BRIVIDI_ (84 articoli)

Recensioni dei migliori thriller usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Quei bravi ragazzi: cast, produzione, sinossi, curiosità e spiegazione finale

    Quei bravi ragazzi: cast, produzione, sinossi, curiosità e spiegazione finale

    Il film narra la storia di Henry Hill, un giovane italoamericano che entra a far parte della mafia italoamericana di New York negli anni ’50. Seguiamo la sua ascesa all’interno dell’organizzazione, le sue connessioni con i suoi compagni criminali Jimmy e Tommy, e la sua relazione tumultuosa con la moglie Karen. La narrazione mostra come la vita criminale inizialmente sembri affascinante e redditizia, ma poi si trasformi in un vortice di violenza, tradimenti e paranoia.

    Cast Principale

    • Ray Liotta nel ruolo di Henry Hill
    • Robert De Niro nel ruolo di James “Jimmy” Conway
    • Joe Pesci nel ruolo di Tommy DeVito
    • Lorraine Bracco nel ruolo di Karen Hill
    • Paul Sorvino nel ruolo di Paul Cicero

    Produzione

    Il film “Quei Bravi Ragazzi” è stato diretto da Martin Scorsese e rilasciato nel 1990. Il regista ha lavorato con una squadra talentuosa e un cast eccezionale per portare alla vita l’adattamento cinematografico del libro “Wiseguy” di Nicholas Pileggi.

    Curiosità

    • Joe Pesci vinse l’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista per il suo ruolo nel film.
    • Il personaggio di Tommy DeVito, interpretato da Joe Pesci, è basato su un vero membro della mafia, Thomas DeSimone.
    • Martin Scorsese fa un breve cameo nel film come malvivente che dà una delle pistole a Tommy.

    Spiegazione Finale

    Avviso spoiler

    Nel finale del film, la tensione all’interno della mafia raggiunge il suo culmine. Jimmy teme che Henry possa tradirlo alle autorità, quindi decide di eliminare Henry. Jimmy convince Henry a fare un’ultima attività criminale, ma in realtà sta organizzando il suo omicidio. Henry si rende conto dell’inganno quando si trova in un luogo isolato insieme a Tommy. Quest’ultimo viene ucciso da Jimmy, dimostrando l’imprevedibilità e la brutalità dell’ambiente criminale.

    Henry decide di collaborare con il governo e testimoniare contro i suoi ex colleghi, cercando di ottenere un nuovo inizio lontano dalla criminalità. Il finale del film ritrae Henry con una nuova identità e una nuova vita, testimoniando in tribunale contro i suoi ex complici. La scelta di Henry di tradire la sua famiglia mafiosa riflette il conflitto tra il suo desiderio di proteggere la sua famiglia biologica e la sua affiliazione alla famiglia criminale.

    In questo modo, il finale del film sottolinea la fragilità delle relazioni all’interno della mafia, l’ineluttabilità della violenza e il prezzo delle scelte criminali.

  • Dietro la porta chiusa di Fritz Lang c’era un mondo oscuro (ma non troppo)

    Dietro la porta chiusa di Fritz Lang c’era un mondo oscuro (ma non troppo)

    Cecilia è una giovane donna riluttante al matrimonio, che durante un viaggio in Messico conosce un affascinante architetto, che deciderà inaspettatamente di sposare. L’uomo sta sviluppando una teoria sull’architettura delle camere, che – a suo dire – sarebbero legate a ciò che succede, o è successo, all’interno delle stesse. Cecilia scoprirà una vera e propria collezione di stanze, di cui l’ultima è rimasta chiusa per motivi incomprensibili…

    In breve. Thriller d’epoca profetico per forma e sostanza, dai toni che richiamano Hitchcock e a cui molti altri registi sembrano essersi ispirati in seguito. Da un lato troviamo le porte della casa, un elemento portante della storia e con tutto ciò che implicano e sottintendono nella psicologia dei personaggi; dall’altro, alcune ingenuità della storia, ed il tono rassicurante del finale, finiscono per rendere godibile il film per ogni spettatore, più che renderlo fiacco. Rilevante perchè si può considerare quasi un saggio di psicanalisi, perchè il rapporto ambiguo tra i due coniugi è archetipico e anche perchè – in modo parzialmente involontario – molti elementi del film si ritroveranno anche in tantissimi gialli all’italiana.

