuta, con la quale fa sesso open-air senza neanche accertarsi che la stessa sia d’accordo: il tutto dopo aver assistito all’ennesimo barbaro omicidio (una donna che da’ in pasto ad un alligatore il figlio appena partorito) e dopo un bel bagnetto con le sanguisughe che gli si attaccano dappertutto.

    “Ultimo mondo cannibale” ti resta crudelmente appiccicato addosso, anche dopo la visione. Si trova il tempo per qualche considerazione americaneggiante (“il problema non è soltanto arrivare all’aereo per andarcene, ma è anche arrivarci vivi!”), per alcune elucubrazioni sociali sulla catena alimentare.

    (giungla, lotta per la sopravvivenza, reminiscenze di Predator e di Arnold. Schwarznegger…)

    Il finale offre una bella “chicca” che mostra come Robert, dopo tanta sofferenza subita e dopo lo smascheramento delle proprie debolezze agli occhi degli indigeni, mostra di aver capito perfettamente la mentalità degli uomini del posto e fa l’unica cosa, per quanto orribile possa essere, che avrebbe potuto fare per uscire vivo dalla situazione pazzesca che sta vivendo. Tutto questo è “Ultimo mondo cannibale“: zenith di un genere che durerà solo qualche altro anno, per poi scomparire definitivamente, e rimanere come oggetto di culto solo per alcuni.

  • La casa nera: un horror sociale esplosivo e tagliente

    La casa nera: un horror sociale esplosivo e tagliente

    Brandon, un ragazzino afroamericano di classe sociale disagiata, si lascia convincere da un amico della sorella (Leroy) a commettere un furto in una villa: il gesto è deprecabile, ma le sue motivazioni sono nobili: necessita dei soldi per pagare le cure alla madre, gravemente malata (e la sanità privata negli USA non lascia margine, per questo). Inquietanti presenze si nascondono all’interno della lussuosa abitazione, mentre i padroni di casa sono completamente fuori di testa…

    In breve. Craven un po’ sottotono rispetto alla media, forse, comunque artefice di un lavoro intrigante, con molta tensione al proprio interno e piuttosto diretto. Il tono da favola horror che caratterizza la pellicola rischia di essere frainteso, da parte di qualcuno del pubblico, come mera superficialità e colorazione semplicistica: rimane comunque un buon film con poco splatter e permeato di aspra critica sociale. Finale che più catartico non si può.

    Sostanzialmente si tratta di una favola nera, un racconto che potrebbe essere stato adattato da una storia classica di orchi malvagi e che, per certi versi, dinamiche e battute facili richiama le avventure per ragazzi alla Goonies. Questo ovviamente non deve assolutamente farvi credere che si tratti di un film per famiglie, dato che di scene piuttosto spaventose ce ne sono in abbondanza e, di fatto, sono i rapporti tra i personaggi che riescono già a risultare paurosi di per sè. Da un lato, infatti, una famiglia povera di afro-americani, di cui il più giovane figlio si lascia convincere dalla “cattiva compagnia” di turno a compiere un furto per pagare le cure alla madre, malata di cancro. Dall’altro, in un conflitto magistrale che avvince lo spettatore, una coppia di coniugi razzisti – in realtà si tratta di fratello e sorella – emuli della strega cannibale di Hansel & Gretel, rapiscono ragazzini e li fanno crescere di stenti come se fossero degli animali, arrivando a mutilare quelli che non considerano “figli perfetti”. Unica notevole eccezione è la giovane ed insicura Alice (sic, come quella nel Paese delle Meraviglie), totalmente succube dell’autorità dei due adulti, fornita di una candida cameretta ma costretta a subire vessazioni ed umiliazioni continue.

    Vedere “La casa nera” oggi (anche in vista di un’imminente riedizione in DVD anche in Italia) è un’esperienza consigliata per il pubblico generalista, ed un must per i fan di Craven: un film forse non eccelso, classicamente da seconda serata sulle televisioni commerciali, di buon livello e con tanto di finale ottimistico. Una cosa, quest’ultima, che potrebbe risultare piuttosto weird per chi sa bene quanto sia allergico all’happy end Wes Craven, e costruita con impeccabile abilità narrativa. Di fatto ci troviamo sulla media del genere: scene di sangue appena sopra la soglia del sopportabile, buon livello di tensione e a livello di contenuti l’ex professore regista non le manda a dire. Infarcendo la trama di elementi di polemica politico-sociale – e, aggiungerei, di critica ferocissima al capitalismo ed al razzismo, feroci quanto dalla facciata rispettabile – il regista di Nightmare ha proposto una piccola perla nel suo genere che richiama lo spirito del cult Society di Yuzna, pur essendo quasi del tutto privata della componente più gore.

