BRIVIDI_ (84 articoli)

Recensioni dei migliori thriller usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Il cameraman e l’assassino è il mockumentary anni novanta su un narcisistico serial killer

    Il cameraman e l’assassino è il mockumentary anni novanta su un narcisistico serial killer

    Scritto e diretto dal trittico Rémy Belvaux, André Bonzel e Benoît Poelvoorde (quest’ultimo interpreta il protagonista, per inciso), Il cameraman e l’assassino è un thriller crudo e fuori norma, girato con l’occhio documentaristico e distaccato nel rappresentare routine quotidiana di un serial killer qualunque. Per girare i tre registi si attengono ai dettami del cinema-verità, in cui la telecamera è onnipresente e fornisce un occhio distaccato e gelido su quello che accade. Come se, in sostanza, al posto di mostrare la “vita di ogni giorno” da vituperato “Grande Fratello” in relazione ad un VIP, si immaginasse di fare lo stesso con la quotidianità di un autentico assassino, senza cuore quanto impeccabile nei comportamenti sociali.

    Interrompiamo momentaneamente le riprese perchè il nostro tecnico del suono è rimasto ucciso. Sono i rischi del mestiere, e tutti noi ne siamo coscienti. Credo anche che dovremmo continuare il film, perchè è il tuo film.

    Il film – una produzione belga di inizio anni novanta, passata un po’ in sordina tra il pubblico quanto, per quel che vale, apprezzatissimo dalla critica –  è un mockumentary a tutti gli effetti, un falso documentario shockante e dall’evidente significato metaforico, uscito in un periodo in cui non andava neanche di moda etichettarli come tali.

    Una scia, quella del thriller realistico e vivido, che ha visto una folta partecipazione nel genere, a cui lo stesso afferisce a pien titolo, sia pur presentandosi in una singolare forma d’essai: un bianco e nero spettrale che, se non altro all’inizio, da’ la falsa impressione che assisteremo ad una raffinata opera di concetto. Nulla di più falso: Man bites god segue le discutibili gesta di un omicida narcisista che ha normalizzato da tempo i propri delitti e che, in un delirio di autocompiacimento, ha deciso di farsi filmare da una troupe mentre lavora.

    Vediamo questo elegante uomo di circa 30 anni (Ben) che, neanche a dirlo, ama ed impone di farsi riprendere mentre commette omicidi, rapine ed efferatezze varie, al puro scopo di documentarli con una videocamera e mostrarli, meta-cinematograficamente, al pubblico. Non si risparmiano i dettagli visivi: gli omicidi sono talmente espliciti e vividi da sembrare realmente accaduti, come avverrebbe in uno snuff. Ben, del resto, non è solo il killer egotista e scenografico tipico del genere: è anche uno che puoi ritrovarti sotto casa, dato che fa irruzione in case altrui perpetuando stupri e omicidi, ed è anche in grado di camuffarsi da troupe televisiva per farsi aprire la porta da sconosciute vittime.

    C’è veramente di tutto in questo film: dal thriller cruento modello Henry alla classica home invasion randomica condita di exploitation, ma c’è anche l’idea originale di introdurre una nemesi. Cosa insolita rispetto alla media di questi film che mostrano, da copione, un male che si auto-rigenera all’infinito, che non muore mai perchè connaturato all’essere umano. Non sembrano di questa idea i tre registi, che prima rappresentano tre tipi da exploitation pura, non punibili per definizione, poi spiazzano il pubblico (spoiler alert) rendendo loo pan per focaccia, a causa di un omicidio di troppo che ha scatenato il desiderio di vendetta da parte di una banda rivale (anch’essa, grottescamente, intenta a commettere omicidi e filmarli). La punizione sarà inesorabile e, peraltro, concretizzata in un finale che più scenografico non si potrebbe (la camera che finalmente cade e riprende l’ultima vittima da terra), il che ha probabilmente ispirato il finale un po’ più sconnesso di The Blair witch project (per inciso).

    Va scorporata con urgenza dal film, a questo punto, la banalizzazione indotta dalle considerazioni medie in merito, secondo cui il film sarebbe incentratosui serial killer che uccidono senza una ragione, come Henry – Pioggia di sangue“: questa ottica non è scorretta ma sembra parziale, e sembra dimenticare, nello specifico, l’aspetto legato alla caratterizzazione psicologica del protagonista. Che è ispiratissima a Henry ed è narcisista quanto il protagonista di American Psycho, ma è anche l’insospettabile villain medio da horror socio-psicologico. Ben uccide per capriccio, ma anche perchè nessuno fa nulla per fermarlo (almeno, per gran parte del film). Il cameraman e l’assassino è altresì intriso del comunissimo concetto secondo cui, di fatto, il comportamento impeccabile non è indicativo del vero buon comportamento dell’uomo nella società, per quanto lo renda rispettabile e nonostante si abbia l’impressione che la “professione killer” venga ignorata o, peggio ancora, sia socialmente accettata (alcuni dialoghi sono inequivocabili in tal senso: la professione di Ben viene considerata un mestiere come un altro, neanche fosse un idraulico, carpentiere o un medico).