    Incluso nella lista dei 1001 film da vedere prima di morire (1001 Movies You Must See Before You Die, scritto dal critico Steven Schneider, con volume disponibile su Amazon apparentemente solo in inglese), è uno dei padri più importanti e film più influenti per il genere giallistico, di cui eredita molti elementi che saranno poi tipici dei gialli all’italiana. Si tratta del primo film americano dell’attore Michael Redgrave, abbastanza in voga nel periodo e qui presente nella parte di Mark Lamphere, uno dei protagonisti della storia. Storia che Fritz Lang declina con toni hitchcockiani subito dopo aver tentato di realizzare una propria versione del celebre Rebecca – La prima moglie, con risultati tutt’altro che esaltanti, e finendo fuori budget e fuori tempo massimo.

    Secret Beyond the Door finisce per essere un film parecchio rilevante per il genere thriller, soprattutto nel proprio essere archetipico, quasi fuori dal tempo, prima di chiunque altro: la storia che racconta è morbosa quanto universale, non è invecchiata fino ai giorni nostri ed è girata con grande gusto per le immagini. Il film verte sulla progressiva scoperta da parte della protagonista (una Joan Bennett particolarmente calata nella parte) dell’identità reale del proprio compagno, dipinto inizialmente come mite ed affabile ed in realtà legato ad una morbosa storia legata, come in una favola nera, a sette stanze di cui una inaccessibile dall’esterno. Il soggetto, poi, è tratto da un racconto di Rufus King, dal titolo Museum Piece Nb.13.

    Valgono a molto, a riguardo, le parole di elogio del critico Cesare Sacchi, che sulla rivista Cineforum n.252 definisce “Dietro la porta chiusa” uno dei migliori saggi freudiani mai girati: “uno degli omaggi più seri ed attenti che il cinema abbia fatto alla cultura freudiana. Infatti, un caso clinico, presentato con rigore, sensibilità e competenza, viene contemporaneamente ridefinito, arricchito e trasfigurato in un linguaggio cinematografico allusivo, pregnante, quasi onirico, che risulta non solo molto aderente alla vicenda psicopatologica e terapeutica, ma sembra altresì in grado di suggerire e sottolineare l’intensità e in certo modo l’intimità di talune atmosfere relazionali, quali si producono, specificamente, nel corso di un’analisi“.

  • The Bad Batch: pulp cinico alla Tarantino

    The Bad Batch: pulp cinico alla Tarantino

    In un futuro prossimo, una ragazza viene condannata a vagare nel deserto in quanto “indesiderata” dalla società.

    In breve. Singolare variazione di tema rispetto al post-apocalittico classico, che rimane sempre popolato di anti-eroi e che, in questa sede, vede una protagonista femminile.

    L’operazione della regista Amirpour (questo è il suo secondo film), fin dai primi fotogrammi si mostra debitrice del cinema di genere di ogni ordine e grado, con l’analogo più recente dato da Revenge, ma anche a livello di ambientazione desertica e surreale in Laissez bronzer les cadavres. Arlen prende molto delle tipiche caratteriste tarantiniane (Kill Bill, Pulp Fiction) ma, ancora prima, da film come Thriller – En grim film: anche in quel caso, in effetti, abbiamo una protagonista in cerca di vendetta (e con un vistoso problema fisico: una volta alla vista, l’altra agli arti).

    Lavori del passato in grado di ribaltare, da sempre, gli assunti narrativi mainstream, quelli che impongono “l’eterna lotta tra il bene ed il male“, li stravolgono, li rimasticano per poter poi proporre (in modo meno manicheo) una storia cruda, diretta ed esplicita come non mai.  È alquanto limitativo che ci si limiti a bollare come “tarantiniano” The bad batch, perché – alla prova dei fatti – è molto di più: basterebbe considerare sequenze simboliche e grottesche come la “comunione” dei seguaci del santone mediante LSD, ad esempio, per convincersene. Per quanto il ritmo del film sia costante e privo di buchi narrativi, la vera perla conclusiva è sul finale, che ironizza sul degrado che ha caratterizzato il film ed è costruito su un singolare humour nero.

    Se è vero che le dinamiche del film sono totalmente da film di genere (che è – quasi sempre, direi – esercizio di stile per il piacere di proporlo) qui si prova a trasmettere un feeling ulteriore allo spettatore. Ciò implica che, tirando troppo la corda sulle possibili interpretazioni, si rischi solo di proporne di ridicole. Al netto di questi dubbi, inevitabili per un film del genere, The bad batch sembra voler proporre – come nella tradizione post-apocalittica (si veda anche The divide)  – un’umanità completamente allo sbando, in cui la lotta per la sopravvivenza viene imposta fin da bambini ed in cui, soprattutto, si evidenzia come qualsiasi modello di società sia soggetto a limiti e problematiche.

