FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • La lunga notte dell’orrore: voodoo e morti viventi pre-Romero

    La lunga notte dell’orrore: voodoo e morti viventi pre-Romero

    Un medico londinese si reca assieme alla figlia presso un suo brillante ex-studente: arrivati nel suggestivo paesino, strani morti sembrano verificarsi in modo del tutto inspiegabile…

    In breve. Due anni prima di Romero John Gilling mette in scena una buona storia di morti viventi, legata strettamente alla tradizione voodoo. Elegante nella forma e piuttosto fluido nella trama – per quanto non proprio strabiliante visivamente – si tratta di uno dei film più inquietanti e meglio realizzati del periodo.

    Ho sognato morti che resuscitavano… e tutte le tombe erano vuote

    La lunga notte dell’orrore” è una produzione diretta da John Gilling per la Hammer, anno di grazia 1966: essa si sviluppa come un tipico horror gotico “all’inglese” riportando alcuni punti di contatto con l’omologo – di 22 anni prima – Ho camminato con uno zombie, per quanto in questa nuova circostanza si leghi la dimensione “morti viventi” non alla residenza su un’isola esotica bensì all’importazione da parte di un ambiguo nobile locale. Lo zombie assume quindi, in questo film, la valenza di una sorta di instancabile “manovale” che il villain, come vedremo, sfrutta ferocemente all’interno della propria miniera. Per farlo egli ha imparato il voodoo presso qualche oscura località esotica, ed il suo essere infido ma apparentemente ineccepibile lo rende senza dubbio un personaggio molto affascinante (raffinatezza ed efferatezza estrema, del resto, sono tratti caratteristici a cui si richiamerà il moderno Ubaldo Terzani).

    Il medico Sir James Forbes, dal canto proprio, nell’eleganza classica da un lord inglese lucido e razionalista, verrà progressivamente travolto dalla dimensione ed inquietante mistica del voodoo, per quanto all’inizio la relegasse a banali superstizioni del posto; di fatto, è un trionfo della dimensione orrorifica in una pellicola di culto, gradevole da riscoprire ancora oggi, semplicemente irrinunciabile per gli appassionati del genere e che non risente troppo dell’età che ha. Ovviamente non c’è da aspettarsi un delirio di splatter e gore, per quanto i morti viventi siano piuttosto ben realizzati ed assumano, forse per una delle prima volte nella storia, il colorito violaceo, l’andamento barcollante e gli occhi bianchi che impareremo a conoscere negli anni successivi. Gli effetti speciali di questo film non sono certamente eccezionali, anzi vivono di quell’orgogliosa artigianalità di cui non tutti vanno fieri; nonostante questo la storia si regge in piedi molto dignitosamente, e conferma uno dei maggiori picchi di idee e buoni script di quel periodo. Questo è riscontrabile anche nei dialoghi molto curati che, come sappiamo, non sono tipicamente un punto di forza di questo tipo di film.

    Per quanto privo della carica rivoluzionaria ed ultra-gore delle opere di Romero, in definitiva, The plague of the zombies è senza dubbio uno dei migliori horror sui morti viventi mai realizzati.

  • C.H.U.D.: l’orrore nelle fognature

    C.H.U.D.: l’orrore nelle fognature

    Nella città di New York si verificano ripetute scomparse di persone di ogni estrazione sociale: il capitano di polizia indaga sul caso, scoprendo progressivamente una incredibile verità.

    In breve. Poco noto in Italia, probabilmente, ma rientra nelle chicche del genere completamente da non perdere. Per intenditori del genere anni ’80, e per pochi altri.

    Chi si nasconde nei bassofondi delle fogne di New York? Secondo una diffusa leggenda urbana, con un fondo di verità, dei coccodrilli o dei caimani: la versione più popolare di questa storia impone che siano grandi, grossi, affamati e albini, per via della manca di luce solare. I coccodrilli nel sistema fognario di NY sono una delle urban legend più potenti mai raccontate, ed in questo film di Douglas Cheek si respira, fin da subito, aria di urban legend. Solo che non si tratta di rettili, in questo caso, bensì di creature umanoidi dagli occhi luminosi, che sembrano cibarsi degli esseri umani e che, secondo una certa opinione pubblica, non sarebbero altri se non i barboni che affollano le strade. Col tempo, un fotografo ed un poliziotto scopriranno la verità.

    Le creature hanno il potere di chiudere il cielo…

    C.H.U.D. – che è un acronimo che fa riferimento sia a “Cannibalistic Humanoid Underground Dweller” che a “Contamination Hazard Urban Disposal” – parte col botto, senza preamboli nè orpelli narrativi: un campo lungo su una strada desolata, con una donna che porta in giro il proprio cane. Da un tombino fuoriesce uno strano fumo; la donna si avvicina un po’ troppo e, neanche a dirlo, viene trascinata in basso da una creatura misteriosa. La dimensione è quella del classico horror anni 80 che tutti conosciamo, del resto a metà anni 80 l’horror era così: diretto, immediato, senza complimenti. Un film che, peraltro, presenta anche una certa importanza come cult, tant’è che in tempi recenti è stato apertamente citato come ispirazione per US di Jordan Peele.

