CULT_ (114 articoli)

Gli imperdibili: una selezione di pellicole da non perdere per qualsiasi appassionato del genere horror, commedia, thriller, trash.

  • Il mostro della strada di campagna: vi spaventerà senza mostrare una sola goccia di sangue

    Il mostro della strada di campagna: vi spaventerà senza mostrare una sola goccia di sangue

    Due ragazze inglesi, Jane e Cathy, si trovano in vacanza in Francia a bordo delle proprie bici, fin quando non succede un imprevisto…

    In due parole. Se esistesse un genere “pre-slasher” non ci sono dubbi che “And soon the darkness” potrebbe essere uno dei suoi migliori rappresentanti: nonostante il sottotesto subdolamente violento, nel film non viene sparsa una sola goccia di sangue, e si delinea abilmente, in un gioco di sospettati accennato con cura, un modello di assassino scoperto solo nel finale. Delinea lo scenario di apparente normalità/terrificante realtà a cui Wes Craven, Dario Argento, Aldo Lado, Mario Bava e molti altri finiranno per rifarsi. Di culto.

    Partendo da presupposti apparentemente banali (due giovani ragazze ed un “orco” che sembra perseguitarle) Robert Fuest – che l’anno successivò dirigerà L’abominevole dottor Phibes – sviluppa un intreccio diretto, semplice e coinvolgente, avendo cura di inserire pochi personaggi e focalizzando l’ambientazione, in gran parte, all’interno di un scenario archetipico (un bosco). Appare da subito piuttosto chiaro che si tratti di un film con un orrore di fondo nascosto, subdolo e sempre accennato, che inizia a decollare sul serio solo dopo la prima mezz’ora, inchiodando inesorabilmente, a quel punto, lo spettatore alla poltrona.

    I presupposti sono i soliti, quelli tipici del cinema di genere dell’epoca, e sembrano dipingere lo scenario in cui saranno ambientati almeno altre due celebri (e controverse) pellicole: L’ultima casa a sinistra di Wes Craven (1972) e I spit on your grave di Zarchi (1978). Pellicole in cui l’orrore esce fuori dall’isolamento di individui giovani di sesso femminile, e che deriva in buona parte dalla loro innata ingenuità – oltre che, naturalmente, dalla violenza subdola e repressa di un mondo ipocrita o perbenista. Nonostante in questa sede – è bene specificare – non siano presenti le note estremizzazioni ultra-violente dei due citati, si nota da subito come iniziasse a “bollire in pentola” un certo spirito, un’attitudine – che di lì a poco sarebbe diventata in parte slasher, in parte revenge movie.

    Nonostante “Il mostro della strada di campagna” non possieda questo tipo di caratteristiche, ma sia soltanto una sorta di compendio essenziale del genere – per questa regione accessibile anche dal pubblico più impressionabile – risulta essenziale dal punto di vista storico, perchè delinea lo scenario classico (e non è poco), ma fa anche di più: suggerisce stilemi, drammatizzazioni e caratteri dei personaggi a cui fin troppi registi faranno riferimento nel seguito. Il gioco del “tutti-sospettati”, del resto, è realizzato con enorme cura: tanta da evocare i clamorosi “giochi di prestigio visuali” a cui Dario argento, tanto per citare uno dei più famosi, ha sempre cosparso le proprie pellicole. Chi sarà l’assassino? Forse il marito della barista? L’uomo con la vespa? Che non sia l’insegnante di inglese dall’aspetto pacato?

    Il tutto senza alcun eccesso visivo o concettuale, ma narrando la storia con una sorta di “pacatezza” che la rende, in fin dei conti, ancora più spaventosa. “Il mostro della strada di campagna“, orrendo titolo italiano corrispondente ad un più suggestivo “And soon the darkeness“, definisce un intreccio che, visto oggi, appare di natura quasi ordinaria, neanche troppo esaltante. Uno svolgimento obiettivamente accattivante, minato da qualche banalità di troppo nella fase inizale che poi si delinea come un crescendo di tensione, fino ad un clamoroso finale a sorpresa: una sorpresa che non appare troppo inattesa, che forse molti potranno indovinare prima del tempo ma che è di natura archetipica, e ce ne accorgiamo contestualizzando al periodo di uscita (1970).

