FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Noroi The Curse: il mockumentary paranormale di Shiraishi

    Noroi The Curse: il mockumentary paranormale di Shiraishi

    Masafumi Kobayashi, giornalista che si occupa di paranormale, scompare misteriosamente dopo l’incendio della sua casa, episodio che provoca la morte della moglie. L’uomo aveva appena realizzato un documentario che indagava su alcuni singolari fenomeni paranormali…

    In breve. Nonostante i presupposti non siano incoraggianti e la tagline di apertura – “Questo documentario è ritenuto troppo inquietante per una visione pubblica” – rischi di far sorridere il pubblico più smaliziato, “Noroi” sa ben raccontare una storia in stile falso-documentario, sia con grande consapevolezza dei mezzi che con buona scelta di intreccio, personaggi ed ambientazione. Una versione riveduta, arricchita e corretta di The Blair Witch Project, con numerosi pregi rispetto a questa citatissima (e sopravvalutata) pellicola. Un film avvolto da una spirale di sovrannaturale mai di bassa fattura, e dal taglio quasi “scientifico”: da non perdere.

    Kagutaba: a tool that is capable of causing disasters

    Noroi è un film ancora non disponibile sul mercato italiano, ma che si rivela piuttosto interessante ed originale, pur eccedendo in un unico difetto (l’eccessiva lunghezza: circa due ore): i suoi pregi lo rendono comunque consigliabile, specie se collocato all’interno di un genere che, ad essere onesti, troppo spesso si limita a fare rehash di luoghi comuni, storie e personaggi già visti in decine di altre salse. Del tutto privo delle caratteristiche che rendono detestabile il genere (vedi le riprese troppo traballanti e l’eccessiva essenzialità degli intrecci), Noroi merita una visione da parte del pubblico horror di ogni “ordine e grado”. Diversi sono i dettagli, infatti, che sono degni di essere raccontati: il rituale del demone Kagutaba, l’enigmatico comportamento del sensitivo freak, la comparsa di un dettaglio durante la seconda visione della videocassetta, dinamica che cheggia quasi il gioco di specchi dietro il quale si cela l’assassino di Profondo rosso. Il nastro del mockumentary, preannunciato come “troppo sbalorditivo per essere immaginato“, finisce poi per suggerire indirettamente la strategia del regista Shiraishi: puntare fin dai primi fotogrammi su ambiguità svelate progressivamente (a volte solo basandosi su suggestioni inquietanti) che dovrebbero far vedere – da un momento all’altro – qualcosa di orrorifico allo spettatore.

    E, di fatto, la scelta di mostrare quasi subito la maschera dagli occhi cavi del demone Kagutaba indica che non si tratta del solito gioco di accenni, suggestioni e rimandi mai esplicitamente mostrati: l’orrore è suggestivo, tangibile e concreto, per quanto suggerisca più malattie psichiche o mentali che vere e proprie entità maligne. Il vero protagonista della pellicola, ovvero l’occhio vigile e mal celatamente voyeristico della telecamera (vedi Peeping Tom o Marebito), cerca di filmare il non-filmabile, di indagare a fondo sui vari livelli di realtà per cercare di imprimere su nastro ciò che si nasconde sotto un ennesimo velo di Maya. Il tutto, come si conviene, tendendo progressivamente un filo della tensione, mantenuto piuttosto credibile fin dall’inizio, e schematizzando il film in micro-sequenze quasi a sè stanti, mediamente di cinque minuti ciascuna. Concentrandosi su vari aspetti del paranormale (ESP, telecinesi e via dicendo), e frammentando con cura le scene – che questa semplice tecnica fanno diventare una continua scoperta per lo spettatore – fanno sì che, pur inserendo topoi del terrore già usati in altre pellicole (le voci di bambini che piangono, la scomparsa della sensitiva e via dicendo) il film non risulti mai “già visto” o, peggio, malamente adattato. Tante sezioni, in definitiva, girate in modo amatoriale e con stili differenti, realizzando sostanzialmente un film vero e proprio che del mockumentary conserva più che altro la sola forma espressiva.

    La stessa definizione di shockumentary, di fatto, sembra in questa circostanza quasi castrante e limitativa, ed andrebbe utilizzata con le dovute riserve e specifiche del caso: Noroi conserva la struttura tipica di un horror paranormale, e non si perde nei dettagli che ipocritamente altri film promettono (senza mantenere) di mostrare. È quindi, in definitiva, il linguaggio accattivante e ben ritmato di “Noroi: The Curse“, a conti fatti, che risulta essere il suo principale punto di forza.