    Di fatto “People under the stairs” – titolo originale e decisamente più suggestivo dell’anonima “casa nera” della versione italiana – è un frammento di cil che l’ horror americano non sarebbe mai più stato: uno scorcio di buon cinema del terrore anni 80, a quel tempo ormai agli sgoccioli, sporco, venato di humor nero, forse semplicistico per certi versi ma morboso al punto giusto, capace sia di focalizzare l’attenzione su aspetti seri (su tutti, le conseguenze e le motivazioni di un’educazione repressiva, cosa che peraltro avviene anche ne “L’ultima casa a sinistra“) che, come accennavo poco fa, tiene lo spettatore saldamente inchiodato alla poltrona. E quando i due rapinatori rimangono intrappolati nella casa che avrebbero voluto scassinare, con un feroce rottweiler alle calcagna, è un’esplosione di orrida claustrofobia a cui sarà difficile rimanere indifferenti.

    Curiosi, a mio avviso, i parallelismi che si possono proporre tra “La casa nera” e Pulp Fiction (che uscirà tre anni dopo): a cominciare dalla ristrettezza dell’ambiente interno/cantina dell’armeria del film di Tarantino, località in cui i personaggi si trovano quasi per caso, a continuare con la sensazione di trappola mortale che coinvolge direttamente gli spettatori, passando per lo spiccato realismo della violenza e, come se non bastasse, per la tuta nera indossata dal maniaco padrone di casa, identica a quella dello storpio torturatore di Marsellus Wallace. Certo l’omaggio potrebbe essere del tutto casuale (e sarebbe stato fatto da Tarantino nei confronti di Craven, ovviamente), ma resta il fatto che Ving Rhames interpreti sia il sadico Wallace che il povero Leroy, rimanendo quantomeno come richiamo visuale suggestivo tra due pellicole, al netto, piuttosto diverse tra loro.

    Forse Craven ha badato troppo all’aspetto socialmente critico, rischiando così – come mai avviene nei lavori di Romero – di far perdere mordente alla trama, mentre di per sè l’ ossessione per il messaggio politico non è neanche troppo originale per il cinema di questo tipo: senza che stia qui a snocciolare esempi, la critica alla famiglia pseudo-buonista la troviamo già in Hooper a più riprese, e proponendola negli anni 90 si rischia di scivolare pericolosamente nel già visto. Buona, comunque, l’idea di trasporre l’incubo quasi esclusivamente dal punto di vista del giovanissimo protagonista, il che conferisce un tono avventuroso alla pellicola il che, a livello di intrattenimento, di sicuro non guasta. Immancabile, infine, l’omaggio a Nightmare esplicato nella preghiera pronunciata dai due terribili protagonisti.

  • La morte dall’occhio di cristallo appare tra Lovecraft e Boris Karloff

    La morte dall’occhio di cristallo appare tra Lovecraft e Boris Karloff

    Stephen (Nick Adams) arriva nella cittadina di Arkham per incontrare la propria compagna, ma il solo nome della villa di lei suscita una reazione isterica da parte dei cittadini. Molto presto usciranno fuori dei misteriosi segreti che hanno letteralmente contaminato l’ambiente…

    In due parole. Ispirato al celebre “Colore venuto dalla spazio” di H. P. Lovecraft (e rifatto in modo decisamente più incisivo, in tempi recenti, dall’italiano Zuccon), è un film piuttosto riuscito di per sè, pur senza veri e propri sussulti e nonostante la presenza dell’immenso Boris Karloff. Da vedere, più che altro per devota curiosità.