    Ancora di più in ragione di questo anticipo clamoroso rispetto a molti altri epigoni usciti fuori nel seguito: le tante “variazioni sul tema” che i cinefili più appassionati amano ancora oggi. I volti candidi di Michele Dotrice e Pamela Franklin, di fatto, finiscono per rappresentare l’innocenza di una generazione allergica agli stereotipi, ed alla riscoperta di una libertà perduta sulla strada (Easy rider, uscito un anno prima), valori sviliti da un mondo incomprensibile, indifferente, retrogrado e per certi versi a loro avverso.

    In questo il film getta le basi per pellicole come il claustrofobico L’ultimo treno della notte (che uscì cinque anni dopo): in definitiva ciò finisce per rendere And soon the darkness” una vera pietra miliare del genere. Un genere che si trova ancora in uno stato embrionalmente slasher (Reazione a catena di Mario Bava uscì solo l’anno successivo), e che quindi è prematuro definire tale per quanto esso, nel lungo periodo, seguirà molte di queste direttive cinematografiche.

  • La lunga notte dell’orrore: voodoo e morti viventi pre-Romero

    La lunga notte dell’orrore: voodoo e morti viventi pre-Romero

    Un medico londinese si reca assieme alla figlia presso un suo brillante ex-studente: arrivati nel suggestivo paesino, strani morti sembrano verificarsi in modo del tutto inspiegabile…

    In breve. Due anni prima di Romero John Gilling mette in scena una buona storia di morti viventi, legata strettamente alla tradizione voodoo. Elegante nella forma e piuttosto fluido nella trama – per quanto non proprio strabiliante visivamente – si tratta di uno dei film più inquietanti e meglio realizzati del periodo.

    Ho sognato morti che resuscitavano… e tutte le tombe erano vuote

    La lunga notte dell’orrore” è una produzione diretta da John Gilling per la Hammer, anno di grazia 1966: essa si sviluppa come un tipico horror gotico “all’inglese” riportando alcuni punti di contatto con l’omologo – di 22 anni prima – Ho camminato con uno zombie, per quanto in questa nuova circostanza si leghi la dimensione “morti viventi” non alla residenza su un’isola esotica bensì all’importazione da parte di un ambiguo nobile locale. Lo zombie assume quindi, in questo film, la valenza di una sorta di instancabile “manovale” che il villain, come vedremo, sfrutta ferocemente all’interno della propria miniera. Per farlo egli ha imparato il voodoo presso qualche oscura località esotica, ed il suo essere infido ma apparentemente ineccepibile lo rende senza dubbio un personaggio molto affascinante (raffinatezza ed efferatezza estrema, del resto, sono tratti caratteristici a cui si richiamerà il moderno Ubaldo Terzani).

    Il medico Sir James Forbes, dal canto proprio, nell’eleganza classica da un lord inglese lucido e razionalista, verrà progressivamente travolto dalla dimensione ed inquietante mistica del voodoo, per quanto all’inizio la relegasse a banali superstizioni del posto; di fatto, è un trionfo della dimensione orrorifica in una pellicola di culto, gradevole da riscoprire ancora oggi, semplicemente irrinunciabile per gli appassionati del genere e che non risente troppo dell’età che ha. Ovviamente non c’è da aspettarsi un delirio di splatter e gore, per quanto i morti viventi siano piuttosto ben realizzati ed assumano, forse per una delle prima volte nella storia, il colorito violaceo, l’andamento barcollante e gli occhi bianchi che impareremo a conoscere negli anni successivi. Gli effetti speciali di questo film non sono certamente eccezionali, anzi vivono di quell’orgogliosa artigianalità di cui non tutti vanno fieri; nonostante questo la storia si regge in piedi molto dignitosamente, e conferma uno dei maggiori picchi di idee e buoni script di quel periodo. Questo è riscontrabile anche nei dialoghi molto curati che, come sappiamo, non sono tipicamente un punto di forza di questo tipo di film.

    Per quanto privo della carica rivoluzionaria ed ultra-gore delle opere di Romero, in definitiva, The plague of the zombies è senza dubbio uno dei migliori horror sui morti viventi mai realizzati.

  • Shutter Island distrugge ogni certezza dello spettatore

    Shutter Island distrugge ogni certezza dello spettatore

    In breve. Thriller psicologico in pompa magna, molto ben realizzato ed interpretato (ed è anche uno dei film di Scorsese più oscuri di sempre). Alla prova dei fatti vagamente ermetico, e non sempre capito dal pubblico. Twist finale magistrale: unico nel suo genere.