  • Suicide Club è il circolo della morte di Shion Sono

    Suicide Club è il circolo della morte di Shion Sono

    Tokio sembra essere in preda ad un’epidemia di suicidi: prima 54 adolescenti si gettano sotto un treno, poi un’infermiera si lancia nel vuoto e degli studenti emulano il gesto dal balcone della scuola. Un poliziotto indaga sulla questione scoprendo verità inquietanti…

    In breve. Diffidate da qualsiasi recensione o parere troppo entusiastico, perchè il film non riesce a cogliere nel segno. L’incipit è memorabile, senza dubbio, ma seguono troppi accenni, troppi elementi sconnessi, una certa smania di stupire e delle interpretazioni non sempre di livello. Un’idea che forse, in altri contesti, sarebbe potuta essere più accattivante.

    Diretto nel 2002 dal visionario Shion Sono (già noto per il terrificante e fuori dalle righe Strange circus), Suicide Club (noto anche con il titolo “Suicide Circle“) è a mio parere un film riuscito solo a metà: se da un lato scatena suggestioni impulsive – il suicidio è senza dubbio uno dei tabù più colossali della società moderna – e nonostante riesca a divagare con una certa coerenza, un sentito gusto per il grottesco e per l’esagerazione sul tema, ne risulta una pellicola ampiamente sopravvalutata e sopravvalutabile. Suicide Club, pertanto, evoca più la più classica delle occasioni perse.

    Non male il livello di splatter, per quanto molte scene siano ai limiti dell’artigianalità più grossolana(quasi a livello di certi b-movie italiani anni 80); decisamente più suggestive molte delle scene topiche, tra cui il suicidio in metropolitana che vediamo all’inizio, e le morti più improbabili che rivaleggiano con quelle viste in “Final Destination“. La parola “capolavoro”, tanto abusata in queste circostanze, ci deve ricordare che non basta scomodare temi forti per essere considerati cineasti di livello: è anche questo di come si racconta. Questo difetto, a mio avviso, si concretizza per almeno due ragioni: da un lato non si capisce quasi per nulla dove il regista sia voluto andare a parare (cosa piuttosto chiara, invece, nella metafora circense del succitato film), dall’altro la trama appare piuttosto sconnessa, caotica – in certi passaggi si fatica a capire cosa stia succedendo. Il finale è visionario o realistico, ad esempio?

    Nonostante alcune trovate crudeli quanto azzeccate – la cintura di pelle umana è destinata a scolpirsi nella memoria di tutti gli spettatori – vi sono troppi momenti di sottovuoto spinto che fanno calare l’attenzione, e non riescono (a mio parere, ovviamente) a coinvolgerlo come si dovrebbe. Eppure le idee non mancano, del resto il tema era ghiotto: il focus è posto sull’alienazione dell’uomo moderno, svilito da mille giocattoli futili e disumanizzato al punto di sentirsi “solo tra la folla” come unica, autentica, condizione di esistenza. Una solitudine lacerante che porta a voler terminare la propria vita anche senza una ragione, forse semplicemente perchè la società lo imporrebbe, con i suoi ritmi pressanti ed autodistruttivi. Altri cineasti hanno mostrato in questa direzione, e pur sviluppando trame a volte ai limiti dell’astrattismo puro (penso a Tetsuo, ma anche a Izo e a Der Todesking) sono riusciti a cogliere nel segno: il regista Sono, al contrario, concretizza diversi incubi metropolitani moderni in perfetta penombra, e mostra teenager incoscenti propensi a trovarsi una fidanzata con la stessa tranquillità con cui commetterebbero un suicidio di massa.

    Del resto non sarebbe stato male lasciare un punto interrogativo sulla natura dell’eventuale setta che sembra aver condizionato le menti dei giovani mediante internet: ma i particolari del puzzle appaiono distanti tra loro, troppo per parlare di un film davvero memorabile.

  • Freaks (1932): Tod Browning racconta le storie di veri fenomeni da baraccone

    Freaks (1932): Tod Browning racconta le storie di veri fenomeni da baraccone

    Hans è un nano da circo innamorato di una trapezista, la quale ne asseconda le galanterie solo per convenienza.