    Uno dei tantissimi esempi di horror vagamente archetipico e nella media del genere, dal quale i registi degli anni futuri attingeranno in parte: il presentarsi di alcune situazioni come la coppia che lotta contro l’entità ostile e la mentalità bigotta delle generazioni precedenti, produce un film certamente di un qualche valore storico benchè privo di spunti che facciano gridare al miracolo. Certamente filmare il “colore” di Lovecraft non era facile – piuttosto suggestive, a tale riguardo, le immagini iniziali e finali – e nonostante si possano condividere le considerazioni di Zuccon sull’argomento resta una sostanziale insoddisfazione dopo aver visto questo “Die, monster, die!“. La bellezza di Suzan Farmer riesce a farsi notare più della trama stessa, piuttosto esile di per sè e nonostante qualche sprazzo notevole: su tutti, non tanto la pianta rampicante aggressiva (stereotipata forse già allora) quanto la scoperta dello “zoo infernale” fatto di orridi animali deformi (quelli sì, usciti dai peggiori incubi lovecraftiani).

    Del resto solo qualche accenno di tensione, quattro provinciali ostili e la contrapposizione tra l’atteggiamento gretto di alcuni ed il progressismo di altri non riescono a fare di questo film un Vero Film Horror. Troppo poco, insomma, per gridare ad un miracolo o ad un film davvero degno di ntoa, senza per questo trascurara la prestazione sopra le righe dell’inquietante Karloff, padre-padrone autoritario e sicuro di sè, che non vorrà sentire ragioni fino alla fine. La mutazione delle persone in mutanti verdognoli, inoltre, richiama anch’essa qualcosa di già visto in altre sede, ed è talmente poco curata da rischiare di divenire fonte di ispirazione per un episodio dei Simpson.

    La morte dall’occhio di cristallo” è così: non un brutto film, sia chiaro, per quanto prendere o lasciare sia ad esclusiva scelta della spettatore.

  • The ABCs of death 2 è perfetto per voi se amate i micro-horror a episodi

    The ABCs of death 2 è perfetto per voi se amate i micro-horror a episodi

    Una nuova antologia horror di 26 nuovi cortometraggi, dall’andamento meno altalenante del precedente capitolo ed accomunati dalla stessa tematica. Come nel caso precedente, gli episodi migliori sono stati sottolineati.

    In breve. Antologia dell’horror moderno basato su un’idea semplice e molto generale: una lettera dell’alfabeto assegnata ad ogni regista, un format imposto quale cortometraggio e nessun vincolo, a parte dover legare le varie storie alla morte. Segue la precedente raccolta ABCs of death: anche in questo caso si alternano esperimenti, idee discrete ma non inedite, ottimi corti e qualche banalità e forzatura. Contraddicendo la nota regola secondo lui i primi sono sempre i migliori, e dovendo scegliere, converrebbe forse optare per questo secondo che per il suo predecessore.

    A is for Amateur (di E. L. Katz). Un killer viene assoldato per uccidere uno spacciatore; l’uomo dovrà penetrare nell’appartamento della vittima camuffandosi da operaio, per poi fare fuoco col proprio silenziatore. Le cose, pero’, non andranno come previsto (da cui il riferimento all’amatorialità): un primo, curioso saggio del thriller-horror, ben diretto ed interpretato, e con un finale grottesco e sopra le righe.

    B is for Badger (J. Barratt).Il badger non è altro che la talpa (Badger), oggetto del documentario di un insopportabile showman: l’animaletto in questione è stato, infatti, contaminato dalle radiazioni. Toni tragicomici sulla falsariga del precedente corto, accettabile nel suo complesso.

    C is for Capital Punishment (J. Gilbey). Gli abitanti di una comunità chiusa e retrograda incolpano, si scoprirà ingiustamente, un uomo della scomparsa di una ragazzina. L’andamento fatalista della storia riflette un duro messaggio politico contro la pena di morte: per l’appunto, Capital Punishment.

    D is for Deloused (R. Morgan). Film di animazione realizzato in clay-motion, con protagonista un enorme insetto (un pidocchio, da cui Deloused ovvero spidocchiare), che resuscita misteriosamente dal sangue di un assassino ed offre alla vittima la possibilità di vendicarsi. Ovviamente l’inganno è dietro l’angolo: altro corto notevole.

    E is for Equilibrium (A. Brugués). Simpatica storia di due naufraghi e degli equilibri (Equilibrium) che si spaccano con l’arrivo di una immancabile naufraga. L’horror e la morte sono, in questo caso, poco meno di un accenno, per cui il risultato – per quanto divertente  e ben realizzato – sembra c’entrare poco col contesto. Un problema che si ripropone anche in questa antologia sono i corsi apparentemente fuori contesto e poco legati alle premesse horror e mortifere della trama.

