BRIVIDI_ (84 articoli)

Recensioni dei migliori thriller usciti al cinema e per il mercato home video.

  • L’iguana dalla lingua di fuoco: un giallo modello argentiano che vale la pena rivedere

    L’iguana dalla lingua di fuoco: un giallo modello argentiano che vale la pena rivedere

    Dublino: una donna viene brutalmente assassinata e sfigurata con il vetriolo da un misterioso individuo; si scoprirà essere un serial killer che taglia la gola a tutte le successive vittime. Il legame tra le stesse sembra essere un ambasciatore che si trova in zona…

    In breve. Giallo modello argentiano, interessante per molti versi quanto vagamente improbabile nelle conclusioni.

    L’iguana dalla lingua di fuoco – riferimento allegorico al potenziale assassino, ben nascosto nella giungla urbana quanto spietato al momento di agire – oltre ad essere debitore de L’uccello dalle piume di cristallo è anche l’unico giallo-thriller girato in Irlanda, almeno secondo IMDB. Molte delle scene furono girate a Waterford, a quanto risulta, in particolare quella celebre del ponte nella nebbia e quelle nei pressi del fiume. Si tratta di uno dei film più citati nella tradizione del giallo all’italiana, sulla scia di ciò che avrebbero girato Lenzi, Argento, Fulci e moltissimi altri. La scena dell’acido che corrode la faccia della vittima, ad esempio, venne realizzata con un miscuglio sperimentale che potesse emulare l’effetto del vetriolo (sostanza citata dalla polizia).

    Il soggetto si baserebbe sul misconosciuto romanzo “A Room Without a Door” scritto da Richard Mann, tanto che secondo il critico Roberto Curti esso nemmeno esisterebbe: in effetti il soggetto è accreditato a Riccardo Freda (che si firmò come Willy Pareto alla regia, perchè non gli piacque il risultato finale) e Sandro Continenza, in collaborazione con altri tre nomi: Günter Ebert, André Tranché ed il succitato Richard Mann (del quale effettivamente non ci sono notizie su IMDB, se non per l’unico romanzo in questione, del quale si fatica a trovare notizie anche altrove). L’ambientazione è in una Dublino lugubre e misteriosa, dal feeling puramente settantiano ed in cui si fuma ancora nei locali e si va in giro senza casco. La figura dell’assassino, ambigua fino alla fine (a partire dall’attribuzione del suo sesso) è un tagliagole spietato che sembra agire per frustrazione, anche qui sicuramente archetipico di molti altri killer del cinema che si sarebbero visti ed affinati in seguito, con altri registi.

    I toni del film sono quelli già noti del giallo italiano, per quanto qui ci troviamo di fronte ad uno dei primi esperimenti di questo genere: la polizia indaga su un delitto avvenuto in un ambiente apparentemente rispettabile, nel quale chiunque potrebbe essere l’assassino. I primi sospetti ricadono sullo stesso ambasciatore, ma poi Freda insiste sul dettaglio degli occhiali da sole (unica cosa riconoscibile del volto dell’assassino) i quali compaiono ripetutamente in varie parti del film, facendo rimbalzare i sospetti sull’autista, sulla figlia dell’ambasciatore, sul suo fratellastro, sulla figura dell’uomo che si aggira misteriosamente per la lussuosa casa dell’uomo, addirittura sulla figura del poliziotto dai metodi non convenzionali (interpretato da Luigi Pistilli). Un rimbalzo di sospetti ed un gioco di specchi che è tipico del genere, e che – almeno la prima volta che si vede la pellicola – tende a mantenere alto l’interesse del pubblico.

    Del resto non mancano i difetti anche in un film seminale del genere, al di là del richiamo nel titolo ad uno dei capolavori di Dario Argento (e la sua trilogia degli animali): le scene violente sono insolitamente esplicite per l’epoca, ma sfruttano artigianalmente gli effetti speciali che si sperimentavano, del resto, con gli scarsi budget dell’epoca. Non convincono troppo le interpretazioni di alcuni personaggi, anche se è interessante rilevare la figura del poliziotto che tende a risolvere la faccenda a modo proprio (un vero e proprio archetipo di personaggio, che polizieschi molto popolari riprenderanno di continuo, fino ad oggi). Anche a livello di soggetto, poi, la trama è costruita con una certa destrezza, ma le conclusioni non reggono del tutto: non è troppa chiaro il movente dell’assassino, tantomeno il suo singolare modo di camuffarsi.