    Siamo di fronte ad un sostanziale tentativo di exploitation d’essai, per dirla in breve, dove i personaggi esibiscono un cinismo ed un nichilismo che si presta ad un’unica, possibile chiave di lettura: l’umanità si è spenta, non reagisce più. Per le stesse ragioni, peraltro, è altrettant parziale limitarsi a considerare l’aspetto didascalico di Ben, killer inafferrabile quanto impossibile da sospettare, tanto quanto i suoi monologhi ricordano gli “a parte” da brivido, rivolti al pubblico, dei protagonisti di Funny Games. Il cameraman e l’assassino racconta una storia terribile, è vero, ma che si risolve come il più feroce dei rape’n revenge, sottogenere tabù a cui tutto sommato questo film potrebbe in teoria appartenere. L’aspetto orrorifico non è effettivamente quello dei mockumentary sovrannaturali più noti (The Blair Witch Project), ma è più sulla falsariga di thriller realistici come L’ultima casa a sinistra.

    Uccidi spesso bambini? No, no… questo sarà il secondo o terzo.

    Ben non è, in definitiva, soltanto l’ennesimo serial killer che agisce in modo psicotico o imprevedibilmente minaccioso: è un archetipo del genere, un simbolo vivente, che si diverte a disseminare di meta-citazioni le proprie battute, oltre a (s)parlare di cinema (letteralmente) come un qualsiasi, barboso cinefilo (non a caso, forse, è interpretato uno dei registi!), frustrato quanto affetto da egotismo patologico. I suoi pipponi sul cinema, sulle riprese e sul riprendere tutto, “anche mentre sto pisciando“, sono l’espressione di un cinema voyeuristico di cui soprattutto Videodrome aveva discusso a suo tempo.

    La cosa più interessante de Il cameraman e l’assassino, a questo punto, non è tanto l’essere una specie di gonzo movie (un sottogenere del porno che, per estensione, applichiamo in questa sede solo per via della soggettivizzazione estrema del protagonista mediante l’occhio della telecamera), non è solo la camera che segue passivamente l’assassino qualsiasi cosa faccia, qualunque cosa blateri o desideri commettere: è la normalizzazione degli eventi a rendere cult la pellicola, dotata di toni spaventosi quanto grotteschi (la ritualità degli assassini nel gettare cadaveri da uno stesso dirupo, ad esempio, ricorda una ripetitività più tipica del comico che del thrille). La circostanza è altresì evidente nella scena del compleanno di Ben, a cui (dopo gli auguri formali classii) viene regalata per il compleanno una fondina per la pistola e che alla fine, naturalmente, spinge il protagonista a sparare ad uno dei presenti, nell’imbarazzo (e non nell’allarme) dei presenti.

    Il cameraman e l’assassino venne presentato durante la Settimana internazionale della critica del 45º Festival di Cannes. In Italia è uscito in doppio formato VHS per la PolyGram Video e in DVD Tartan.

    Una videocamera che riprende tutto.

    Una videocamera che documenta l’orrore senza pietà, senza empatia, senza anima.

    Una trovata shockante che riprende classici come L’occhio che uccide, ripresa e rielaborata da tantissimi altri film – tra cui citiamo a campione random tra quelli che abbiamo visto e discusso su questo sito: il seminale The war game, gli inquietanti e più recenti Antrum o The Poughkeepsie tapes. Non è difficile immaginare, peraltro, che lavori come The last horror movie si siano molto ispirati a quest’opera, tanto da costituirne quasi un’elaborazione in chiave grottesca.

    Non si lasci intimidire dalla cinepresa! (Ben)

    Il cameraman e l’assassino (traduzione originale del titolo C’est arrivé près de chez vous, ovvero “è successo vicino a te” / “vicino a casa tua” ) è denso di riferimenti alla cronaca nera, mostrando la figura iconizzata di un killer anonimizzato, qualunque, che agisce senza preavviso, sulla falsariga di una frustrazione sessuale e/o relazionale. È un thriller che mette a disagio, che vive sulla verosimiglianza, che racconta con cinismo la disuminizzazione del soggetto e prova, a suo modo, ad analizzarne le possibili motivazioni.