    F is for Falling (A. Keshales, N. Papushado). Una militare israeliana si imbatte casualmente – dopo una caduta dal paracadute, Falling – in un ragazzino palestinese: la storia diventa simbolo della frattura, insabile, tra due popoli. Anche qui, poco e per nulla horror ma tanta sostanza.

    G is for Grandad (J. Hosking). La storia, tra il serio ed il faceto, di un nipote ed un nonno e dell’odio che covano, segretamente, l’uno per l’altro. Rimane il vero oggetto misterioso dell’antologia, si fatica a coglierne il senso ma lo spirito horror grottesco oltre che claustrofobico c’è tutto.

    H is for Head Games (B. Plympton). Un bacio tra un uomo ed una donna che si trasforma, mediante associazione di idee o flusso di coscienza (head games, giochi mentali) in un turbine di emozioni impalpabili e indefinite. Non male nel suo complesso, ma poco comprensibile, senza contare che – anche qui – la morte e l’horror passano ancora una volta in secondo piano.

    I is for Invincible (E. Matti). Una centenaria (120 anni, si dice) è oggetto del tentativo dei familiari di farla fuori: peccato che sia, come suggerisce il titolo, Invincible!

    J is for Jesus (D. Ramalho). Torture porn (come andava di moda definirli anni fa) che simboleggia l’assalto brutale della morale religiosa contro gli omosessuali; due religiosi, infatti, fanno rapire un uomo ed ucciderne il compagno, sottovalutandone il ritorno e la vendetta in forma di inquietante demone. Uno dei punti più alti della raccolta, qualitativamente parlando: peccato che il riferimento a Jesus (Gesù) sia leggermente forzato.

    K is for Knell (K. Buožytė, B Samper). Questa coppia di registi presenta la storia di una donna che nota una nube nera che rende gli uomini degli assassini. Presto verrà a farle visita, concludendosi in un finale per certi versi poco chiaro. Il knell del titolo dovrebbe essere un “rintocco funebre”.

    L is for Legacy (L. O. Imasuen): Un sacrificio umano viene interrotto nel momento culminante, ed un topo viene ucciso al posto della vittima prescelta; compare così un demone che, probabilmente per vendicare ciò che considera un inganno, uccide la popolazione del villaggio col semplice contatto. Non memorabile.

    M is for Masticate (R. Boocheck): Senza un apparente motivo, un uomo barbuto e corpulento corre per strada in mutande, aggredendo a casaccio chiunque incontri; poco prima di essere fermato dalla polizia, morde (Masticate, per l’appunto) un malcapitato. La causa del tutto viene spiegata con un flashback dal retrogusto tarantiniano.

    N is for Nexus (L. Fessenden): Ad Halloween, un uomo vestito da Frankstein si affretta a raggiungere la fidanzata. Il ritmo è frenetico e si insiste su guidatori imprudenti e distratti: Nexus non è altro (o almeno dovrebbe essere) l’incrocio fatale, inteso come connessione fisica.

    O is for Ochlocracy (mob rule) (Hajime Ohata). Una donna viene condannata a morte da un grottesco tribunale fatto interamente da morti viventi, capaci di sfruttare un vaccino in grado – secondo loro – di eliminare gli effetti dell’infezione. Un testimone del processo, ad esempio, è solo una testa (!) a cui viene sottoposto il farmaco, inizia ad urlare e tanto basta perchè la sua sia considerata una prova. Uno degli episodi più originali dell’antologia, senza dubbio, e forse uno dei più raffinati: l’oclocrazia del titolo, per inciso, non è altro che una degenerazione della democrazia, in cui il potere delle masse diventa legge assoluta, al di sopra di tutto. A giudicare dalle degenerazioni attuali lamentate spesso sui social, appare come una profezia molto precisa.

    P is for P-P-P-P SCARY! (T. Rohal). Un episodio surreale (girato in bianco e nero), che deve qualcosa al teatro dell’assurdo, si vedono tre evasi, in uno scenario buio, con un’atmosfera che richiama le commedie di inizio secolo scorso e, almeno in parte, la comicità slapstick, incontrano un uomo con in braccio un bambino: inizieranno a danzare, e poi spariranno (!) uno dopo l’altro. Quello di Todd Rohal è senza dubbio uno degli episodi più arthouse e meno mainstream della serie, difficile da valutare in sè e soggetto a preferenze / conoscenze regresse del pubblico che lo guarderà.