    Il film si regge comunque dignitosamente, ed intriga – nonostante alcune sequenze non al top come effettistica, oltre che probabilmente poco realistiche: vedi la donna che rimane appesa al bordo del ponte – per la sua capacità di ribaltare i fronti più volte. Questo avviene anche per via del doppio finale, addirittura triplo se si considera l’ulteriore rivelazione degli scheletri nell’armadio di uno dei principali sospettati. Freda non ha voluto scagionare realmente nessuno: a cominciare dal poliziotto in cui il pubblico dovrebbe identificarsi (che ha un passato torbido e shockante) a finire dalle identità dei vari personaggi, di cui ognuno sembra nascondere segreti inconfessabili, allegorici ed intriganti.

    Visto oggi, rimane un film che ha fatto la storia del genere, e che si rivolge prevaltemente ad un pubblico di appassionati.

  • Giallo: il film di Dario Argento quasi da riscoprire

    Giallo: il film di Dario Argento quasi da riscoprire

    Nella Torino dei giorni nostri un maniaco rapisce e sevizia svariate donne fingendosi tassista; un poliziotto, assieme la sorella di una delle rapite, si mette sulle sue traccie…

    In breve. Scordatevi i fasti del passato, gli ascensori che decapitano e le coltellate coreografiche: “Giallo” è un prodotto nella media, molto diverso da quello che vi aspettereste dal Maestro romano – Questo per via di una sorta di influenza “televisionabile” e “americaneggiante” che ne condiziona l’andamento, e che globalmente ne snatura l’aspetto più seventies. Secondo molti, ciò avrebbe un’accezione totalmente negativa: a mio avviso non è così, e  pur non trattandosi di un lavoro propriamente memorabile c’è piena consapevolezza di quel che si fa. I fan non possono prescindere per completezza, tutti gli altri – per quello che posso capire – faranno volentieri a meno.

    La crisi creativa! Il cinema horror/thriller italiano è morto e sepolto (voi cosa avete fatto per aiutarlo, finora?), non si fanno più i film come una volta, una volta … che c’erano bei lavori, caro Lei! E poi: gli amici sono degli stronzi, si stava meglio quando si stava peggio, il metal non è musica ma rumore, non c’è più il-rispetto, una volta le persone si volevano più bene, era meglio questo attore di quello, “la doppia parte no, che poi si capisce subito“, la trama, uh! … com’è scontata, l’interprete femminile era “più bella che brava” (cit.). E se non vi basta, in “Giallo” c’è pure il tremendo “finale voluto dalla produzione”, una cosa che potrebbe scomodare addirittura le vicissitudini di Ridley Scott con il suo Blade Runner. Roba su cui, insomma, i critici costruirebbero volumi enciclopedici, e non sembrerebbero esserci dubbi (per queste ragioni) sul fatto che questa pellicola italo-americana vada semplicemente evitata. Eppure, incredibilmente, se lo si guarda col piglio corretto qualcosa non torna: Giallo/Argento non fa schifo. Certo, rimane un lavoro costruito con un ritmo altalenante, che vive alcuni momenti di discreto livello ed altri decisamente sottotono, e che qualcuno ha definito troppo televisivo: non è una cosa così orribile, in fondo anche i primissimi di Argento lo erano (“La porta sul buio“), e soprattutto il livello di gore di certe sequenze è fuori dal filmabile e questo, trattandosi di Dario Argento, non può che essere un bene. Manca qualcosa da “Giallo” – e su questo non ci piove, ma a ben vedere si tratta solo del feeling settantiano/ottantiano che ha ceduto inesorabilmente al “passo coi tempi”, producendo qualcosa di lontano dal cult ma che, globalmente, non è onesto stroncare in toto. La parola magica, in questi casi, è proprio questa: rassicurare. I fan di Argento (tra cui mi annovero), avvelenati da decenni di porcherie propinate a mo’ di cinema del terrore, vogliono essere rassicurati. Vorrebbero che il Maestro del Brivido gli desse esattamente quello che si aspettano: un nuovo Profondo Rosso, un Suspiria rivisitato, un Phenomena, un Inferno old-school. In molti casi queste persone, malate di “nostalgismo” cronico, vorrebbero il ritorno del 1970, del giradischi, delle sigarette nei cinema, degli occhiali 3D di cartoncino, dei capelli a microfono, magari pure delle TV valvolari e dei Black Sabbath versione giovanile. I nostalgici del resto, a forza di esserlo e di martellarsi gli attributi, paradossalmente perdono di vista quello che desiderano, finendo così per soffrire in eterno a vuoto. A me, insomma, la crociata intellettualoide anti-argentiana degli ultimi anni, pur dovendo riconoscere che il tempo passa e tende ad infiacchire, mi pare alquanto fuori luogo: “Giallo” è un prodotto diverso dal solito che si difende dignitosamente, al contrario di altri epigoni sopravvalutati. Il passato non si tocca, ma adesso è inutile ripetersi, vediamo cosa altro si può fare: e gli ultimi film di Argento (con poche eccezioni) a me trasmettono esattamente una voglia di rinnovare i canoni.