    Non mancano nemmeno i riferimenti a terze parti: su tutte, il cocktail che si scola Ben dal nome Petit Grégory (Piccolo Gregory, nel doppiaggio italiano), che è un riferimento all’omicidio di Grégory Villemin, un caso di cronaca realmente avvenuto in cui il bambino di appena quattro anni venne trovato morto nel 1984, in un fiume, con le mani e le gambe legate. L’oliva nel cocktail legata ad una zolletta di zucchero dovrebbe essere, di fatto, un riferimento alla circostanza.

    Il cameraman e l’assassino viene anche ri-presentato al festival torinese ToHorror 2022.

  • Il sacrificio del cervo sacro: trama, sinossi, cast, finale

    Il sacrificio del cervo sacro: trama, sinossi, cast, finale

    “Il sacrificio del cervo sacro” (titolo originale The Killing of a Sacred Deer) è un film del 2017 diretto da Yorgos Lanthimos. Il film è noto per il suo stile surreale / grottesco e la sua trama dotata di uno spaventoso climax narrativo.

    Di seguito, ti forniremo informazioni sulla trama, la regia, il cast, la produzione, lo stile, una recensione e una possibile spiegazione del finale del film.

    Trama

    Sulle prime il film si muove su un registro standard, apparentemente prevedibile: possiamo vedere un chirurgo di successo all’opera, mentre la prima sequenza si incentra su un’operazione a cuore aperto da cui capiamo che si tratta di un professionista di altissimo livello. Steven Murphy (Colin Farrell) vive in una grande città, ha una moglie (Nicole Kidman) anch’essa medico e due figli a cui sembra non mancare nulla. L’elemento perturbante è  Martin, un ragazzino che si vede periodicamente con il chirurgo, al quale vengono fatti regali costosi mentre la natura della loro relazione non viene esplicitata. La regia non fa capire di che tipo di rapporto si tratti, tanto più che la madre del ragazzo sembra essere attratta dal chirurgo, il ragazzo sembra emotivamente coinvolto dall’uomo e scopriamo che ha perso il padre: solo in un secondo momento sapremo che la responsabilità è stata dal chirurgo, in quanto è morto durante un’operazione.

    Si muove su questa falsariga Il sacrificio del cervo sacro, traendosi spunto dalla tragedia di Ifigenia, uccisa dal padre per soddisfare l’ira implacabile di un dio. Non era semplice inserire questo elemento mitologico in una trama ambientata ai giorni nostri ed è esattamente questo il quid che rende il film unico: anche a costo di non dare troppe spiegazioni e di sbatterlo in faccia allo spettatore senza troppi preamboli, determinando così uno dei più colossali “patti” tra regia e pubblico mai comparsi sullo schermo. Di per sé la storia del film è coinvolgente, e viene resa sostanziale da una regia solida quanto a suo modo distaccata: i vari momenti tragici del film vengono sottolineati da campi lunghi, e si tratta quasi sempre di una violenza che deriva dall’ordinario, dal familiare, come già in Funny games (che viene probabilmente omaggiato dalla sequenza delle federe del cuscino in testa ad alcuni personaggi, come vedremo). L’innesto nella trama dell’elemento mitologico “ifigenico” è accennato esclusivamente dal fatto che uno dei due ragazzi ha studiato questa tragedia a scuola, ma per il resto si tratta di un perturbante puro di cui nel pubblico nei protagonisti sembrano riuscire a capacitarsi. La potenza del film risiede proprio in questo accenno che non viene esplicitato: i personaggi non lottano contro un villain focalizzato, né tantomeno contro un’epidemia o un altro elemento a cui è possibile dare un nome: la tragedia ineluttabile è proprio nel non saper dare un nome ad un male che forse, come viene più volte accennato, è più psicologico che fisico, e che richiama all’eterna, ambigua questione se siano le malattie organiche a provocare problemi mentali o viceversa.

    Recensione

    Di per sé il film evoca diversi diversi temi: c’è il tema del patriarcato, esplicitato dal fatto da un genitore possa voler generare quanto voler distruggere la propria prole, avendo di fatto pieno controllo su entrambi gli aspetti. c’è anche il fatto non indifferente della presa di responsabilità, dell’etica professionale legata alla professione del medico, che viene posta in maniera controversa e raggelante. Queste cose è talmente lampante che viene anche detta, ad un certo punto, dalla figlia del protagonista, quando invita con toni umili e melodrammatici il proprio padre a fare “ciò che deve”. E in ballo c’è pure il topic dell’eugenetica: lo vediamo dalla sequenza di Steven che va a parlare con il preside della scuola, per sapere quale dei due abbia un migliore rendimento (o, per altri versi, quale dei vada sacrificato).