    In breve. L’unico difetto di Freaks è che non vedremo mai la versione uncut, perchè venne massacrata dalla censura per via delle reazioni negative del pubblico dell’epoca. Al netto di questo, un capolavoro crudele e significativo, che lascia il segno ancora oggi.

    Può una donna amare davvero un nano? Leggere più volte la tagline di Freaks è il modo migliore per approcciare alla sua visione: film del 1932, recitato secondo i canoni espressionisti e tormentato da numerosi problemi di scandali e di distribuzione. Tra i film maledetti forse per eccellenza, peraltro, dato che una parte del film particolarmente cruda pare sia andata perduta per sempre: as usual, tagliata dalla censura d’epoca.

    La storia è semplice: una trapezista bella e calcolatrice di nome Cleopatra, intepretata da Ol’ga Vladimirovna Baklanova, approfitta biecamente dell’invaghimento del nano Hans (Harry Earles) per farsi prestare denaro e ricevere regali di ogni genere. Non solo: fa finire la precedente relazione dell’uomo (che ha un’aspetto da bambino e, per inciso, interpreta splendidamente la parte) e, durante un matrimonio simulato, cerca più volte di avvelenare il consorte al fine di rubargli l’eredità.

    Questo scatenerà una feroce vendetta da parte dei freaks, che si rivolteranno contro i “normali” in una modalità piuttosto brutale e con reminiscenze strutturali del racconto Hop-Frog di Poe: lei sarà mutilata e diventerà una spaventosa “donna gallina”, mentre il suo amante sarà castrato e avrà un futuro da cantante in falsetto (quest’ultimo dettaglio non si vede nel film, ma era previsto dalla sceneggiatura originale). Esiste anche un lieto fine imposto dalla MGM, in cui si mostra Hans in una bella casa da miliardario ovviamente riappacificato con Frieda: questa sequenza, nella versione in streaming su Amazon Video, non sembra essere presente.

    Most big people do, they don’t realize that I’m a man with the same feelings they have (Hans)

    Se Freaks è consolidato a livello di cult assoluto, ovviamente, i motivi sono tanti: non ci sono effetti speciali veri e propri, perchè se vediamo un uomo senza gambe camminare con le mani o un’altro senza arti accendersi una sigaretta il risultato, ancora oggi, è ancora più impressionante. Questo dipende anche dalle storie che si raccontarono all’epoca, tra cui quella di una donna che fece causa alla MGM (distributrice del film) perchè, a suo dire, aveva subito un aborto spontaneo dopo aver visto il film. Ad ogni modo, Steven Schneider inserisce Freaks tra i 1001 film da vedere prima di morire – e noi ci sentiamo di dargli ragione, a pieno diritto.

    Il soggetto di Freaks è tratto dal romanzo breve Spurs di Tod Robbins, a cui il regista pensava già dal 1927. I veri protagonisti della pellicola furono, storicamente, quelli che comunemente o cinicamente chiamiamo freak: non nel senso squisitamente zappiano del termine, bensì vari uomini e donne affetti da una qualche anormalità o deformità fisica. Ad esempio il nano Harry Earles, la donna barbuta Olga Roderick (che dopo le riprese rinnegò la sua partecipazione, a quanto pare), Frances O’Connor e Martha Morris (le due ragazze senza braccia), le gemelle siamesi Daisy e Violet Hilton, Zip & Pip (Elvira e Jenny Lee Snow), l’ermafrodita Josephine Joseph; Johnny Eck ovvero l’uomo senza gambe, Prince Randian senza nè braccia nè gambe, Koo-Koo “la ragazza uccello” e Schlitze (vestito da donna per motivi di incontinenza).

    Il regista aveva lavorato in un circo in gioventù, sia come clown che come contorsionista: la sua familiarità con quell’ambiente fa finito per ispirarlo nel realizzare questo lavoro, che in effetti ci trasporta in modo molto credibile all’interno di un circo, in cui i “fenomeni da baraccone” (senza braccia, senza gambe, nani, con la testa a punta e via dicendo) vengono derisi e segretamente discriminati o sfruttati dai “normali“.  All’epoca fece scalpore, e anche tanto, che Browning avesse scelto di usare autentici freak come attori, risparmiando sugli effetti speciali e conferendo alla pellicola un che di realistico che, visto ancora oggi, fa realmente impressione.

