FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Martyrs: l’horror viscerale e imprevedibile di Laugier

    Martyrs: l’horror viscerale e imprevedibile di Laugier

    Una bambina, in fuga da una fabbrica abbandonata, viene accolta in un orfanotrofio. Anni dopo, la vediamo da adulta irrompere in una casa, armata di fucile a pompa. Mentre l’amica di sempre si affretta a raggiungerla, una domanda assilla lo spettatore: per quale motivo la ragazza sta agendo così?

    In breve. Singolare storia thriller ad innesco multiplo, convulsa, imprevedibile, avvincente quanto ricca di momenti decisamente cruenti (non sarà facile guardarlo per intero). Il punto da focalizzare non è tanto l’osare, il trasgredire chissà quale tabù, quanto l’immettere in circolo un messaggio preciso e, a suo modo, ancora rivoluzionario. Il “gioco” di Laugier sembra essere quello di fare concetto sull’idea di martirio: A serbian film si è spinto anche oltre, ma qui non si scherza neanche.

    Non faccio parte dell’elite che scrive sui magazine e forma gran parte delle opinioni sui film; tantomeno mi piace cercare sottotesti quando non ce ne sono, anche se – senza una vera consapevolezza – della volte finisco per farlo lo stesso. Per queste ragioni vorrei improntare la mia recensione instradandola sui giusti binari da subito, dato che le cose da evidenziare in Martyrs sono tante, ed è molto facile divagare e perdersi in discorsi futili.

    Per analizzare il film mi sono basato su un’intervista a Laugier disponibile ancora oggi su Youtube, che parte da un’osservazione fondamentale: da Scream in poi, piaccia o meno, è nata una corrente di horror che (triste da riconoscere) sembra non credere più alle storie che racconta. A differenza dei classici dell’exploitation anni ’70, della corrente satanica e di poche, lodevoli eccezioni analoghe, la rappresentazione del terrore è diventata sempre più “popolare”, più legata a stereotipi di genere, fumettistici quanto a loro modo ammorbidenti, collocando spesso la narrazione su situazioni facili da prevedere, stereotipate, a prescindere. Il famoso caso in cui “si strizza l’occhio al pubblico” per accattivarsene i favori, e farlo al limite sentire più intelligente della media è tutto qui: ed è proprio ciò che Martyrs, senza dubbio, non è.

    Questo mi sembra il presupposto fondamentale per capire appieno lo spirito di “Martyrs“: in molti altri film si era fin troppo consapevoli che si trattasse di finzione e questo, secondo il regista, ha contribuito a smaliziare il pubblico e a renderlo (aggiungerei) particolarmente maleducato – nel senso di “non educato al Cinema“. La reazione a questo malessere, legato a problemi personali del regista, è stata la stesura di questa allucinante storia – e con risultati del tutto positivi.

    Martyrs“, a dispetto di chi ne ha criticato la violenza gratuita – manco fosse il più insulso dei naziploitation, è un horror molto complesso nel suo concepimento e, forse proprio per questo motivo, facile preda di banali critiche nazional-popolari, quanto a ben vedere affascinante. La recensione che segue potrebbe contenere, inevitabilmente, qualche micro-spoiler inevitabile, a cui ho badato, in una successiva revisione dell’articolo, a fare in modo che non fosse eccessivamente “compromettente” (nota di maggio 2022).

    Il regista francese Pascal Laugier, classe 1971 – che qualcuno ricorderà per “Saint Ange“, lavoro parzialmente sulla falsariga di The ward e Session 9 – è partito da uno scenario tipico nel cinema di genere (una storia di vendetta, un po’ alla Tarantino verrebbe da dire), per poi sviluppare la trama su altro, mediante una sequenza di colpi di scena uno più devastante dell’altro. E sa farlo, questo è innegabile. Il film possiede una capacità di inchiodare lo spettatore alla poltrona sfruttando situazioni sempre poco prevedibili, poco scontate, molto poco banali. E dire che la storia, al di là dei minuti iniziali, si sviluppa con un caso di “già vista” violenza casalinga apparentemente motivo, che finisce per fare da inquietante preavviso per il pubblico.

    Perchè Martyrs?