    Nel film si intrecciano più storie parallele, dimensione atipica per un horror del genere che, in genere, ne racconta quasi sempre una, focalizzandosi su al massimo un paio di protagonisti o di villain. I personaggi minacciosi della storia sono volutamente indefiniti, ma si intuisce senza neanche troppo sforzo che vivono nelle fognature e ogni tanto si affacciano per cibarsi di qualche essere umano. I vari personaggi saranno successivamente destinati ad incontrarsi nel seguito, mentre la trama introduce il sospetto che dietro le sparizioni possa esserci un complotto del governo americano.

  • Espressionismo, simbolismo e follia dentro “Il gabinetto del Dottor Caligari”

    Espressionismo, simbolismo e follia dentro “Il gabinetto del Dottor Caligari”

    Follia contro ragione, fantasia contro realtà: uno dei più celebri masterpiece dell’orrore mai realizzati.

    In breve. Film stra-cult perchè ha inventato molti consolidati stereotipi thriller, e per la meravigliosa forma espressionistica, a tratti impensabile per l’epoca. Contiene un interessante doppio finale “involontario” davvero clamoroso.

    Davvero singolare questo esempio di cinema muto risalente alla Germania del 1920, contato tra i primissimi horror della storia (Nosferatu di Murnau uscirà solo due anni dopo, così come Freaks di Browning). Girato secondo i canoni dell’espressionismo, si presenta come un film seminale adatto, oggi, probabilmente solo agli appassionati di cinema “assoluti” o, al limite, agli hacker di pellicole alla ricerca di immagini insolite. Com’è ovvio non esiste parlato a livello di suono, ma solo una lunga ed alienante colonna sonora curata da Giuseppe Becce.

    La storia è quella di un ipnotista che usa come un fenomeno da baraccone Cesare, un sonnambulo con la capacità singolare di predire il futuro delle persone. Dopo due misteriose morti avvenute in zona, una delle quali realizza esattamente la “profezia”, esce fuori che l’inquietante ipnotista avrebbe trovato un modo per controllare la volontà del giovane e costringerlo, durante il sonno, a compiere omicidi. Inoltre l’uomo si sarebbe immedesimato nella figura del Dottor Caligari, che aveva compiuto secoli prima delle approfondite ricerche sull’argomento ipnosi: come rivelazione definitiva si scopre che egli è, di fatto, il direttore di un manicomio che ha perso, neanche a dirlo, i lumi della ragione (i richiami al celebre “Dottor Catrame e Professor Piuma” di E. A. Poe sembrano sostanziali).

    Finita qui? Non proprio: non è infatti possibile discutere de “Il gabinetto del Dottor Caligari” senza considerare la parte iniziale e finale, inserite per imposizione del governo dell’epoca allo scopo di cambiarne il significato, letto addirittura come sovversivo. E così la versione definitiva del film viene farcita con un “panino” esterno, capace di stravolgere il messaggio di fondo e facendo apparire  il tutto come l’allucinazione di un pazzo, che avrebbe inventato quella storia avendo in odio il direttore del manicomio in cui è rinchiuso. Col senno di poi, una volta tanto potremmo dire che la censura è riuscita a fare qualcosa di buono, anche se così facendo 1) il sottotesto del film viene annullato del tutto e 2) si è indotti a fare considerazioni piuttosto brutali contro il cinema stesso e, come ha scritto molto giustamente Exxagon, far apparire che “la visione espressionista sia quella di una folle, ovvero l’arte moderna non ha senso ed è pura pazzia“. Ad ogni modo questo particolarissimo espediente narrativo del doppio finale “innestato” diventerà un classico di un certo thriller moderno, nel quale la demolizione delle apparenze è condizione necessaria per svelarà la cruda realtà dei fatti.

    La trama non è troppo lineare, il film rimane comunque interessante mentre, a onor del vero, gli elementi bizzarri de “Il gabinetto del Dottor Caligari” non sono pochi, anzi occupano parte preponderante della pellicola: tuttavia, considerando l’epoca ed i mezzi annessi, l’opera è di livello davvero notevole e finirà per piacere anche a chi non ama particolarmente certi virtuosismi. Molto degni di nota gli effetti visivi globalmente presenti, mentre la sequenzialità della storia è resa in modo ottimale dalla successiva colorazione della pellicola (avvenuta nel 1996) che scandisce, ad esempio, i notturni in azzurro.  Tra le curiosità più prettamente cinematografiche, infine, vi è l’interpretazione data da alcuni riguardo al misterioso Cesare, che – per via del comportamento e del suo dormire in una cassa di legno – sembrerebbe una specie di proto-zombie, il che smentirebbe White Zombi del 1932 come primo film di questo tipo. L’ipotesi è indubbiamente affascinante ma, di fatto, non mi pare nè smentibile nè confermabile sulla base a quello che vediamo.