    Gli intenti di denuncia sociale e di volontà di far riflettere il pubblico su una vicenda tragica e romantica per definizione vennero, all’epoca, travisati come volontà di strumentalizzare gli attori e le rispettive deformità: cosa che Browning non ha mai fatto, proprio perchè mostra i vari uomini e donne discriminati e vittime del cinismo e della perfidia dei cosiddetti “normali”. Al tempo stesso, un film del genere sarebbe improponibile a qualsiasi produzione ancora oggi, motivo per cui lo stato di cult si è consolidato nel tempo, finendo per fare le scarpe (soprattutto a livello visuale) a qualsiasi altro horror eccessivo o violento sia mai stato prodotto.

    Negli Stati Uniti, non a caso, Freaks è stato bandito in numerosi stati e città, e a quanto pare ancora oggi è tecnicamente illegale organizzare proiezioni di questo lavoro in molte zone degli Stati Uniti. Nel Regno Unito e in Australia, peraltro, questo film è stato bandito per più di 30 anni dopo la sua prima uscita, e in Italia non è mai ufficialmente arrivato (su Amazon Video è disponibile solo in inglese sottotitolato in italiano).

    C’è anche un’altra cosa da osservare: se questo film fosse uscito qualche anno dopo, sarebbe quasi sicuramente stato vittima di facili spettacolarizzazioni, soprattutto che insistessero inutilmente sull’aspetto dei protagonisti o, peggio ancora, trasformando la vicenda in uno snuff e/o shoxploitation. Browning, per quanto massacrato dalla censura (la versione che ci è arrivata del film non è, quasi certamente, una director’s cut), sembra invece molto attento a dosare il linguaggio ed i contenuti, ed è abile a “caricare a molla” la storia, mostrando la derisione e l’arroganza dei due villain per poi esplodere in faccia allo spettatore la fase di revenge.

    Distribuito per un certo periodo coi titoli “Forbidden Love“e “Nature’s Mistakes“.

  • La morte ha sorriso all’assassino: l’horror gotico di Massaccesi del 1973

    La morte ha sorriso all’assassino: l’horror gotico di Massaccesi del 1973

    L’algida Greta sopravvive ad un incidente in carrozza, e si fa ospitare da una coppia di coniugi. Ma chi è veramente?

    In breve. B-movie con alcuni punti di interesse, minato da un montaggio poco comprensibile ed uno script tirato troppo per le lunghe. Incuriosisce ancora oggi, forse, ma va contestualizzato all’epoca e ai mezzi, oltre che al regista (Joe D’Amato di Buio Omega).

    Noto con svariati titoli tra cui Death Smiles on a Murderer, viene prodotto da Franco Gaudenzi ed è noto per essere stato il primo film in cui D’Amato si firma come Aristide Massaccesi, sfruttando un budget di 150 milioni di lire dell’epoca (1973). La villa che compare nel girato è Villa Parisi a Frascati, location di innumerevoli b-movie dell’epoca ed in parte riconoscibile da alcune inquadrature. La locandina del film ritrae una sequenza specifica, in parte rivelatrice della trama quanto debitrice dei classici di Edgar Allan Poe, citato più volte in tutto il film.

    La morte ha sorriso all’assassino potrebbe evocare un giallo classico, almeno a partire dal titolo, ma assume piuttosto la forma di un horror gotico, in cui montaggio e regia provano ad evocare qualche suggestione surrealista. Uno stile complessivamente lento, inesorabile e che insiste sui primi piani ai protagonisti, ognuno dei quali sembra custodire un segreto: sorvolando sull’ovvio (questo approccio lo fa sembrare un po’ datato, visto oggi), si nota come buona parte del suo fascino sopravviva intatta, soprattutto per il modo decisamente curioso di iniziare la trama e svilupparla, così come per il susseguirsi frammentario, apparentemente illogico delle prime sequenze. La figura di Greta von Holstein è meravigliosamente orrorifica, evoca quasi una delle Madri argentiane ed è un archetipo di personaggio: manipola la storia, seduce, uccide, cambia aspetto.