    Per martirio si intende, per definizione, il sacrificio della vita accettato in nome di una fede: un concetto che è risuonato minaccioso negli ultimi eventi che abbiamo vissuto a livello mondiale, dopo il collasso delle superpotenze polarizzate ed il consolidamento delle post verità personali. Laugier parla soprattutto del martirio accettato dai seguaci di una religione ma il discorso, ad oggi, potrebbe estendersi a qualsiasi credo politico, per dirla alla Zizek (o Lacan) un Grande Altro, foriero di perenne tensione morale e psicologica quanto, alla fine dei conti, identificabile con qualsiasi ideologia o principio ispiratore della propria vita.

    Dicevamo la complessità di Martyrs e questo, sia ben chiaro, deve essere messo in chiaro per evitare di descrivere ciò che il film non è: Laugier ha svolto un gran lavoro di ricerca etimologica sul martirio e sulle sue implicazioni di significato, a livello religioso come culturale. Per chi ama l’horror non dovrebbe essere neanche una novità, alla fine: per quanto si possa apprezzare ad esempio Cronenberg e la sua profondità concettuale, o anche solo “divertirsi” con mostri, serial killer o famiglie dedite al cannibalismo (anche qui il rischio banalizzazione è dietro l’angolo, come detto all’inizio), non sarà facile per il pubblico medio accettare un film come “Martyrs“. Che di una violenza considerevole non fa mistero, ma la usa sempre in modo funzionale al titolo: il martirio possiede una connotazione liberatoria, pura, angelica, tanto da renderlo realmente inquietante, come pochi altri titoli. Un qualcosa che riprende, a livello di linguaggio, la tradizione dell’orrore pulp e low-cost, quello che va bene a patto che sia realistico (Le colline hanno gli occhi, L’ultima casa a sinistra), prendendo le distanze dall’horror più scanzonato o “fumettaro”.

    Specialmente in tempi di crisi generalizzata come quelli che viviamo, il pubblico ha poca voglia di speculare e riflettere su ciò che ha visto – e tanta di cannibalizzare pellicole giusto per “fare numero”, per cui quando un film come questo ha qualcosa di serio da raccontare, è paradossale che il contenuto passi in secondo piano per parte del pubblico. Del resto la regia è solida, la sceneggiatura non fa una grinza e le interpretazioni sono tutte ineccepibili: Martyrs possiede un ritmo da film perfetto, ma per capire appieno quello che si è visto occorre pazientare un’ora e mezza, e a quel punto non sarà facile non distogliere lo sguardo. La violenza che sprigiona da circa la metà dei fotogrammi padroneggia e domina lo spettatore, mostrandogli sangue, umiliazioni e sottomissione psico-fisica che, come si scoprirà, sono dovute ad una vera e propria setta religiosa che finalizza la sofferenza del martirio, per l’appunto, alla ricerca dell’Aldilà e a spese delle povere vittime.

    Martyrs prende spunto (anche) da Clive Barker

    Se state pensando ad Hellraiser – il dolore per sublimare il piacere – siete quasi sulla giusta strada, in effetti, anche se qui le conseguenze sono spinte in modo molto più contemplativo, realistico e profondo di quanto non avvenga nel capolavoro di Barker. In tal senso i paragoni con Hostel di Roth sono fuori luogo (qualcuno ha equivocato in tal senso, in effetti) se non per la dinamica delle torture, aspetto secondario rispetto ai contenuti effettivi del film, che vanno al di là di una mera o compiaciuta pornografia dell’horror. Rimane forse come tratto comune tra queste ultime pellicole la sofferenza dell’uomo vista come un qualcosa di catartico, liberatorio e purificatore: l’asceta/vittima diventa un privilegiato, un essere superiore da idolatrare perchè del tutto immune al dolore, e sulla via della conoscenza. E se il mostro che hanno creato è così, è chiaro che sarà terribilmente più spaventoso di qualsiasi altro.

    Martyrs e il torture porn

    Ho letto che molti hanno scomodato il termine torture porn, espressione abusatissima fino a qualche anno fa in questo ambito, ma in questo caso la locuzione – per quello che vale – è assolutamente fuorviante ed inesatta: la violenza che subiscono le vittime di Martyrs non provoca piacere a nessuno, ma è comunque liberatoria, serve a far raggiungere uno status privilegiato (quello di martiri, ovviamente nella mente contorta degli aguzzini), e questo rende automatico riportare il discorso verso le varie forme di fanatismo (religioso ma anche, come dicevamo prima citando Lacan, politico e sociale).