    La storia, del resto, inizia dagli stessi presupposti da cui partiva Fuga da New York: nel film di Carpenter i reietti erano stati confinati in una città abbandonata, mentre qui (in un gioco complementare che richiama, a sua volta, film come Interceptor) sono mandati fuori, in esilio – in un deserto sconfinato, in cui sembrano coesistere vari villaggi ed altrettanti gradi di civiltà: tutte basate sull’abuso, sulla violenza o sulla manipolazione, ognuna con rispettivi limiti e nessuna davvero “perfetta”. Un pessimismo antropologico piuttosto evidente, visibile anche nei caratteri dei personaggi che non sono mai pienamente identificabili come “buoni” o “cattivi”.

    In The bad batch (letteralmente il lotto difettoso, l’indesiderato/a – per inciso, l’assonanza con The bad bitch sembra del tutto incidentale) coesistono i ricicli di genere, il cannibalismo, l’horror sociale, l’ambientazione modello Mad Max e il culto nichilista della vendetta, quella feroce (e femminile) inaugurata da film come I spit on your grave. Prescindere da tutti questi aspetti, come molte analisi piuttosto grossolane sul web hanno fatto, secondo me significa svilire completamente un’opera davvero interessante e, per quanto non inedita, in larga parte imprevedibile ed originale.

  • Pi greco (π) Il teorema del delirio: il film cerebrale e intricatissimo di Aronofsky

    Pi greco (π) Il teorema del delirio: il film cerebrale e intricatissimo di Aronofsky

    Un matematico sembra in procinto di scoprire un modello che possa prevedere le quotazioni in borsa: nel frattempo viene spiato da alcuni dirigenti di Wall Street, ed un gruppo di ebrei ortodossi lo contatta perché interessati ad approfondire la numerologia della Kabala…

    In breve. Un buon film “indie“, piuttosto impegnativo dal punto di vista concettuale (specie se non avete idea di “dove stia di casa” la matematica), ma altrettanto interessante sul piano filosofico: indaga sui misteri della mente e sulla smània di scoprire l’ignoto, portando il tutto ad estreme conseguenze, con tanto di allucinazioni lynchiane e qualche sprazzo di horror letteralmente “cerebrale”.

    Rielaborando astutamente il mito di Icaro, il regista Aronofsky elabora una sceneggiatura che ricorda una versione underground di “A Beatiful Mind” e che, di fatto, risente pesantemente di tutto un cinema di fantascienza, nel quale le attività del protagonista si ripercuotono in modo alienante sulla sua vita di ogni giorno. Il matematico Max è l’archetipo di nerd troppo cresciuto: uno scienziato solitario ed introverso, capace comunque di mostrare un animo sensibile (ad esempio quanto gioca a calcolare mentalmente complesse moltiplicazioni con la figlia della vicina, vero punto chiave del film), incapace quasi del tutto di rapportarsi all’altro sesso. Senso di solitudine simboleggiato, nel film, dal fatto che poco prima di premere il tasto “Invio” per avviare i sospirati calcoli, avverte l’ansimare erotico dei vicini proveniente dall’appartemento a fianco. Un messaggio che sembra calare pesantemente sugli spettatori più empatici, come a suggerire come l’unico tipo di amplesso per Max sia quello tra uomo e macchina (come già avveniva in Videodrome), capace di generare esclusivamente follia, servendo in tal modo anche da mònito.

    Pi Greco – Il teorema del delirio” ha avuto un discreto successo al Sundance Film Festival, ed il regista ha ricevuto un premio (Independent Spirit Award) per la miglior sceneggiatura d’esordio, che ha firmato dopo un lavoro iniziato nel 1998. Un buon lavoro che lascerà soddisfatto lo spettatore fino alla fine, ricco di suggestioni allucinatorie spesso in bilico tra realtà e finzione, e specie per le conclusioni decisamente “umanizzate” del finale. Di fatto, il messaggio non sembra tanto incentrato sul poter realmente riuscire a modellizzare l’universo con la matematica, quando sulle devastanti conseguenze di questa ossessione sull’animo dei due matematici protagonisti (l’allievo Max ed il suo maestro).

    12 e 45. Enuncio di nuovo la mia teoria. Primo, la natura parla attraverso la matematica. Secondo, tutto ciò che ci circonda si può rappresentare e comprendere attraverso i numeri. Terzo, tracciando il grafico di qualunque sistema numerico ne consegue uno schema, quindi ovunque, in natura, esistono degli schemi

  • L’iguana dalla lingua di fuoco: un giallo modello argentiano che vale la pena rivedere

    L’iguana dalla lingua di fuoco: un giallo modello argentiano che vale la pena rivedere

    Dublino: una donna viene brutalmente assassinata e sfigurata con il vetriolo da un misterioso individuo; si scoprirà essere un serial killer che taglia la gola a tutte le successive vittime. Il legame tra le stesse sembra essere un ambasciatore che si trova in zona…

    In breve. Giallo modello argentiano, interessante per molti versi quanto vagamente improbabile nelle conclusioni.