  • Basket case: cosa c’è in quella cesta?

    Basket case: cosa c’è in quella cesta?

    Duane Bradley, ragazzo di provincia dalla faccia pulita, si presenta in un motel di New York portando con sè uno zainetto ed una grossa cesta di vimini: cosa è venuto a fare nella Grande Mela?

    In breve. Tra i b-movie del genere horror per eccellenza: sangue, violenza, trama più solida della media e vari elementi che lo hanno reso, nel tempo, un oggetto di culto. Gli appassionati non potranno prescindere da questa chicca (per quanto non esente da difetti), gli amanti generalisti dell’horror possono sempre visionare per curiosità.

    Basket case” di Frank Henenlotter (regista noto principalmente per via di questo film e di Brain damage) è probabilmente uno dei b-movie dell’orrore più solidi e famosi mai realizzati negli anni Ottanta. Il suo feeling, il suo ritmo ben scandito, il suo splatter artigianale e gli spruzzi di sangue (probabilmente fatti con una “peretta”) hanno finito per fare scuola, e non ci sono dubbi che i lavori della Troma (ad esempio) ne possano essere stati pesantemente influenzati. Un esempio di b-movie per fama, gloria e giusti meriti, anche per il fatto che riesce a mantenere viva l’attenzione dello spettatore senza banalizzare, ma anzi accattivandosi la curiosità e dosando con grande cura tutti gli elementi.

    In pochi hanno notato che si tratta di un horror artigianale che, a suo modo, analizza le relazioni umane (amore, gelosia, possessione) sfruttando un’apparenza meramente organica e gore: il risultato appare pienamente convincente, anche se probabilmente, al netto di tutto, riesce più ad incupire che a spaventare sul serio lo spettatore. Si potrebbe parlare di una sorta di proto-body horror, per via della presenza della creatura nella scatola che finisce, inevitabilmente, per avere un’ovvia valenza simbolica (orrore esteriore versus interiore).

    Beninteso che, in questo discorso, si rimane comunque lontani dalle introspezioni sul tema effettuate qualche anno dopo da David Cronenberg, si tratta un horror artigianale ottantiano nello stile, nella sequenzialità e nella costruzione dei personaggi, in cui vive qualche momento davvero tragico che forma una strana coppia – neanche a dirlo – con l’andamento scanzonato, irriverente e volutamente trash del resto. Secondo alcuni, del resto, è proprio questo dualismo l’unica cosa che finisce per essere l’aspetto negativo di “Basket case“, fermo restando che si tratta di una pellicola “di genere” per pubblico “di genere”, non sono mai stato troppo d’accordo. L’accostamento mi pare ben realizzato, il tema di fondo è decisamente spaventoso, e la verità, per quanto faccia sorridere di riflesso, si sa trasformare e diventa (fin troppo) serio nella seconda parte. Una prassi di molti horror, per la verità, quella di accostare il comico al tragico. Il tutto, c’è da specificare, in un contesto di recitazione abbastanza infimo ed una qualità visiva piuttosto bassa, per non parlare del doppiaggio in italiano non esattamente da Actor’s Studio.

    Del resto rimangono innumerevoli gli elementi di culto della pellicola: il mazzetto di dollari ostentato da Duane – secondo il regista si trattava dell’intero budget del film! – gli inevitabili tagli che misero sul mercato una versione “fully uncut” ed una che esaltava (censurando tutto il gore) solo l’aspetto ironico del film, i credits per buona parte fake – dato che il cast era particolarmente esiguo, la chirurgia improvvisata nel salotto di casa, gli inquilini casinari del motel, le urla nella notte, le smorfie indimenticabili di Terri Susan Smith versione “ragazza della porta accanto“, senza dimenticare naturalmente il contenuto del cestino (la vera miccia che “accende” la pellicola). La creatura venne animata parzialmente in stop motion (cosa un po’ insolita per un film di questo tipo) oppure, ove possibile, con un guanto deformato mosso direttamente dal regista – tanto per dare l’idea del livello di artigianalità che, è bene specificare, non degenera mai in un eccesso che lo avrebbe reso solamente ridicolo.

    Probabilmente uno dei film del genere più “puramente” b-movie, non il miglior horror anni 80 (questo è sicuro) ma certamente una delle pellicole che meglio bilancia artigianalità e qualità, con un finale in crescendo ed un epilogo tragico che non potrà, a mio avviso, lasciare indifferenti.