    La regia di Lanthimos è fredda, ispirata quanto spietata, riprende ogni scena con gelida lucidità, spesso e volentieri in campo lungo, e sembra farsi beffe di certo scientismo: il fatto che due medici non riescono a capire perché i figli stanno male rasenta ad un certo punto il grottesco, e appare come messaggio critico all’eccessiva “sicurezza di sè” di certa parte della scienza e della medicina. Il sacrificio del cervo sacro è sicuramente un unico nel suo genere, anche perché è un thriller senza cause esplicite, c’è ovviamente l’espiazione del senso di colpa del medico ma non c’è un villain o una causa identificabile (la stessa attribuzione di ogni male al giovane Martin sembra ad un certo punto coerente, ma non è corretta: il mondo è pervaso da un maligno generalizzato, letteralmente, e il male non è espiabile in altro modo). Quest’ultimo aspetto probabilmente può cozzare con i gusti di parte del pubblico e disorientarlo, specie quello meno abituato agli orrori irrazionali in cui l’elemento narrativo tende a disperdersi nella trama, nei quali non è agevole attribuire un effetto ad ogni causa.

    In questo senso l’operazione di Lanthimos è azzardata, anche se il successo del film e i premi vinti sembrano avergli dato ragione.

    Il sesso nel film (ispirato alle teorie di Michael Bader)

    Il soddisfacimento degli istinti sessuali ne Il sacrificio del cervo sacro è quasi sempre represso, rinviato, male articolato e solo in alcuni casi soddisfatto. Questo serve alla regia per mostrare il lato oscuro di ogni personaggio, e farci comprendere meglio il rispettivo vissuto. Come evidenziato dal saggio Eccitazione dello psicologo Michael Bader, del resto, ogni persona ricerca nelle fantasie sessuali un ambiente safe, libero da sensi di colpa, in cui potersi eccitare liberamente. Anche a costo di ricorrere a scenari bizzarri o spaventosi, sulla base delle proprie esperienze e del proprio vissuto.

    Kim è un’adolescente che ha appena avuto le mestruazioni, ad esempio: la sua relazione con Martin dovrebbe essere una sorta di “prima iniziazione” al sesso, ma vediamo che il suo offrirsi al partner non ottiene l’effetto desiderato, probabilmente perchè il ragazzo è rapito dal proprio mood di vendetta e, in qualche modo, non dispone di condizioni sicure in cui potersi eccitare. È altresì significativo che le modalità di dimostrarsi disponibili della ragazza siano analoghe a quelle della madre del personaggio, Anna, che presenta una singolare modalità di relazionarsi in camera da letto col marito: si spoglia, si stende sul letto e finge di essere una paziente totalmente anestetizzata, fantasia che si ricollega al lavoro dei due personaggi e che evoca indirettamente, anche qui, una sorta di sacrificio rituale. Questo roleplay sembra verosimile nel contesto in cui si muovono i due coniugi, e ancora una volta vediamo la teoria di Bader all’opera: la fantasia può funzionare solo se se – nel mentre – non emergono sensi di colpa. Non appena il chirurgo viene “smascherato” dai fatti (ha mentito sull’incidente al padre di Martin, perchè la morte l’ha causata lui e vorrebbe subdolamente addossarla all’anestesista) la fantasia si spegne, e il rapporto non può più avere luogo. Per ottenere la verità su quanto accaduto nell’operazione al padre di Martin, poi, Anna richiede l’informazione all’anestesista che ha lavorato con lui, Matthew, che racconta pero’ una versione invertita della storia rispetto a quella di Steven. L’informazione ha un costo, in questo caso, che è quello di soddisfare sessualmente Matthew (scena della masturbazione in macchina), sulla base di un desiderio represso che l’uomo, secondo Anna, avrebbe espresso durante una cena tra colleghi. In tutti questi episodi sembra piuttosto chiaro che la sessualità sia più un mezzo che un fine, in quanto viene utilizzato per definire l’essenza del rapporto tra i personaggi e per finalizzare i loro scopi (al limite provare a finalizzarli).

    Regia

    Il regista Yorgos Lanthimos è noto per il suo stile cinematografico unico e spaventoso, caratterizzato da dialoghi monocordi, situazioni surreali e freddezza emotiva ostentata da vari personaggi. “Il sacrificio del cervo sacro” non fa eccezione: il regista crea un’atmosfera di tensione e inquietudine in tutto il film, sulla base di un non meglio specifico senso di colpa. Questa inquietudine è frutto di un qualcosa di astratto, di una non meglio specificata maledizione, di un Dio malvagio che pervade l’esistenza degli esseri umani pur senza mostrarsi, senza avere un nome, quasi un ente innominabile lovecraftiano. Il finale evoca più una tragedia surreale o una piece di teatro sperimentale, la resa dei conti con cui i protagonisti vanno incontro al loro destino senza poter fare nulla per opporsi. Il finale dell’opera evoca l’esorcismo del senso di colpa, il senso di impotenza assoluto da parte dell’uomo di fronte a determinati orrori.