    1954: Edward “Teddy” Daniels, un agente federale dal passato tormentato, indaga sulla scomparsa di una paziente da un manicomio criminale. Girato in quattro mesi nel 2008, Shutter Island è uscito due anni dopo; si tratta indubbiamente uno dei film più noti e cupi di Martin Scorsese, oltre ad essere l’ultimo ad essere stato girato dal regista su pellicola.

    Il film è basato su una storia vera?

    No, “Shutter Island” non è basato su una storia vera.  Se la storia è avvincente e ricca di suspense, sia il romanzo che il film sono completamente di finzione e non sono basati su eventi o persone reali. La trama e i personaggi sono il frutto dell’immaginazione dell’autore e del regista. Il tutto è basato sul libro L’isola della paura di Dennis Lehane (uscito del 2003, ed. Piemme), come abbiamo scritto non si basa su una storia vera (anche se tutto, in effetti, lo farebbe pensare), per quanto la suggestione dell’isola sia tratta da un ricordo dell’autore, Lehane: la visita, da ragazzino, ad un carcere di Boston Harbor.

    Trama del film Shutter Island: ecco il riassunto in breve

    1954: Edward “Teddy” Daniels e il suo collega Chuck Aule salgono su un traghetto diretto a Shutter Island, la sezione dell’Ashecliffe Hospital riservata ai criminali psichiatrici. Sono lì per avviare l’indagine sulla scomparsa di una paziente, Rachel Solando, che è stata incarcerata per aver ucciso per annegamento i suoi tre figli. Nonostante sia tenuta in una cella chiusa a chiave sotto costante supervisione, è riuscita misteriosamente a scappare dall’ospedale e forse addirittura dall’isola.

    Il film si svolge sull’ambivalenza della figura di Teddy, che si ridefinirà più volte nel corso della trama fino ad un imprevedibile finale.

    Lo spiegone del film

    La scelta precisa di un “genere” per Shutter Island è difficoltosa: c’è il noir, c’è il thriller, ci sono in parte anche l’horror e le atmosfere claustrofobiche tipo, ad esempio, The Experiment. Fino alla fine lo spettatore è assalito dai dubbi: chi è davvero Teddy Daniels? Anche lo spettatore più razionale tenderà a “dare ragione” ed empatizzare con il suo personaggio fino alla fine, sostenendo la sua (tutto sommato credibile) teoria del complotto: l’uomo infatti sospetta che gli infermieri ed il personale del manicomio abbiano favorito l’evasione di Rachel Solando, una paziente evasa in circostanze misteriose e, da allora, svanita nel nulla. Eppure l’isola è un ambiente ristretto, in cui è difficile muoversi, e da cui non sembra esserci modo di fuggire: come stanno davvero le cose? La risposta è contenuta (pre-avviso: adesso c’è uno spoiler) in quel finale sorprendente, quel twist che spezza ogni speranza e riporta il pubblico alla cruda realtà: Teddy in realtà ha problemi psichiatrici di sdoppiamento della personalità e dissociazione, e gran parte di ciò che ha vissuto è avvenuto soltanto nella sua mente. (fine spoiler)

    Shutter Island, visto oggi, appare quasi rarefatto nella sua atmosfera, anche se le continue allucinazioni del protagonista (ad un occhio allenato, per la verità) faranno più volte sospettare quella che è, alla fine, quell’unica inesorabile verità. Probabilmente, visto oggi, è anche vagamente scontato da smantellare nella sua costruzione da giallo puro, ma questo non cambia la sua valutazione complessiva che rimane, senza dubbio, positiva.

    Edward, il poliziotto tutto d’un pezzo

    Del resto la figura di Edward oscura qualsiasi dubbio o domanda, tanto è compatta, coinvolgente e nitida: un poliziotto tutto d’un pezzo, in cui è scontato immedesimarsi, apparentemente irreprensibile e stereotipico del federale cinematografico USA – con tanto di vizio dell’alcol.

    Blooper o errori nel film? Non proprio

    Questo film, del resto, è anche un raro caso in cui non solo il twist finale stravolge l’intero senso della storia, ma anche gli errori di continuità (che in realtà sembrano essere tratti dai sogni allucinati di Edward) sono voluti, funzionali e frequenti, oltre ad essere prettamente legati alla spiegazione finale. Non ha senso, pertanto, sindacare sugli stessi e “scandalizzarsi” che Scorsese abbia potuto girarli, dato che sono funzionali ad una narrazione tra realtà e fantasia – che non tutti, evidentemente, hanno inquadrato nel modo corretto.