    L’iguana dalla lingua di fuoco – riferimento allegorico al potenziale assassino, ben nascosto nella giungla urbana quanto spietato al momento di agire – oltre ad essere debitore de L’uccello dalle piume di cristallo è anche l’unico giallo-thriller girato in Irlanda, almeno secondo IMDB. Molte delle scene furono girate a Waterford, a quanto risulta, in particolare quella celebre del ponte nella nebbia e quelle nei pressi del fiume. Si tratta di uno dei film più citati nella tradizione del giallo all’italiana, sulla scia di ciò che avrebbero girato Lenzi, Argento, Fulci e moltissimi altri. La scena dell’acido che corrode la faccia della vittima, ad esempio, venne realizzata con un miscuglio sperimentale che potesse emulare l’effetto del vetriolo (sostanza citata dalla polizia).

    Il soggetto si baserebbe sul misconosciuto romanzo “A Room Without a Door” scritto da Richard Mann, tanto che secondo il critico Roberto Curti esso nemmeno esisterebbe: in effetti il soggetto è accreditato a Riccardo Freda (che si firmò come Willy Pareto alla regia, perchè non gli piacque il risultato finale) e Sandro Continenza, in collaborazione con altri tre nomi: Günter Ebert, André Tranché ed il succitato Richard Mann (del quale effettivamente non ci sono notizie su IMDB, se non per l’unico romanzo in questione, del quale si fatica a trovare notizie anche altrove). L’ambientazione è in una Dublino lugubre e misteriosa, dal feeling puramente settantiano ed in cui si fuma ancora nei locali e si va in giro senza casco. La figura dell’assassino, ambigua fino alla fine (a partire dall’attribuzione del suo sesso) è un tagliagole spietato che sembra agire per frustrazione, anche qui sicuramente archetipico di molti altri killer del cinema che si sarebbero visti ed affinati in seguito, con altri registi.

    I toni del film sono quelli già noti del giallo italiano, per quanto qui ci troviamo di fronte ad uno dei primi esperimenti di questo genere: la polizia indaga su un delitto avvenuto in un ambiente apparentemente rispettabile, nel quale chiunque potrebbe essere l’assassino. I primi sospetti ricadono sullo stesso ambasciatore, ma poi Freda insiste sul dettaglio degli occhiali da sole (unica cosa riconoscibile del volto dell’assassino) i quali compaiono ripetutamente in varie parti del film, facendo rimbalzare i sospetti sull’autista, sulla figlia dell’ambasciatore, sul suo fratellastro, sulla figura dell’uomo che si aggira misteriosamente per la lussuosa casa dell’uomo, addirittura sulla figura del poliziotto dai metodi non convenzionali (interpretato da Luigi Pistilli). Un rimbalzo di sospetti ed un gioco di specchi che è tipico del genere, e che – almeno la prima volta che si vede la pellicola – tende a mantenere alto l’interesse del pubblico.

    Del resto non mancano i difetti anche in un film seminale del genere, al di là del richiamo nel titolo ad uno dei capolavori di Dario Argento (e la sua trilogia degli animali): le scene violente sono insolitamente esplicite per l’epoca, ma sfruttano artigianalmente gli effetti speciali che si sperimentavano, del resto, con gli scarsi budget dell’epoca. Non convincono troppo le interpretazioni di alcuni personaggi, anche se è interessante rilevare la figura del poliziotto che tende a risolvere la faccenda a modo proprio (un vero e proprio archetipo di personaggio, che polizieschi molto popolari riprenderanno di continuo, fino ad oggi). Anche a livello di soggetto, poi, la trama è costruita con una certa destrezza, ma le conclusioni non reggono del tutto: non è troppa chiaro il movente dell’assassino, tantomeno il suo singolare modo di camuffarsi.

    Il film si regge comunque dignitosamente, ed intriga – nonostante alcune sequenze non al top come effettistica, oltre che probabilmente poco realistiche: vedi la donna che rimane appesa al bordo del ponte – per la sua capacità di ribaltare i fronti più volte. Questo avviene anche per via del doppio finale, addirittura triplo se si considera l’ulteriore rivelazione degli scheletri nell’armadio di uno dei principali sospettati. Freda non ha voluto scagionare realmente nessuno: a cominciare dal poliziotto in cui il pubblico dovrebbe identificarsi (che ha un passato torbido e shockante) a finire dalle identità dei vari personaggi, di cui ognuno sembra nascondere segreti inconfessabili, allegorici ed intriganti.

    Visto oggi, rimane un film che ha fatto la storia del genere, e che si rivolge prevaltemente ad un pubblico di appassionati.