    Altro colpo di genio, del resto, è il fatto di rappresentare una inquietante micro-società auto-organizzata, nella quale le giovani sono lentamente massacrate anche da altre donne, mediante violenza subdola ed arrivando a perdere progressivamente i propri tratti di femminilità. Una chiave di lettura che, a suo modo, richiama metamorfosi cronenbeghiane (per non dire kafkiane) ma anche il Potere brutale rappresentato dal celebre “Salò” di Pasolini, altro film molto apprezzato da diversi amanti dell’horror per quanto anch’esso propenso ad essere mal giudicato, per via di una forma che finisce per sovrastare la sostanza.

    Servono sicuramente anche film del genere, saggi di psico-horror o horror sociale che dir si voglia, e serve rivedere film del genere con uno spirito di ricerca: con più pellicole come Martyrs, probabilmente, non cambierebbero di una virgola le incomprensioni tra detrattori ed estimatori a priori ma – se non altro – la dignità del genere horror sarebbe sicuramente più preservata.

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  • Seguendo il sangue (A. Antonini, 2011)

    Seguendo il sangue (A. Antonini, 2011)

    “…al mondo non si fa quello che ci piace, solo e soltanto quello che si deve“. È questa probabilmente la summa del film di Alberto Antonini “Seguendo il sangue“, un thriller estremamente surreale a forti tinte horror, che deve moltissimo dell’impianto scenico alle opere più spaventose di David Lynch. (altro…)
  • Le Vergini di Dunwich (The Dunwich Horror): orrore lovecraftiano anni 70

    Le Vergini di Dunwich (The Dunwich Horror): orrore lovecraftiano anni 70

    Dunwich è il nome di un piccolo villaggio inglese della contea di Suffolk; nell’immaginario lovecraftiano che richiama il film, si fa riferimento all’orrore di Dunwich, una forza invisibile aliena che si manifesta agli esseri umani dopo molteplici presagi, nella forma di un mostro ciclopico dalle fattezze di una testa umana ingigantita. È il mostro che potrebbe, peraltro, a sua volta aver ispirato le caratteristiche de La cosa di John Carpenter, e su cui si è creato un vero e proprio archetipo del genere, a cominciare dalla presenza di un libro proibito scritto in crittogrammi, che scatenerà il villain infernale del titolo. All’interno di questo luogo, ancora oggi, vive la famiglia Whateley, di cui sono sopravvissuti solo due componenti che vengono visti, a causa di inquietanti precedenti, con grande sospetto dalla comunità cristiana del luogo. Tanto più che un loro avo, anni prima, sembra che sia stato assassino per via di alcuni esoterici culti a cui si dichiarava adepto.

    Parliamo di un film del 1970 storicamente poco amato dai fan dello scrittore, sul quale pero’ (da appassionato lettore delle sue opere) mi permetto di rilanciare e proporre una lettura diversa del film, con il quale certa critica a mio paree è stata poco appropriata. Tanto per cominciare un racconto di Lovecraft al cinema in genere è soggetto a più o meno libere intepretazioni, se vogliamo “licenze” registiche quasi sempre sgradevoli per i fan letterari: da Dagon a Re-animator, passando per Il colore venuto dallo spazio e Quella villa accanto al cimitero. La vergine di Dunwich , al contrario, sembra insolitamente coerente con il racconto, a cominciare dai personaggi e dalle atmosfere. L’orrore è pura idea, suggeriva Lucio Fulci in una celebre e citatissima intervista: e probabilmente questo film è un po’ la concretizzazione di quella frase. Il mostro che si manifesterà nel film, infatti, è una causa invisibile ed intangibile, di cui vediamo gli effetti ma non cogliamo la presenza, e viene brillantemente filmato come un villain in soggettiva, mantenendo una coltre di mistero, mai risolta, sul suo reale aspetto (tranne nel finale, solo per qualche secondo). Tanto del racconto di Lovecraft, coerentemente con lo script del film, è incentrato sull’ossessione frustrata dell’io narrante nel definire, senza riuscirci, la forma del mostro.