    Sempre in bilico tra follia e realtà

    Nello scorrere di Shutter Island, del resto, si gioca spesso sul filo dell’inintellegibile, del non percepito a prima vista. Vedi ad esempio la questione degli anagrammi dei nomi (e dello stesso titolo: l’anagramma di Shutter Island potrebbe essere “verità e bugie” -“truths and lies” – così come verità-negazioni – “truths/denials“). Più in generale le apparenze non sono quello che sembrano, ed il limite tra follia e realtà è sempre sottile, sfumato, sulla falsariga di thriller ambigui come Seven o Identità. Nella narrazione sono comunque presenti riferimenti a casi storici realmente accaduti (i fatti di sangue nel campo di concentramento di Dachau nel 1945, liberato dall’esercito americano), ed il feeling generale è tanto realistico da lasciare spiazzati, alla fine della visione, e quasi malinconicamente delusi dalla stessa.

    La citazione cult del film: vivere da mostro o morire da uomo per bene?

    La frase più significativa del film, del resto, nella sua lucida follia (“Cosa sarebbe peggio: vivere da mostro o morire da uomo per bene?”) è legata ad un doppio significato: vivere da mostro, infatti, significherebbe accettare il proprio senso di colpa. Morire da uomo buono, al contrario, comporterebbe l’asportazione di parte del cervello mediante lobotomia, proprio perchè la cura non ha mai funzionato.

    Il paradosso di Shutter Island

    Due scelte soffocanti dai tratti esistenzialisti, che evidenziano certi limiti della mente umana e definiscono il paradosso definitivo della pellicola, oltre a sancirne ufficialmente la bellezza. Non esiste un vero e proprio legame esplicito e voluto tra quella frase e un famoso brano dei Metallica, ma è comunque evocativo e significativo ricordarne il testo:

    When a man lies he murders
    some part of the world
    These are the pale deaths
    which men miscall their lives
    All this I cannot bear to witness any longer
    cannot the Kingdom of Salvation
    take me home (Metallica)
    tradotto:
    Quando un uomo mente, uccide
    qualche parte del mondo
    Tali sono le pallide morti
    che gli uomini chiamano “vita” per sbaglio
    Tutto questo non posso più sopportarlo
    possa il Regno della Salvezza
    non portarmi più a casa

    Il dilemma del protagonista, del resto, potrebbe essere riassunto da quell’ultima criptica frase, la quale – a parte evocare il testo di To live is to die dei Metallica – definisce il senso di quanto abbiamo visto, in definitiva: un film nel film, un roleplay ultra-realistico – difficile da vedere con scetticismo, sia per il protagonista che per buona parte degli spettatori. A livello di spiegazione del finale, inoltre, non abbiamo risposte nette, ma il modo in cui l’uomo si consegna agli infermieri farebbe pensare che abbia scelto di farsi lobotomizzare come unico possibile antidoto al loop di dolore che prova.

    Shutter Island è in definitiva un grande thriller, forse uno dei migliori mai girati in quegli anni – come pochi ne sono stati girati, e che vanta tantissimi, più o meno fiacchi, tentativi di imitazione.

  • Una lucertola con la pelle di donna: quando il thriller psicologico era made in Italy

    Una lucertola con la pelle di donna: quando il thriller psicologico era made in Italy

    Thriller dalle tinte enigmatiche, con ottimi sprazzi horror che devono, onestamente, più di qualcosa ad un certo Dario Argento: l’altro regista romano era appena entrato sulle scene, circa un anno prima, con “L’uccello dalle piume di cristallo“. Ovviamente, in questa sede, Fulci veniva da altre apprezzate escursioni nel genere (“Non si sevizia un paperino” su tutti), per cui scrive e dirige questo film con massima perizia e intelligenza, senza cadere nelle banalità e negli stereotipi tanto frequenti in quegli anni.

    In breve: un cult del giallo all’italiana, con una certa contaminazione poliziesca e suggestive allucinazioni.