    Un balzo indietro nel tempo sarebbe invece del tutto irragionevole, e in definitiva “Giallo” non è assolutamente la porcheria immonda su cui avete potuto leggere. Con questo non voglio difendere acriticamente un prodotto di questo tipo, che dal canto suo possiede una trama troppo poco succulenta rispetto a quella dei succitati capolavori, oltre ad essere contaminata da un insidioso tubo catodico che la rende in troppi momenti decisamente fiacca. È un peccato peraltro, perchè l’inizio promette bene, citando il taxi di Suspiria ed il teatro di Profondo Rosso: “Giallo” suggerisce sul momento una sorta di “Non ho sonno” riveduto e corretto, e quest’ultimo rimane forse l’ultima vera espressione di un cinema che non esiste più. Non fai in tempo a fregarti le mani che arriva il colpo basso che non ti aspetti: e non mi riferisco all’identità dell’assassino, svelata allo spettatore con una naturalezza terrificante rispetto alla cura maniacale nel nascondere dettagli a cui siamo stati abituati in passato. Scopri piuttosto che il colore del titolo è da intendersi in senso letterale (fa riferimento alla pelle dell’assassino) e non meta-cinematografico – orbene, scordatevi Lenzi, Bava, Fulci e compagnia perchè non si tratta dell’opera citazionista a cui potevate aver pensato. No, non è l’ennesimo revival settantiano, anche se c’è qualcosa che arriva a prendere ispirazione da alcune caratterizzazioni del passato: l’assassino, per esempio, finisce per ricordare altri suoi omologhi di metà anni 80, essendo un emarginato che uccide per frustrazione e soprattutto per solitudine. Alcuni da sprazzi di torture porn moderni e da thriller commerciali “in prima serata su RaiDue” chiudono il cerchio, e rendono il film un lavoro difficile da inquadrare e, al tempo stesso, troppo scontato da stroncare. Roba non eccelsa nel suo complesso, di fatto, quantomeno in linea con alcune delle uscite di successo del periodo e qualche richiamo a film come “Il collezionista di occhi“. Spero di aver reso l’idea di questa singolare pellicola che, con pochi pregi e vari difetti, si trascina per un finale mediocre ma, a suo modo, abbastanza imprevedibile. Nonostante un certo livello di piattume la cruenza di certe scene è tornata ad essere intatta, e questo farà piacere a molti, anche se il contesto sarà comunque discutibile fino alla fine. Chiaro, c’è un pesante tocco esterno (gli americani) e si nota, ma la cattiveria ed i primi piani che hanno reso famoso Argento ci sono, anche se passano quasi inosservati e senza lasciare propriamente il segno.