    Q is for Questionnaire (R. Ascher): Sottoposto ad un test di intelligenza per strada, un uomo scopre a sue spese che si tratta solo di un pretesto per un trapianto di cervello uomo-gorilla (!). Il tutto si sviluppa mediante un parallelismo di immagini realmente suggestivo. L’ultima inquadratura è realmente sorprendente.

    R is for Roulette (M. Kren): Una roulette russa che finisce in maniera del tutto imprevedibile, condotta da due uomini ed una donna nascosti in uno scantinato (non vediamo da cosa o chi si stessero riparando).

    S is for Split (Juan Martinez Moreno). Home invasion inquietante e diretta magistralmente, dalla trama intelligente e di ispirazione hitcockiana (per non dire argentiana sul finale): mentre è al telefono col marito, una donna viene assalita da un individuo incappucciato armato di martello, che agisce (come si scoprirà) per un motivo preciso. Uno dei migliori della serie, sicuramente il più compatto. Split significa “divisione”, in un senso ben precisato dal finale sorprendente.

    T is for Torture Porn (Jen e Sylvia Soska): Una donna – la modella e performer di burlesque Tristan Risk – viene molestata ed aggredita ripetutamente durante un’audizione; i suoi misogini antagonisti non hanno pero’ fatto i conti con una sua singolare caratteristica fisica. Parte bene, ma la sorpresa è forse banalotta ed in modo quasi surreale (sfiorando l’arthouse puro); nonostante tutto, discretamente realizzato.

    U is for Utopia (V. Natali): In un ipotetico prossimo futuro, dominato dalla “U” dello sfavillante ed elegatissimo brand Utopia, ovviamente all’interno un un asettico centro commerciale, un uomo  – dall’apparenza diversa da tutti gli altri, in realtà perfettamente normale –  viene prima puntato poi circondato dai suoi simili, per poi essere catturato da un drone-poliziotto che lo brucia vivo, in modo che non ne rimanga traccia. Il regista di Cube gioca con atmosfere distopiche e con le metafore dell’omologazione, colpendo nel segno in pochi minuti.

    V is for Vacation (J. Sable): Un uomo in vacanza con un amico comunica con la fidanzata mediante videochiamata; sarà proprio il compagno di viaggio a rivelare verità alquanto imbarazzanti, destinate a degenerare nel peggiore dei modi. Nonostante l’intero film sia ripreso dal punto di vista del videotelefono della ragazza, il corto è un buon equilibrio tra tensione e narrazione e si lascia guardare.

    W is for Wish (S. Kostanski): Partendo dalla pubblicità televisiva di un giocattolo ad ambientazione fantasy – e sulla scia di un non meglio precisato flusso di coscienza – due ragazzini vengono catturati da alcuni misteriosi esseri, e si trovano ad incontrare l’idolo di sempre: l’Uomo Fantasia. Idea senza dubbio originale, ma troppo breve, probabilmente, per essere considerata davvero degna di nota.

    X is for Xylophone (Julien Maury, Alexandre Bustillo): Ossessionata dal suono sordo di uno Xilofono giocattolo, una donna (Béatrice Dalle) arriva alle estreme conseguenze. Breve e brutale, come da tradizione Bustillo verrebbe da dire.

    Y is for Youth (Soichi Umezawa): I tormenti di una ragazzina difficile, trascurata da entrambi i genitori, che immagina una vendetta splatter nei confronti degli stessi; la storia si concluderà con la sua, forse definitiva, ribellione.

    Z is for Zygote (Chris Nash): Una donna incinta viene abbandonata dal marito, preda di mille paure e tormenti; assume periodicamente una misteriosa radice, una “medicina” che permette al nascituro di crescerle letteralmente dentro al corpo. Trascorrono molti anni e la donna è convinta di sentirlo parlare dentro di sè, fino ad un gran guignol di splatter – molto crudo – in cui il figlio arriva a prendere organicamente le sembianze della madre. Al rientro del marito, sembra chiaro che il tutto abbia simboleggiato un aborto dal punto di vista della stessa.