    Il film è stato prodotto da Element Pictures e A24, ed è stato presentato in concorso al Festival di Cannes del 2017.

    Cast

    Il cast principale include Colin Farrell, Nicole Kidman, Barry Keoghan, Alicia Silverstone, e Raffey Cassidy. La scelta non poteva essere più felice, e in molti casi sembra di assistere a un film tipo Eyes Wide Shut, per altri a uno come Saltburn, visto che curiosamente il giovane personaggio si trova ad assolvere un ruolo molto simile di potenziale destabilizzatore della famiglia, per quanto in modo indiretto.

    Sinossi

    Il film segue la storia di Steven Murphy (interpretato da Colin Farrell), un cardiochirurgo di successo che ha una vita apparentemente perfetta con la moglie Anna (interpretata da Nicole Kidman) e i loro due figli. La vita di Steven prende una svolta inquietante quando Martin (interpretato da Barry Keoghan), un ragazzo giovane e problematico, inizia a inserirsi nella sua vita. Si scopre che il padre di Martin è morto durante un’operazione chirurgica effettuata da Steven e Martin crede che la morte di suo padre sia stata causata da un errore medico. Martin inizia a esercitare un’influenza oscura sulla vita di Steven e della sua famiglia, minacciando di infliggere loro una serie di maledizioni, inclusa la paralisi e la morte, a meno che Steven non prenda una decisione terribile riguardo a uno dei suoi familiari.

    La situazione si sviluppa in modo surreale, e Steven si trova costretto a prendere una tragica, ineluttabile decisione.

    Spiegazione del finale

    Il finale del film può essere visto come una rappresentazione allegorica del conflitto morale e delle conseguenze delle azioni dei personaggi. Non si tratta ovviamente di un finale aperto, perchè la scelta della vittima è stata brutalmente effettuata (nell’unico modo possibile per il protagonista: scegliendola a caso). Nel momento culminante Steven prende una decisione randomica per porre fine alla maledizione di Martin: mette a sedere i tre familiari i salotto, e – dopo averli legati – estrae a sorte chi dovrà morire, bendandosi e girando su sè stesso un paio di volte prima di sparare. Lo fa perché non può scegliere diversamente, e perchè è l’unico modo per espiare la propria colpa (molto probabilmente ha operato il paziente da ubriaco).

    Quando i superstiti si ritroveranno all’interno del locale dove è iniziato il film fanno finta di non vedere Steven, che chiaramente fa lo stesso nei loro confronti. il cerchio si è chiuso, e la storia può dirsi conclusa.

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  • Il talento di Mr. Ripley: cast, trama, significato, produzione

    Il talento di Mr. Ripley: cast, trama, significato, produzione

    “Il talento di Mr. Ripley” è un film del 1999 diretto da Anthony Minghella, basato sul romanzo omonimo di Patricia Highsmith.

    Sinossi e genere

    Si tratta di un thriller psicologico che segue le vicende di Tom Ripley, interpretato da Matt Damon, un giovane ambizioso e affascinante che viene incaricato di convincere un ricco playboy, interpretato da Jude Law, a tornare negli Stati Uniti dalla sua vita spensierata in Italia.

    Trama

    Tom Ripley viene inviato in Italia per convincere Dickie Greenleaf a tornare negli Stati Uniti. Dickie è un ragazzo ricco e disinvolto, e Tom inizia ad ammirarlo. Si stabilisce un legame tra loro, ma quando Dickie inizia a stancarsi della compagnia di Tom, questo sviluppa un’ossessione crescente per lui. L’amicizia si trasforma in qualcosa di oscuro e pericoloso quando Tom inizia ad adottare l’identità e lo stile di vita di Dickie.

    Cast:

    • Matt Damon – Tom Ripley
    • Jude Law – Dickie Greenleaf
    • Gwyneth Paltrow – Marge Sherwood
    • Cate Blanchett – Meredith Logue
    • Philip Seymour Hoffman – Freddie Miles

    Produzione e Regia: Il film è stato prodotto da Miramax Films e diretto da Anthony Minghella, che ha ricevuto anche crediti per la sceneggiatura. La pellicola ha ottenuto diverse nomination e riconoscimenti per le performance degli attori e la regia di Minghella.