    Certo il film presenta dei limiti sostanziali – soprattutto a livello visuale, spesso molto artigianale, ma anche narrativo – ma al tempo stesso colpisce per un paio di trovate interessanti: in primis la figura mortifera di Greta (candida, sensuale e spaventosa al tempo stesso), la suggestiva festa in maschera (grottesca e quasi felliniana, ispirata a La maschera della morte rossa di E. A. Poe), la sepoltura in casa (un tributo a Il barile di Amontillado e Il gatto nero), le fattezze di Walter (coi baffi che richiamano molto l’aspetto dello scrittore statunitense), e poi il finale a sorpresa – che può sembrare artefatto nella sua bizzarria, ma chiude comunque il cerchio. Se il livello attoriale è accettabile, permane un intreccio scritto interamente da Massacesi-Scandariato-Bernabei interessante solo come idea, di fatto troppo diluito in sequenze insistite, astratte e interminabili. Peraltro alcuni trovate non sono il massimo (la sequenza del gatto citata nella locandina, il montaggio alternato sul viso normale / cadaverico) e più in generale lo splatter non sembra sempre giustificato dalle circostanze. A confronto con Buio Omega, del resto, si intuisce come l’approccio più congeniale al regista resti quello di storie sviluppate in modo più moderno (e più morboso, peraltro).

    La critica più sostanziale può essere ricondotta a La morte ha sorriso all’assassino, del resto, oltre alla curiosa scelta di sfruttare un gigante come Klaus Kinski per un personaggio che sembra (e che poi non è) centrale nella storia, si lega alla ricostruzione temporale della vicenda, presentata in modo anti-causale e che – almeno fino a metà film – sembra incentrata su una surreale vicenda romantica, che deve qualcosa al Dracula di Bram Stoker e qualcos’altro al Frankenstein di Mary Shelley. La narrazione prende una piega differente e non sempre è agevole seguire, con il risultato che molti potrebbero non capire, e che molte delle sinossi che si trovano sul web, tra blog anche autorevoli e Wikipedia, sono in parte fuorvianti (addirittura quella di IMDB non sembra troppo azzeccata: di fatto scambia una sotto-trama per la trama principale). Non mancano ovviamente i riferimenti ai grandi classici appena citati, e Massacesi mostra di ispirarsi ai migliori luoghi comuni dell’orrore classico: necrofilia, claustrofobia, allucinazioni. Con un po’ più di unità narrativa sarebbe stato un grandissimo film: così è solo un film non banale (ovviamente), ma non abbastanza focalizzato per parlare di un vero e proprio cult.

  • Mondo cane oggi: lo snuff in VHS zeppo di stranezze

    Mondo cane oggi: lo snuff in VHS zeppo di stranezze

    Di episodi strani ed anomali è pieno il web, ma il mondo movie rimane un genere decisamente a se stante: non è semplicemente e solo uno snuff (un filmato che mostra violenza o orrori autentici, senza trucco), ma è uno snuff commentato dal punto di vista di un pubblico snobistico che, per qualche incomprensibile motivo, ne dovrebbe godere. Ancora peggio di uno snuff, in sostanza.

    Di fatto, il mondo movie è un genere che oggi ha un senso decisamente limitato, al di là di qualsiasi gusto perverso in fatto di cinema; le videocassette in formato VHS come quella di Mondo cane oggi (disponibile ad oggi in streaming, edizioni Raro Video, su Prime Video) rappresentavano, probabilmente, l’equivalente anni ’80 degli orrori del sito Rotten e dei suoi innumerevoli epigoni. Questo shockumentary è, per la cronaca, il terzo della saga che era stata inagurata, con toni non dissimili ma quantomeno più sensati, nel 1962.

    I mondo erano in genere accompagnati da una voce narrante, modello cinegiornale di regime, che non si limitava a commentare ciò che passa sullo schermo, ma tendeva anche a distorcerlo, piegarlo al dettaglio rivoltante, al gusto per il disgusto, al dileggio a prescindere e, come se non bastasse, cimentandosi in battute che più improbabili non si poteva.

    Jacopetti in effetti era stato un po’ il padre putativo del genere mondo, e – al netto degli aspetti meramenti shockanti legati dal suo cinema, che rientrano puramente nel fine a se stesso – era se non altro un abile narratore, anche solo per la furbesca trovata di confondere gli episodi realmente avvenuti con quelli creati ad arte (per sembrare realistici).