    La vergine di Dunwich fin da subito si permea di un alone di mistero: vediamo senza preamboli una ragazza sofferente a letto, assistita da quello che sembra un medico, in presenza di altre misteriose – e non meglio specificate – figure. È poi la volta della comparsa del protagonista, il sinistro Wilbur Whateley, in visita alla Miskatonic University alla ricerca del libro proibito dei morti: il Necronomicon.

    Il Necronomicon è il libro inventato, o pseudo-biblia, citato in più racconti lovecraftiani, scritto dall’arabo pazzo (Adbul Alhazred, molto probabilmente un gioco di parole con All Has Read, lett. “ha letto di tutto”) espressione dei rituali indispensabili per evocare i Grandi Antichi (gli “Anziani”, come vengono citati nel doppiaggio italiano), creature mostruose oltre che divinità aliene.

    Wilbur sembra essere ossessionato da questo libro, che vorrebbe freneticamente consultare o trafugare: si definisce uno studioso di scienze occulte, con obiettivi non esplicitati ma, al tempo stesso, con le idee chiare. La versione uncut del film, per la cronaca, è quella con alcune parti non doppiate (e sottotitolate), ed è in grado di esplicare molti dei dettagli necessari a cogliere il senso della storia raccontata. Tra le scene tagliate, ad esempio, emerge una sostanziale (e purtroppo consueta) arbitrarietà nel montaggio italiano: l’intero macabro rituale da parte di Wilbur, ad esempio, con tanto di riferimento a Yog-Sototh, è da gustare nella sua interezza, ma a quanto risulta il pubblico italiano dell’epoca ha potuto vederlo solo in parte.

    Originariamente annunciato come film assegnato a Mario Bava, venne poi girato da Daniel Haller, il quale conferisce un’atmosfera sinistra e occulta, oltre ad un fantasioso uso della fotografia, all’intero film. In tal senso il lavoro è molto lovecraftiano, abile a costruire un climax di tensione che poi, ovviamente, sarà destinato a crescere sul finale. La scelta registica è quella di non esplicitare la mostruosità del racconto, mantenendo una sostanziale fedeltà al mood di sospensione che lo caratterizza, il che è forse la caratteristica più appagante del film stesso – a differenza di altri epigoni dello scrittore di Providence che quasi sempre, anche senza malizia a volte, finivano per buttarla sul trash.

    L’orrore invece qui si svela progressivamente in forma di demoni-satiri grotteschi ed inquietanti, conferendo ad alcune sequente una sorta di allucinazione (da parte della protagonista femminile) dai caratteri prevalentemente horror-psichedelici. La musica di Les Baxter, in tal senso, è una scelta molto adeguata, e sembra anticipare – e potrebbe avere ispirato – quelle create da Fabio Frizzi per molti dei film fulciani più celebri, ovvero la cosiddetta Trilogia della Morte: L’aldilà, Paura nella città dei morti viventi e Quella villa accanto al cimitero.

    Vale la pena spendere qualche parola anche sul finale del film, che è di natura dichiaratamente ciclica: viene infatti ufficializzata la provenienza aliena della famiglia Wilbur, e mentre Nancy viene aiutata a scendere le scale del “giardino” in cui stava per completarsi il rituale di evocazione, la regia evidenzia che sia incinta di Wilbur, a voler evidenziare che la sua stirpe continuerà a propagare il male sulla terra. Questo, peraltro, spiega il perchè del suo interessamento verso la donna: poter dare continuità alla propria famiglia.

    Non sono poche le differenze con la versione letteraria, e quelle più rilevanti che ho trovato sono le seguenti:

    • la storia è ambientata negli anni 60, mentre nel racconto eravamo nel 1928;
    • parte dell’intreccio è una metafora della sessualità ritrovata (assente nel racconto), ed è incentrata su una vaga sessuofobia della protagonista (da cui la sua verginità), e sulla potente attrazione e condizionamento che Wilbur esercita nei suoi confronti;
    • Wilbur ha un ruolo differente, tant’è che nel racconto muore (nel tentativo di rubare il libro dei morti), ed è lì che si evidenzia la sua natura aliena; inoltre la sua relazione con il nonno è rappresentata in modo differente, rispetto al racconto;
    • c’è la figura di una donna sopravvissuta ad uno dei rituali magici precedenti, ormai impazzita e invecchiata precocemente, assente nel racconto ma decisamente azzeccata e affascinante;
    • i due assistenti uomini del professor Armitage, nel film, sono sostituiti da due donne, probabilmente per facilitare l’intrigo amoroso il quale, a sua volta, finisce per fungere da MacGuffin della storia;
    • gli Antichi sono rappresentati come streghe danzanti dalla forma umana, scelta forse semplicistica che farà rabbrividere (in senso negativo) i fan dello scrittore;
    • lo stesso mostro di Dunwich, dall’effetto ben più apocalittico nel racconto, nella versione cinematografica appare più ridimensionato, probabilmente per motivi di budget;
    • il mostro viene “allevato” da nonno e nipote in una soffitta esclusa dall’accesso di chiunque altro: nel film è una sorta di elegante palazzo gotico, nel racconto una umile fattoria. Vedremo a lungo solo una semplice porta che vibra, in omaggio all’essenzialità simbolista tipica degli horror del periodo.

    Per quello che valgono questo genere di confronti, ed in relazione al fatto che Lovecraft difficilmente avrebbe apprezzato il cinema in toto, emerge che la rilettura proposta nel film è più che accettabile, offrendo più di uno spunto degno di nota. Non credo del resto che esista un solo film nella storia del cinema che abbia potuto riprodurre in modo fedele un romanzo o un racconto, per cui tanto varrebbe porre la questione in termini differenti.

    Al netto di qualche interpretazione arbitraria (il Male lovecraftiano, a cominciare dai titoli, viene visto come una sorta di generico “demone satanico”, probabilmente per esasperare la contrapposizione con gli abitanti cristiani e non proprio di larghe vedute), il film è ricchissimo di suggestioni, simbolismi e scenari dal sapore esoterico, con un uso sapiente della fotografia – soprattutto nelle sequenze più orrorifiche – senza dimenticare che il mostro da rappresentare, originariamente, era quasi sempre invisibile e per questo, sostanzialmente, nel film viene rispettato.

    Su tutti, a parte gli archetipi classici del genere, ne La vergine di Dunwich emerge una componente di horror psichedelico molto originale, quasi innovativa per l’epoca e sfoggiata nella sequenza in cui una delle assistenti del professor Armitage apre la porta che custodisce la mostruosità, e vive il contatto con il mostro come una specie di allucinazione caleidoscopica fatta di urla disperate ed immagini colorate e convulse, che potrebbe quasi essere tratta da Il serpente di fuoco, il film su un trip da LSD diretto dallo stesso Roger Corman che qui è solo produttore, ma che forse non avrebbe sfigurato alla regia.

    E anche la metafora amorosa e sessuale alla base dell’intreccio, da cui trasuda una sincera sensualità mai fine a se stessa (Sandra Dee non volle apparire nuda, per cui ricorse ad una controfigura per scene che, ad oggi, non risulterebbero certo pornografiche), sembra sposarsi perfettamente con il clima del film, che evoca per certi versi il feeling degli “amori impossibili”, tipici della letteratura gotica a partire dal Dracula di Bram Stoker.

  • Session 9 è il film di Schrödinger per eccellenza: piace e non piace al tempo stesso

    Session 9 è il film di Schrödinger per eccellenza: piace e non piace al tempo stesso

    Session 9″ sulla carta dovrebbe essere un thriller di buona fattura, un low-budget girato interamente in digitale, con diversi richiami a Shining – e alle atmosfere lugubri ed ambigue che caratterizzano buona parte della produzione di questo tipo. Probabilmente il condizionale è d’obbligo, e lo scrivo dopo aver appena finito di rivedere il film: poco da fare, manca qualcosa, che non è il mordente o simili – piuttosto la sensazione che provo è quella di essermi perso un maledetto dettaglio importante. Lo vidi quando uscì, e ricordo bene che mi fece un’impressione piuttosto nebulosa, anche se mi ero ripromesso di giudicarlo nuovamente (cosa che ho fatto stasera). Di fatto, la mia valutazione non è cambiata di una virgola.