    Altro che la webcam del Cartaio: i momenti di tensione sono avari ma dosati con fermezza (anche musicalmente) e posseggono una carica violenta, visionaria e morbosa che a me ha ricordato l’atmosfera chirurgica di Shadow e, verso la fine, il celebre clarinetto di “Non ho sonno”; sempre sprazzi leggeri, mai evocazioni vere e proprie. Impossibile non citare la cruenta aggressione del macellaio (il passato dei due antagonisti è filmato con gran classe), oltre alle feroci torture vagamente – e senza scopiazzare – alla Hostel. Non malissimo, quindi: sotto il profilo prettamente gore troverete sangue, labbra e dita tagliate, siringhe anestetiche in primissimo piano oltre ad un senso di “vedo-non vedo” che potrà risultare atipico allo spettatore medio di Argento ma che, in tutta sincerità, non è quella cosa immonda di cui troppi hanno blaterato senza badare al film stesso. Nessuno, peraltro, ha detto una parola su un gruppo di attori decisamente superiori alla media, oppure sull’interessante doppia interpretazione di Adrien Brody, troppo occupati come erano a “denunciare” in modo saccente che ci sarebbe uno spoiler nei titoli (?), e che si capisce subito come stanno le cose (molte grazie della precisazione, del resto l’assassino lo vediamo in faccia da subito … magari non era questo il punto). Prendo le distanze da chiunque, a questo giro: da chi non lo ha visto pregiudizialmente, dai siti horror che non hanno (forse snobisticamente) avuto la voglia di recensirlo, e da coloro che hanno preso spunto da Giallo per ribadire che Argento non esiste, deridendone forma e contenuti con argomentazioni limitrofe a quella di un bar. Un feeling, quello del film, di suo poco impegnativo, degno di un discreto prodotto commerciale con cui trascorrere una serata che pero’ non merita, per quello che si vede, di essere trucidato come fosse una pacchianata della Asylum. Il punto dolente, semmai, è che ormai il regista romano sembra quasi costretto a fare quello che i fan esigono, e guai ad uscire dalle righe perchè sarai massacrato da tutti senza appello. Onore a lui invece, ed al fatto che – tra felici riprese e cali pesantissimi – si continui a rifiutare di riciclare il passato nel presente. Giallo è questo, probabilmente meno di quanto io abbia scritto, ma voi diffidate da chi lo ha recensito ribadendo la melensa storiella del “si stava meglio quando si stava peggio” o l’intramontabile “vuoi mettere la magia dei primi?”. Per me qualsiasi parallelismo tra due film distanti 30 anni l’uno dall’altro è fuori dal mondo, talmente strambo e campato in aria da farmi sospettare che molti dei suddetti “critici” non sappiano davvero di cosa stanno parlando. Non accetto per questa ragione che costoro, e lo scrivo con tutto il rispetto possibile, possano non soltanto sputtanare un genere in toto, ma addirittura intavolare comizi sulla situazione penosa del thriller/horror in Italia. Gente che, purtroppo, Albanesi e Zampaglione in molti casi non sa nemmeno chi siano. Se lo scopo di una critica cinematografica dovrebbe essere quella di far capire cosa contiene un lavoro non ho trovato nessuno, in questo caso, che sia riuscito a farmi questa cortesia. E forse è stato meglio così, perchè o io ho visto un altro film del 2009 chiamato “Giallo” (con i suoi noti problemi di distribuzione), oppure chi ne ha scritto ha guardato qualcos’altro.

  • Haze è un Cube più paranoico

    Haze è un Cube più paranoico

    Mediometraggio del visionario regista nipponico: claustrofobico e bizzarro, puo’ essere utile per avvicinarsi allo stile del regista che qui “dimentica” parzialmente il cyberpunk per concentrarsi sulle logiche di sopravvivenza.

    In breve: se pensate che Cube sia troppo banale, avete trovato pane per i vostri denti. Per voi, e per pochi altri.

    Un uomo si risveglia all’interno di un luogo buio senza ricordare nulla della sua vita passata, e senza avere alcuna idea di che razza di posto possa essere: è al buio, con un soffitto spiovente praticamente sotto il naso, senza uscita. Una bara gigantesca di cemento nella quale è difficile, se non impossibile, riuscire a venire fuori. Il motivo per cui l’uomo è stato rinchiuso lì non è dato conoscerlo: forse un maniaco lo ha rinchiuso lì dentro, forse è scoppiata una guerra ed è stato fatto prigioniero, forse è solo una metafora delle metropoli giapponesi, alienanti e soffocanti (un’immagine molto cara al regista).