    Storia e Significato

    La storia si concentra sulla complessa psicologia di Tom Ripley, un giovane ambizioso e problematico che cerca di sfondare nel mondo della ricchezza e del lusso adottando identità e comportamenti non suoi. Il film esplora temi come l’identità, la manipolazione, l’invidia e la ricerca ossessiva del successo, mettendo in luce il lato oscuro e torbido della natura umana. È una storia che analizza la dualità dell’essere umano e le sfumature morali che emergono quando si è disposti a tutto pur di raggiungere il proprio scopo.

    Sinossi

    In breve, il film segue il percorso di Tom Ripley mentre si insinua sempre più nella vita di Dickie Greenleaf, finendo per adottarne l’identità in un gioco pericoloso di bugie, manipolazioni e oscuri segreti.

    Significato

    Il film esplora le sfumature della personalità umana, la ricerca dell’identità e l’ossessione per la vita altrui. Rappresenta anche una critica nei confronti di una società ossessionata dalla ricchezza e dalle apparenze, mettendo in luce le conseguenze psicologiche della ricerca disperata del successo e della felicità a qualsiasi costo.

  • Repulsion: Polanski racconta le ansie della sessuofobia

    Repulsion: Polanski racconta le ansie della sessuofobia

    Carol è una donna introversa che non sopporta il fidanzato della sorella: il film è un viaggio da incubo nella sua personalità.

    In breve. Il film che ha consacrato Polanski come regista di culto, incentrato su una delle protagoniste thriller forse più formidabili del genere. Da non perdere, nonostante l’età.

    Il secondo film di Polanski dopo Il coltello dell’acqua, girato interamente a Londra e primo film in assoluto prodotto in inglese dal regista (siamo nel 1965). Repulsione si basa su una trovata che oggi troveremmo quasi prevedibile, tanto che è diventata la regola in un certo giallo o thriller, soprattutti quelli devoti al doppio o triplo finale con avvitamento carpiato. All’epoca venne tanto apprezzato da far conoscere Polanski il tutto il mondo, ancor più per la sua successiva capacità di trattare elegantemente qualsiasi tema.

    Le paure di Carol

    Carol (Catherine Deneuve) è un personaggio complesso: in prima istanza è solo una donna introversa, ma scopriremo nello scorrere degli eventi aspetti nascosti legati alla sua personalità. Anche la sua profonda sessuofobia (o androginia) è tutt’altro che incidentale:  sembra dovuta ad un vissuto che la condiziona profondamente, che tutti gli altri personaggi sottovaluteranno o prenderanno sottogamba. Di fatto, Polanski svela gli aspetti della personalità di Carol un pezzo alla volta: la frattura che avverte dentro di sè, nel frattempo, viene letteralmente rappresentata da crepe nei muri e nei pavimenti (che forse, in alcune fasi del film, la donna sta solo immaginando).

    Un film che è diventato emblema

    Se è vero che il linguaggio di Polanski sguazza nella critica – e nelle sue fantasiose o pindariche dissertazioni, è altrettanto vero che la struttura puramente da giallo è un modo per mantere la narrazione ben salda ed ancorata, con vari punti di contatto ad un altro film incentrato su una donna (depressa e traumatizzata anche in quel caso) come la protagonista di Io la conoscevo bene. Le conseguenze saranno diverse, sicuramente, ma la sostanza ed il feeling sembrano molto simili. Se questo film ha fornito un modello di riferimento per molteplici figure e lavori successivi, è impossibile non pensare anche a Madeleine / Frigga, l’anti-eroina muta e bendata raccontata da Bo Arne Vibenius, che è un po’ la figura mitologica, esacerbata tratta dal suo personaggio – tanto che potrebbe considerarsi un archetipo.

    Carol: perchè agisce in quel modo?

    Il personaggio di Carol sembra innocente, timida, insicura o introversa: di fatto, non diversa da una donna comune con cui lo spettatore è portato ad empatizzare. La seconda cosa che rileva, di fatto, è legata al suo profondo rapporto con la sorella, a cui sembra appoggiarsi con abbandono in caso di necessità. Sorella che, a partire dai capelli scuri, è molto diversa da lei: tant’è che frequenta un uomo sposato, esasperando una sorta di insano paragone con lei e, di conseguenza, esasperando il suo conflitto interiore. I dialoghi con la stessa sono sempre significativi: il tono monocorde, assente, evitante e sempre più inquietante di Carol suggeriscono ulteriori indizi per la ricostruzione della sua personalità. Il senso del paradosso indotto dalla sceneggiatura è molteplice, e si esplica soprattutto nel fatto che, nonostante tutto, lo spettatore simpatizza comunque con la protagonista, nonostante l’efferatezza del suo comportamento e la sua chiusura aprioristica al mondo maschile.