    Un gruppo di operai – ci racconta la trama – si reca a ristrutturare con urgenza un vecchio edificio sede di un manicomio, nel quale iniziano a verificarsi strani avvenimenti, Uno dei manovali trova poi i nastri di un magnetofono: classificati come Session 1, 2, … e si tratta dei resoconti delle sedute psichiatriche di una ragazzina rinchiusa all’interno della struttura, contenenti delle inquietanti rivelazioni.

    Il rapporto ambiguo tra i due responsabili-capi del gruppo, di fatto, è la chiave di volta per la risoluzione della trama, che gioca abilmente su paranoie, paure ed il senso di smarrimento che un grosso edificio abbandonato naturalmente evoca. Il problema che ho rilevato, di fatto, è che tale sottostoria psicologica è a mio parere scollegata dal resto; se preferite, se esiste un collegamento è alquanto indigesto (una forzatura).

    Di fatto, rileggendo la sinossi, ho scoperto che ciò che ho trovato un po’ “campato in aria” è legato ad un preciso dettaglio sovrannaturale (il genius loci: per guardare horror e goderteli, purtroppo o per fortuna, devi essere un minimo colto – sennò non puoi manco criticare, a volte). Dal mio punto di vista roba del genere negli horror è un po’ fuori luogo, a meno che (unica eccezione) non sia inserito in un contesto gotico (e non è questo il caso): è uno dei motivi, peraltro, per cui sono arrivato a ritenere sopravvalutato addirittura “L’esorcista” (un giorno scriverò una recensione su questo film, a proposito: prima di allora sappiate che lo considero orrendamente sopravvalutato e troppo incentrato sulla zuppa di piselli, senza contare che a confronto ci sono film analoghi molto, molto migliori).

    Nonostante lo script di “Session 9” sia piuttosto avvincente, e nonostante la presenza di David “CSI” Caruso, ci troviamo di fronte ad un film che sostanzialmente lascia il tempo che trova: esiste un buon livello di tensione ed un’apparente linearità dell’intreccio, ma ad un certo punto ho perso il filo, e quando ti distrai da spettatore è solitamente un “cattivo segno”. Tuttavia non mi sento di definirlo un “brutto film”, semmai lo lascio confinato nel “non classificato” di cui sopra – e, per una volta, chi lo vedrà potrà giudicare da sè.

  • The Den: chat-roulette e serial killer dal dark web

    The Den: chat-roulette e serial killer dal dark web

    Elizabeth è una studentessa universitaria incaricata di studiare un campione di persone che interagiscono con una chat-roulette, ovvero una videochat ad interlocutori casuali (The Den potrebbe tradursi come “il covo”); dopo aver incontrato persone di ogni genere, assiste ad un omicidio in diretta.

    In breve. Un serial killer che si annida nel dark web: è questa l’idea alla base di uno slasher modernizzato, “ambientato” quasi interamente in una chat. Può sembrare banalotto, ma non lo è.

    La caratteristica principale di The Den è che la maggiorparte del film – non tutto – viene ripreso dall’interno di una chat, quindi mediante schermi di Mac e di smartphone. Siamo di fronte ad uno degli archetipi meglio realizzati di quella che a breve sarebbe diventata una tendenza – gli horror “virtualizzati” – da Unfriended (che è simile in tanti aspetti) fino ad un precedente altrettanto interessante: l’ingiustamente sottovalutato Smiley (che condivide la presenza di Melanie Papalia come attrice).

    Ogni cinefilo che si rispetti diffiderà per forza di cose da un film girato in webcam, ma questo soprattutto per una forma di legittimo “purismo” (qui parzialmente ingiustificato: i mezzi visivi non latitano, e non c’è monotonia), ma soprattutto memore del precedente argentiano de “Il cartaio“, storia di un killer su internet con videopoker non troppo amato dai fan, quanto immensamente premonitore del filone (è un film del 2004, un anno in cui neanche esistevano cam in HD).

    Se da un lato la visione di un omicidio in webcam sembra poveristica quanto improbabile o voyeuristica (la protagonista assiste ad uno snuff in diretta, ed è questo che farà degenerare la storia), è la tecnologia ad essere la vera protagonista: fin dall’inizio, infatti, finiamo per curiosare via computer tra i vari momenti privati della giornata di Elizabeth, anche quando non sta facendo alcuna ricerca – testandone così umore, sentimenti e legami con l’esterno.