    Il labirinto è una visione pessimistica dell’esistenza, nel quale il protagonista tenta una fuga prima strisciando lungo un tubo con i denti (memorial delle scene iniziali di Tetsuo, evidentemente), poi seguendo i vari cunicoli che lo porteranno a vedere altri uomini imprigionati nell’orrido luogo, come lui quasi completamente nudi e, quel che è peggio, orrendamente massacrati non appena proveranno a fuggire. L’incontro con una donna gli cambierà l’esistenza, e lo convincerà che è necessario provare ancora una volta, nuotando nell’acqua…

    Prendendo in prestito qualcosina da “The cube“, e facendo massacrare un po’ di comparse in stile “Saw – L’enigmista“, Tsukamoto confeziona un discreto mediometraggio, che fa urlare al miracolo solo se si è avvezzi al genere, e farà esprimere imprecazioni in tutti gli altri casi. Con il suo consueto stile rapido, violento e così poco “occidentale”, il regista disorienta, mostra spezzoni di sequenze rapidissime quasi fosse un video musicale dell’orrore, e fa capire poco o nulla della trama per circa metà del film (soli 45 minuti in tutto). Il rischio che il tutto venga etichettato come inutile sperimentalismo c’è ed è molto forte, ma Tsukamoto è questo, ed è pure abbastanza difficile, se non impossibile, non accettare la sua visione delle cose.

    L’unico barlume di razionalismo nella vicenda sembra derivare, solo nel finale, dalla storia tra l’uomo (interpretato dal regista stesso) e la donna, unico reale barlume di realismo per dare un senso concreto alla storia, in grado di soddisfare i soliti razionalisti vogliosi della fantomatica spiegazione logica a tutta la storia. L’amnesia sembra essere dovuta al trauma, ma questa interpretazione lascia parecchi punti di dubbio ugualmente – e va bene così. Come nel Lynch più surrealista, per Tsukamoto le sensazioni suscitate contano molto, molto di più della trama.

  • Thriller – en grym film: dove nacque l’ispirazione per Kill Bill

    Thriller – en grym film: dove nacque l’ispirazione per Kill Bill

    Una giovane donna subisce un pesante trauma nell’infanzia, che la rende completamente muta: anni dopo, viene rapita da uno sfruttatore di prostitute e ne rimane schiava per diverso tempo, finchè non inizia a preparare la propria vendetta…

    In breve. Pluri-osannato – ed in parte iper-valutato – da Tarantino, che si ispirò al personaggio di Frigga per costruire Elle Driver nel  suo Kill Bill, è uno dei più famosi sexploitation mai realizzati, archetipo di film rape’n revenge a cui moltissimo deve I spit on your grave di M. Zarchi.

    Se è vero che il cinema di Tarantino si è sempre detto ispirarsi a quello di genere italiano dei tempi d’oro, Thriller di Fridolinski dovrebbe essere citato praticamente in automatico: visto oggi, appare come una versione primordiale di Kill Bill e, anzi, la pellicola del regista americano a confronto appare quasi sbiadita, in parte ripulita ed adeguata a canoni più “ragionevoli”.

    Thriller – en grym film è un film sporco, sudicio e crudele in ogni singola sequenza, per il quale il personaggio di Frigga/Madeleine crea immediata empatia nel pubblico. Riesce a mantenere l’attenzione viva ancora oggi, e non risente neanche troppo – secondo me incredibilmente – dell’età che lo caratterizza. È vero, comunque, che film del genere sono piuttosto rari e che, per questo, è altrettanto facile (e secondo me Tarantino lo fa) sopravvalutarne l’impatto. Di fatto è un film senza eguali, un porno-thriller come nessuno avrebbe osato.