    È anche significativo che il personaggio forse più irritante del film (Michael), con i suoi modi burberi e sgradevoli nei confronti delle donne, sia anche l’unico a dire una cosa involontariamente saggia (cioè che Carol dovrebbe vedere un dottore). Che cosa renda pensierosa e incomprensibile Carol, del resto, non è chiaro: sembra vivere nel passato, come visibile dal fatto che guarda in modo interrogativo varie foto di famiglia. Il suo evidente fastidio nel sentire i rumori di più amplessi, nella stanza a fianco, tende ad amplificare il conflitto con la sorella maggiore. Ad un certo punto, Carol fa anche sparire alcuni oggetti personali di Michael, quasi a volersi disfare simbolicamente di lui. Il suo primo appuntamento con Colin, accettato tra mille indecisioni, finisce con un disastro: dopo il primo bacio non può fare altro se non correre via a lavarsi i denti.

    Diventa sempre più evidente la presenza di un uomo (o più di uno, forse) che l’abbiano traumatizzata in passato, e Polaski continua inesorabile il suo racconto con una camera gelida, spesso grandangolare o distorta, quasi fosse il racconto distaccato di uno psichiatra. Sullo sfondo, vediamo un coniglio in putrefazione che svolge il medesimo ruolo del cadavere in Der Todesking: è la personalità di Carol che marcisce, giorno dopo giorno, in un oceano di incomprensione da e verso il mondo esterno.  A completare il dramma, Helen parte per un viaggio a Pisa con il suo uomo, lasciandola sola coi suoi tormenti e, poco dopo, con delle orribili allucinazioni. A questo punto, Polanski vira sul linguaggio del thriller per rappresentare meglio lo stato d’animo della protagonista. E mai scelta avrebbe potuto essere più adeguata: Carol, da donna avvenente quanto riservata, inizia ad essere convinta di aver visto un uomo minaccioso in casa sua, il villain dei suoi incubi sessuofobici. I tormenti interiori della protagonista diventano sempre più allucinati e spaventosi, fino a farle perdere il posto di lavoro.

    L’incubo ripetuto dello stupro – con una figura oscura al suo cardine, a cui sembrano mancare solo occhiali scuri, guanti, impermeabile e cappello nero – è accompagnato dal macabro ticchettìo di un orologio, ed è intensa e rapidissima, interrotta regolarmente dal suono di un telefono. Sembra di trovarsi in una sequenza alla Dario Argento: sempre più cupa e assente, Carol è destinata a trasformarsi in un killer, primariamente contro chi ama o vorrebbe possederla. Il primo omicidio, ad esempio, è strutturato in maniera magistrale: il suo innamorato si è introdotto sfondando la porta di casa, visto che non riusciva più sentirla. La porta rimane aperta, ed il vicino di casa (uscito in quel preciso istante) osserva la scena, in secondo piano. Non appena Colin la richiude per una maggiore privacy, Carol (con un candelabro in mano, già dall’inizio) lo colpisce ripetutamente: un omicidio calcolato quanto hitchcockiano, oserei scrivere, che delinea la follia androgina in cui è precipitata. C’è anche spazio per una rapida componente horror, che vediamo nella sequenza (anch’essa magistrale) in cui Carol si aggira nel corridoio, fuori di sè, con le mani di vari uomini che fuoriescono dal muro.

    Spiegazione del finale

    Diversamente dalla tradizione di Hitchcock e di altri registi che, classicamente, alla fine fornivano una spiegazione razionale agli eventi, Polanski si limita ad inquadrare una vecchia fotografia di Carol da ragazzina, algida come sempre e altrettanto spaventata, assieme ad un anziano familiare (che potrebbe essere il padre, lo zio o il nonno). È chiaro che, neanche troppo velatamente, il regista voglia alludere ad un caso di molestie da parte dell’uomo, probabilmente mai venute a galla, che hanno sedimentato per anni dentro di lei. Questa è l’interpretazione che sembra più plausibile, e che certa critica ha rilevato come sostanziale difetto (ma una spiegazione esplicita avrebbe anche rischiato di risultare inutilmente didascalica).

    La suggestione è ciò che conta, il dubbio rimane ed il finale, in cui si chiude il cerchio, molte domande restano senza risposta.