    Come già in altri casi: “Basket case” per molti, ma non per tutti.

  • Noroi The Curse: il mockumentary paranormale di Shiraishi

    Noroi The Curse: il mockumentary paranormale di Shiraishi

    Masafumi Kobayashi, giornalista che si occupa di paranormale, scompare misteriosamente dopo l’incendio della sua casa, episodio che provoca la morte della moglie. L’uomo aveva appena realizzato un documentario che indagava su alcuni singolari fenomeni paranormali…

    In breve. Nonostante i presupposti non siano incoraggianti e la tagline di apertura – “Questo documentario è ritenuto troppo inquietante per una visione pubblica” – rischi di far sorridere il pubblico più smaliziato, “Noroi” sa ben raccontare una storia in stile falso-documentario, sia con grande consapevolezza dei mezzi che con buona scelta di intreccio, personaggi ed ambientazione. Una versione riveduta, arricchita e corretta di The Blair Witch Project, con numerosi pregi rispetto a questa citatissima (e sopravvalutata) pellicola. Un film avvolto da una spirale di sovrannaturale mai di bassa fattura, e dal taglio quasi “scientifico”: da non perdere.

    Kagutaba: a tool that is capable of causing disasters

    Noroi è un film ancora non disponibile sul mercato italiano, ma che si rivela piuttosto interessante ed originale, pur eccedendo in un unico difetto (l’eccessiva lunghezza: circa due ore): i suoi pregi lo rendono comunque consigliabile, specie se collocato all’interno di un genere che, ad essere onesti, troppo spesso si limita a fare rehash di luoghi comuni, storie e personaggi già visti in decine di altre salse. Del tutto privo delle caratteristiche che rendono detestabile il genere (vedi le riprese troppo traballanti e l’eccessiva essenzialità degli intrecci), Noroi merita una visione da parte del pubblico horror di ogni “ordine e grado”. Diversi sono i dettagli, infatti, che sono degni di essere raccontati: il rituale del demone Kagutaba, l’enigmatico comportamento del sensitivo freak, la comparsa di un dettaglio durante la seconda visione della videocassetta, dinamica che cheggia quasi il gioco di specchi dietro il quale si cela l’assassino di Profondo rosso. Il nastro del mockumentary, preannunciato come “troppo sbalorditivo per essere immaginato“, finisce poi per suggerire indirettamente la strategia del regista Shiraishi: puntare fin dai primi fotogrammi su ambiguità svelate progressivamente (a volte solo basandosi su suggestioni inquietanti) che dovrebbero far vedere – da un momento all’altro – qualcosa di orrorifico allo spettatore.

    E, di fatto, la scelta di mostrare quasi subito la maschera dagli occhi cavi del demone Kagutaba indica che non si tratta del solito gioco di accenni, suggestioni e rimandi mai esplicitamente mostrati: l’orrore è suggestivo, tangibile e concreto, per quanto suggerisca più malattie psichiche o mentali che vere e proprie entità maligne. Il vero protagonista della pellicola, ovvero l’occhio vigile e mal celatamente voyeristico della telecamera (vedi Peeping Tom o Marebito), cerca di filmare il non-filmabile, di indagare a fondo sui vari livelli di realtà per cercare di imprimere su nastro ciò che si nasconde sotto un ennesimo velo di Maya. Il tutto, come si conviene, tendendo progressivamente un filo della tensione, mantenuto piuttosto credibile fin dall’inizio, e schematizzando il film in micro-sequenze quasi a sè stanti, mediamente di cinque minuti ciascuna. Concentrandosi su vari aspetti del paranormale (ESP, telecinesi e via dicendo), e frammentando con cura le scene – che questa semplice tecnica fanno diventare una continua scoperta per lo spettatore – fanno sì che, pur inserendo topoi del terrore già usati in altre pellicole (le voci di bambini che piangono, la scomparsa della sensitiva e via dicendo) il film non risulti mai “già visto” o, peggio, malamente adattato. Tante sezioni, in definitiva, girate in modo amatoriale e con stili differenti, realizzando sostanzialmente un film vero e proprio che del mockumentary conserva più che altro la sola forma espressiva.

    La stessa definizione di shockumentary, di fatto, sembra in questa circostanza quasi castrante e limitativa, ed andrebbe utilizzata con le dovute riserve e specifiche del caso: Noroi conserva la struttura tipica di un horror paranormale, e non si perde nei dettagli che ipocritamente altri film promettono (senza mantenere) di mostrare. È quindi, in definitiva, il linguaggio accattivante e ben ritmato di “Noroi: The Curse“, a conti fatti, che risulta essere il suo principale punto di forza.