    Il sesso – doloroso, violento e tutt’altro che allegro – che si vede in Thriller – en grym film, presente in forma di pornografia solo nella versione uncut (Thriller: A Cruel Picture), e non in quella “perbenista” dal titolo Thriller: They Call Her One-Eye, sarebbe addirittura funzionale, se non fosse che quelle sequenze (tre minuti extra, non di più) ne esasperano l’aspetto voyeur, dato che diventano esplicite e fini a se stesse come in un qualsiasi porno. Questo, secondo me, rende Thriller – oltre che sanamente nichilista – leggermente fiacco e, se vogliamo, meno credibile di quanto sarebbe stato privato di quelle sequenze (girate da una coppia di sex-performer girovaghi che si prestarono a controfigura).

    Del resto, sembra che Fridolinski (nome d’arte del Bo Arne Vibenius, aiuto regia di Bergman per il suo “Persona“) abbia voluto shockare il proprio pubblico in modo programmatico, realizzando un film sostanzialmente commerciale – ma al tempo stesso privo del perbenismo del settore che conosciamo a menadito. In un certo senso, a conti fatti, l’idea di affiancare sesso esplicito a violenza “ad orologeria” (in una storia soffocante, claustrofobica e tutt’altro che stupidotta, come si potrebbe temere) è almeno in parte vincente, proprio perchè non ti aspetteresti mai una cosa del genere.

    Questa scelta, almeno nella versione senza tagli (la versione doppiata in italiano è perduta, salvo ritrovamenti e riedizioni che, secondo me, prima o poi si vedranno), mantiene vivo l’interesse dello spettatore fino alla fine. Interesse che, a dire il vero, non si sarebbe smarrito: Thriller è accattivante, diretto, ben interpretato (forse l’unico vagamente sottotono è l’antagonista Heinz Hopf, mentre la Lindberg è sublime) e con una storia davvero ben congegnata.

    Thriller – en grym film è, almeno in questa scelta, fuori da qualsiasi canone, ed è questo al tempo stesso il suo principale punto di forza e vulnerabilità. Resta un buon film soprattutto per il ritmo, per i particolarissimi slow motion – girati con una videocamera in uso presso l’esercito, a 500 fotogrammi al secondo – e per il personaggio di Frigga/Madelein, simbolo di innocenza martoriata e di età adulta raggiunta, suo malgrado, in un mondo di abusi, violenza e cinismo, e della quale invochiamo ansiosamente la vendetta.

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  • Maniac: l’horror di Lusting delinea uno dei migliori serial killer del cinema

    Maniac: l’horror di Lusting delinea uno dei migliori serial killer del cinema

    Frank Zito (Joe Spinell) è un cittadino newyorkese dalle tendenze psicopatiche: avvicina donne di varia estrazione sociale e le uccide brutalmente. Potrà la frequentazione della bella fotografa Anna (Caroline Munro) cambiare per sempre le sue tendenze  omicide?

    In breve. Dal regista di Maniac cop un thriller cupo e vagamente poveristico nell’impianto, con recitazione non eccelsa ed effetti interessanti solo a sprazzi, senza contare che venne girato con un budget limitatissimo. Nonostante ciò, “Maniac” è un thriller seminale che possiede pregi innegabili: l’originalità del plot, un paio di sequenze di culto e il fatto che ha posto le base di una infinita scia di slasher con protagonista l’assassino misogino dal passato problematico.

    Maniac” è uno dei tanti slasher ottantiani, nascosti nel sottobosco cinematografico, che possiede il merito (con tutti i limiti del caso) di evocare più di qualche gradevole sorpresa per gli appassionati. I limiti in questione sono gli stessi che certa critica, entusiastica a prescindere (per non dire a-critica), ha evitato a volte di sottolineare, nascondendo i difetti del film sotto il più classico degli zerbini: Maniac è un cult, e come tale andrebbe teoricamente considerato esente da difetti. Il che, oltre ad essere inesatto, significa raccontare in malo modo un piccolo film artigianale, costato comunque solo 48.000 dollari e dotato di un’espressività senza eguali, almeno per l’epoca. Seguendo la falsariga dei precedenti thriller exploitativi dotati di feroci assassini/violentatori di giovani fanciulle – citiamo randomicamente: Il mostro della strada di campagna, L’ultima casa a sinistra, I spit on your grave – il film scorre sullo schermo con toni fin da subito tesissimi, inquietanti quanto accattivanti.