  • La moglie dell’astronauta: la fantascienza che riuscì solo in parte

    La moglie dell’astronauta: la fantascienza che riuscì solo in parte

    Una coppia di astronauti esperti subisce, durante una missione in orbita, quella che sembrerebbe una tempesta magnetica, attraversando due minuti in cui perde i contatti con la Terra: rientrano a casa, e nessuno dei due sembra aver voglia di raccontare cosa sia accaduto. Quale mistero si nasconde in quei due, interminabili minuti di oscurità?

    In breve. Modesto b-movie che riesce solo a metà: presupposti inquietanti, buon ritmo dall’inizio ma il film si perde, passo dopo passo, nel “già visto”, dissolvendosi come un biscotto economico nel latte bollente – e rivelandosi, purtroppo, poca cosa.

    La moglie dell’astronauta” fa parte di quella fantascienza di “basso livello”, dai tratti dichiaratamente b-movie – e con impianti/effetti visuali decisamente modesti, che cerca di fare leva sulle interpretazioni degli attori (l’impianto ricorda vagamente L’arrivo di Wang), genere da sempre contrapposto alla sci-fi più pretenziosa (il recente Interstellar). Da un film del genere ti aspetti un livello di cultismo che deriva da più fattori: la coppia di protagonisti (di solito Deep è una garanzia), il regista poco conosciuto, l’ambientazione nello spazio (almeno in parte), lo sviluppo imprevedibile della storia. Invece lo spettatore che riprenda questo film oggi, all’epoca strombazzatissimo, non potrà che restarne deluso: in effetti al botteghino fu un flop, e questo nonostante la presenza della Theron e di Deep, che ne escono pressappoco a testa alta, ma senza riuscire a convincere quasi nessuno.

    Se è vero che i presupposti del film non sono da poco, e che i primi 20 minuti serrati, brutali ed imprevedibili illudono lo spettatore di stare per assistere ad un masterpiece, il resto del film si dilegua in poco o nulla: e a niente serve la figura ambigua, e progressivamente tenebrosa, di Deep, da marito amorevole ad inquietante individuo capace di perseguitare la moglie-vittima, e minacciarla (senza un motivo troppo chiaro, peraltro). Motivo che poi, a metà film, inizia a diventare più nitido fino a svelarsi nella sua interezza: ma anche qui, la rivelazione è fiacca, e la sostanza della stessa rischia di fare quasi più sorridere che altro. Questo genere di difetti mette in secondo piano anche la mancanza di continuity di alcune sequenze, difetto trascurabile in un film del genere e che qui, invece, diventa determinante in negativo. Non è un caso, del resto, che buona parte di quanto mostrato – inclusa i suoi semplicistici concetti di “umanità allo sbando”, e di “altri mondi” ostili ed infidi – si possa prestare più ad una parodia modello South Park che altro.

    La Theron, di suo, emerge come figura iconica, donna-simbolo anche piuttosto credibile e ben interpretata, e questo per ciò che viene tirato in ballo nella storia (su tutto, la tematica dell’aborto ed il disprezzo della società “per bene” contro chi compie tale tragica, quanto spesso inevitabile, scelta): serve a lasciare un che di dignitoso al tutto, in un certo senso, ma non basta a salvare “The Astronaut’s Wife“, lavoro che zoppica lo stesso, passo dopo passo. Quello che non funziona in soldoni è proprio l’impianto generale della storia, troppo poveristica nel suo allestimento, troppo semplificata e scontata in certi passaggi e forse, credo, troppo poco legata al cinema di genere “che conta”, affidato ad un regista con troppa poca esperienza (nelle mani di John Carpenter, tanto per dire, lo stesso soggetto sarebbe forse diventato ben altro).

    Se non parlassimo di un film a mio avviso fiacco ( di un’occasione persa, in un certo senso), bisognerebbe spendere qualche parole sul finale della pellicola: un finale a sorpresa, se vogliamo, in cui il tema è quello dello sconosciuto che assume le sembianze di una persona amata, e diventa in grado di impadronirsi della sua vita, senza che la vittima possa accorgersene in alcun modo. Neanche malissimo come conclusione da fanta-horror, ma in giro c’è molto di meglio e, soprattutto, non ce n’è abbastanza per ridimensionare la fama non esaltante che La moglie dell’astronauta possiede. Esiste anche un finale alternativo, sul quale sorvolo perchè comunque non sembra cambiare troppo la sostanza.

    Rand Ravich, dal canto suo, dopo questo film ed un precedente corto non ha fatto più nulla in veste di regista (non a caso, verrebbe da pensare), dedicandosi invece a sceneggiatura e produzione. Se resta vero che molte critiche rivolte a “The Astronaut’s Wife” sono piuttosto gratuite, resta la considerazione realistica su un film che poteva dare molto di più, e che si appiattisce fotogramma dopo fotogramma fornendo solo tensione a sprazzi.