    Tutte cose che non vedremmo in questa veste con una telecamera ordinaria, e che viene affidata a situazioni realistiche, forse al limite del semplicistico quanto “appetitose” per lo spettatore, il quale ha la sensazione di spiare davvero nella vita intrigante e nei segreti di una ragazza. Del resto se la parvenza vuole essere quella di real life, o esperimento di vita vissuta che chiunque potrebbe vivere (le chat roulette esistono sul serio, e sono un’esperienza dai tratti effettivamente inquietanti), resta una considerazione di fondo sul fatto che ad Elizabeth piaccia davvero scoprire il “lato oscuro” delle stesse, al di là del fatto che ci sia una borsa di studio a finanziarla. Ed il pubblico è messo davanti a questa situazione prima di qualsiasi altra considerazione, e prima della rivelazione – totalmente realistica – di ciò che si nasconde dietro i delitti. The Den è soltanto un software, un mezzo che porta (non è chiaro se incidentalmente o volutamente) alla morte ed alla sua osservazione morbosa.

    L’aspetto hacker, in questo dilagare di tecnologia quotidiana, è quello che finisce per spaventare sul serio col trascorrere dei fotogrammi: una tecnologia che sembra ribellarsi al controllo della protagonista, non solo riattivandosi autonomamente – ma anche registrandola a sua insaputa ed inviando i filmati via email. Se tutto questo poteva sembrare fantascientifico anni fa, con lo sviluppo tecnologico di oggi sappiamo che tutto ciò è non solo possibile, ma già successo: si pensi ai software RAT, ai ricatti online con video intimi, ai software di controllo remoto o alle attività di spionaggio di chi produce di malware.

    La stessa protagonista, del resto, finisce vittima di un clickjacking, seppur ciò in realtà possa avvenire in casistiche circoscritte (per fortuna). A questo punto, in ottica modernizzatrice del genere, qualsiasi zombi o irrealistico villain dovrebbe farsi da parte in favore di questo orrore (quantomeno filosoficamente) cyberpunk, calato in una fantascienza che viviamo e che ci illude con il mito più difficile da combattere: quello dell’esistenza di un “mondo virtuale” (vedi la polizia che non da’ importanza alle denunce di Elizabeth), quando si tratta più propriamente di un mondo interconnesso.

    Del resto se si pensa allo sviluppo della trama, c’è qualche feeling che potrebbe richiamare Hostel, un film in parte degradato da un’etichetta semplicistica (torture porn), ed a cui il regista sembra essersi ispirato per più di un aspetto. Forse è proprio quest’ultimo, un virtuale che diventa realtà, a rendere il film nettamente superiore a qualsiasi altro epigono del virtual horror.

    Da un punto di vista di collocazione di genere, The Den si colloca a pieno diritto nello slasher modernizzato, dove le componenti di base sono quelle di sempre (il college, il killer di ragazzi), giusto posizionate in una moderna videochat. Il richiamo al sottogenere inventato – tra gli altri – da Non aprite quella porta sembra adeguato, del resto, se si pensa ad un killer dalle fattezze vagamente simili a Leatherface. Al tempo stesso, Donohue insiste parecchio sull’aspetto “guardone” della trama non a sproposito, utilizzando telecamere non convenzionali (a circuito chiuso, portatili, di uno smartphone, di un PC) come unico “occhio” per conoscere la realtà, conferendo peraltro un vantaggio enorme al killer, che si annida tra esse e che agisce come un “Grande Fratello” (vede tutto senza essere quasi mai visto).

    Questo lo porta registicamente ad abusarne anche quando non sarebbe necessario, ma tutto sommato riesce a risolvere in modo eccellente quasi ogni scena, fino ad un finale in crescendo e ad una discreta sorpresa conclusiva. Sarebbe bello pensare di aver di fronte una vera, nuova generazione di horror che parta da qui, ma Zachary Donohue è al suo primo – e ad oggi unico – lungometraggio: meglio andarci cauti prima di parlare di un vero e proprio cult, ma sicuramente si tratta di un ottimo horror passato inosservato ai più, di cui probabilmente riconosceremo i meriti solo tra qualche tempo.