    La storia è incentrata quasi del tutto sulla mente di uno psicopatico protagonista, il che potrebbe avere qualche somiglianza con il cult brasiliano del 1964 A mezzanotte possiederò la tua anima, con cui Maniac condivide se non altro il tipo di storia ed il ritmo, per quanto sia legato ad un piano apparentemente più materialistico. Nel raccontare la storia di Frank, psicopatico dalla parvenza inquietante –  affine allo stereotipo di un tipo insicuro con le donne, dall’aspetto anonimo, solitario e non proprio in forma che diventa, con la violenza che esercita, il gemello cattivo di se stesso – la regia di Lusting realizza un film lurido, delirante e (ovviamente) carico della più degenerata violenza. Nonostante presupposti del genere rendano il tutto mera exploitation, la trama regge dignitosamente, a dispetto di una forma visuale non troppo nitida – dovuta ai limiti di budget, sebbene con qualche piccolo effetto visivo superiore alla media. Le scene cruente, con tutti i limiti delle pugnalate teatrali e dei litri di sangue visibilmente finto, sono un qualcosa che finiranno per far divertire/spaventare gli appassionati e ridere tutti gli altri: i soliti duplici piaceri da b-movie, alla fine.

    La doppia personalità che convive in Frank possiede un che di trascendente, e lo rende capace di massacrare donne e sparare fucilate a freddo (una delle sue vittime sarà un personaggio interpretato dall’effettista Tom Savini) quanto di lasciarsi andare a insospettabili galanterie con la donna da cui è attratto (la Munro), regalandole un orsacchiotto ed invitandola ad una romantica cena. Un chiaroscuro inquietante che convince pienamente solo per via del contesto e dell’età del film, dato che rimarrà come archetipica per molti altri lavori successivi (e per un remake più recente, tra l’altro).

    Alcune sequenze di “Maniac” appaiono un po’ prevedibili per il pubblico moderno, tipo la “cronaca della morte annunciata” dell’infermiera bionda, che per qualche incomprensibile ragione preferisce, a fine lavoro, andarsene in giro in solitaria su una strada desolata invece di accettare un passaggio dalla collega. Un vero colpo di genio, tanto più se effettuato sessanta secondi dopo aver letto la notizia del serial killer che sta massacrando donne. In fondo li perdoniamo: stavano “solo” girando un horror negli anni 80.

    Presente inoltre qualche breve momento di riflessione, che serve a spezzare sequenze che – in circostanze differenti – sarebbero diventate un po’ noiose. “Maniac” soffre di qualche problema di ritmo, nonostante la sua durata di soli 83 minuti, nonostante il crescendo finale. Interessante, poi, l’analisi della fobia della solitudine da parte del protagonista, e qualche suggestione filosofico-esistenzialista tirata un po’ con le pinze (“Non c’è modo per cui tu possa possedere qualcuno per sempre, anche con una fotografia: non c’è modo“: panta rei, insomma).  Tenendo conto che si tratta di uno dei primissimi film ottantiani a realizzare completamente quello che sarebbe diventato un vero e proprio genere – lo slasher a tinte erotiche – c’è comunque da togliersi il cappello e apprezzare, se si vuole, il risultato per quello che è e per il periodo in cui uscì.

    Azzeccatissima la minimale colonna sonora elettronica di Jay Chattaway, uno degli elementi più in risalto di una pellicola datata, non troppo brillante nella dinamica e che vive i momenti migliori nel delirante ed inaspettato finale (degno di un racconto di Poe o Lovecraft). Un film imperdibile per i cultori dei vari Venerdì 13 e Henry pioggia di sangue, con il quale “Maniac” presenta svariati punti di contatto, a cominciare dalla prospettiva ossessivamente incentrata sulla mentalità del protagonista. Al di là del valore storico, pertanto, credo si tratti di un poco più che discreto b-movie che potrebbe, a conti fatti, risultare una piacevole sorpresa per qualche spettatore.