    Il narratore di Mondo cane oggi, che coinvolge poco ed annoia abbastanza, non è purtroppo neanche accattivante, e l’ironia presunta dei commenti oscilla tra l’ostentazione di calembour sciapi, un sostanziale razzismo e via delirando. L’ottica narrativa insiste sui dettagli morbosi, in questo caso con un irritante gusto per il gossip, nell’ottica dello spettatore snob (e forse sul modello ignorante orgoglioso) che si sente vagamente superiore e non vede l’ora, per qualche strana ragione, di “godersi” spettacoli del genere.

    Quello che vediamo in Mondo cane oggi è, in altri termini, un’accozzaglia di episodi che slittano dal grottesco al disgustoso senza preavviso, con una costante: la voce monotona – e vagamente strafottente – del narratore. Il senso del film è solo uno: scuotere, turbare, shockare, anche a costo di dare spiegazioni spicciole o pseudo-intellettuali, che oggi etichetteremmo come fake news, sulla frigidità (che può avere certamente cause psicologiche, ma anche fisiche). L’erotismo di Mondo cane oggi risulta quasi imbarazzante, e in più occasioni, scivola inesorabile nel grossolano – ad esempio nel momento in cui le immagini di alcune sculture a sfondo sessuale vengono commentate, causticamente, dall’audio di un film porno.

    Formalmente tutte le immagini sono buttate lì, date in pasto ad uno spettatore che dovrebbe sapere bene che cosa sta andando a vedere, con il compito (?) di giudicare da solo. Ma il punto è proprio questo: il film sembra concepito per spettatori che bramano di meravigliarsene o inorridire, e questo, di per sè, fornisce una carta d’identità alquanto chiara sulla personas media che dovrebbe o vorrebbe guardarlo.

    Girato da Max Steel (lo Stelvio Massi di Squadra volante) e scritto da Gino Capone, il film mostra tra le altre cose: dei gauchos che si danno al singolare sport del lancio dell’anatra viva, una donna frigida che si sottopone ad un massaggio erotizzante (una banale scusa per un nudo integrale), nudisti che vengono ridicolizzati a prescindere, la macellazione di animali, un cadavere vivisezionato con dell’eroina all’interno, alcuni durissimi allenamenti di karate, una singolare forma di agopuntura riscaldata, il sangue crudo di serpenti e renne usate come afrodisiaco. C’è anche la sensazione soggettiva che, in molti episodi, la realtà non sia proprio quella raccontata dal commento audio, e che da alcune episodi emergano dettagli riferiti a cose o persone non esistenti.

    In fondo film del genere, dai meriti artistici senza dubbio molto discutibili, fanno emergere limiti e modalità usuali della censura. Per intenderci: non ci si creano scrupoli a mostrare animali scuoiati e uccisi in diretta, ad esempio, ma la sequenza che mostra i preliminari del sesso tra due donne ed una presunta “scuola di masturbazione” è stata quasi certamente tagliata (si percepisce che una frase del narratore resta a metà, per poi passare alla scena successiva). Ancora più assurdo se si pensa, ad esempio, che l’operazione di chirurgia al pene, di contro, viene mostrata esplicitamente per intero. Una riprova perenne di un qualcosa che forse non è mai cambiato: la censura, alla lunga, è sempre un’espressione arbitraria del pensiero di poche persone, e non è scontato che la loro sensibilità possa fare da “faro guida” per tutti gli altri (soprattutto nel medio-lungo periodo). Quindi possiamo provare a teorizzare, addirittura mediante un film borderline del genere, che la censura ha sempre e comunque poco senso.

    Inutilmente frustrante chiedersi, ad oggi, perchè si girassero film del genere, e perchè abbiano stuzzicato almeno una parte del pubblico avvezzo all’orrore, o all’orrido, in sè. Forse una forma di feticismo, più probabimente una contro-contro-cultura che esibiva un mondo disumanizzato magari per provare ad ostentare o rivalutare, alla meglio, quello in cui viviamo. Peraltro, il tutto avveniva con una sostanziale differenza rispetto agli orrori splatter che mostrarono alcuni film di Fulci e Joe D’Amato, che erano realistici quanto simulati (cosa che in questo film non sempre sono), e quantomeno provavano ad avere uno straccio di riferimento narrativo (che qui manca del tutto). Assistiamo ad una spettacolarizzazione orrida, per semplice giustapposizione, che rimane come mera testimonianza, da archivio (per così dire), e si dimentica con la stessa facilità con cui si prova a guardare.

    Le versioni in formato PAL Raro Video e EAHV sono entrambe uncut, e della durata complessiva di 75 minuti.