    Una lucertola con la pelle di donna è probabilmente il giallo anni Settanta per eccellenza: o quantomeno, lo è nel suo incedere psichedelico e imprevedibile, dove la struttura narrativa è spesso affidata ad una specie di flusso di coscienza. La prima sequenza è magistrale in tal senso: vediamo il personaggio interpretato da Florinda Bolkan muoversi a fatica in una folla che sembra ignorarne le difficoltà. Una folla che è prima quella di un treno, poi una massa di uomini e donne nude in un corridoio, poi – ancora – il vuoto delle tenebre, in cui fa la propria comparsa una donna misteriosa (Anita Strindberg, non accreditata ufficialmente nei titoli) che ride e suscita quel singolare mix di repulsione, attrattività e spavento tipici del sesso e dell’amore. La sequenza diventa erotica, con primi piani sul volto dell’attrice che si risveglia da quello che sembra essere stato un sogno, e si scopre avere una chiave di lettura psicoanalitica. Un giallo erotico, per molti versi, nel quale la componente di questo tipo è sostanziale e non preponderante.

    Ambientato nella Londra settantiana, Una lucertola con la pelle di donna narra di questa donna benestante (Carol) che viene accusata di aver assassinato la propria vicina, una hippie libertina ai suoi antipodi, forse in preda a un raptus omicida. La donna non sembra consapevole di ciò che potrebbe aver fatto, che sembra provenire dal proprio inconscio e trova una sorta di reazione violenta o una forma di gelosia per la vita libertina della vicina dicasa. Poi racconta di aver sognato l’omicidio giusto nel momento in cui avveniva, il che incrementa i sospetti e suggerisce una narrazione in bilico tra realtà e sogno. Il film di Fulci, all’epoca ancora nel mood puramente giallistico, diventa soprattutto un gioco di specchi e di sospetti: come nella tradizione argentiana, chiunque (o quasi) dei personaggi potrebbe essere responsabile del delitto, per quanto lo spettatore sia spinto a sospettare esclusivamente di Carol. Che ad un certo punto verrà pure, kafkianamente, arrestata, fino alla imprevedibile conclusione della storia.

    Fulci gioca per tutto il film a farci credere che le cose non stiano come sembra, mescolando con intelligenza realtà e fantasia, sogno e verità, fino a lasciarci un messaggio di fondo: tutto quello che sognamo di fare, in fondo, siamo nelle condizioni di realizzarlo, anche se dobbiamo essere disposti a pagarne le conseguenze.

    La celebre scena di questo film, che vede la Bolkan aggirarsi all’interno della clinica in cui è ricoverata (e che ricorda per certi versi quanto vedremo nella sequenza dell’ospedale de “L’Aldilà…“) è un autentico capolavoro del cinema di genere.

    La scena censurata

    In particolare, l’allucinazione con i cinque cani smembrati vivi (presente ad esempio nel sito movie-censorship.com), con tanto di organi palpitanti bene in vista, assume anch’essa nel suo orrore una valenza fortemente simbolica.

    All’epoca fu considerata talmente realistica per l’epoca che Fulci fu costretto a ricreare l’effetto in tribunale per mostrare che non ci fosse stato maltrattamento di animali: tutto si risolse al meglio per il regista romano, che riuscì a provare la propria innocenza. Ma l’effetto rimane crudo, sostanziale, difficile da guardare senza ricordarsi che si tratta solo di un film.

    Una lucertola con la pelle di donna, in definitiva, è il thriller anni Settanta italiano che strizza l’occhio alla psicoanalisi, la stessa che Fulci non sembrava amare (come testimoniato in un’intervista molto citata sul cinema horror). Uno di quei film immarcescibili, di culto, condito di elementi surreali e simbolici e focalizzato sull’equilibrio tra vite contrapposto: quelle di un personaggio libertino e quella di una donna frustrata, che probabilmente uccide per una forma di odio sociologico per l’altro. Tematiche che, sia pure con toni saggistici, sono stati affrontati ad esempio da film come Metti, una sera a cena.

  • Quando Pleasantville raccontava le sfide alle norme sociali

    Quando Pleasantville raccontava le sfide alle norme sociali

    Pleasantville” è un film del 1998 diretto da Gary Ross. La trama del film ruota attorno a due adolescenti, David e Jennifer, interpretati rispettivamente da Tobey Maguire e Reese Witherspoon, che vengono magicamente trasportati all’interno di un programma televisivo in bianco e nero degli anni ’50 chiamato “Pleasantville”.

    Nel mondo di Pleasantville, tutto è perfetto, ordinato e apparentemente privo di conflitti. Tuttavia, quando David e Jennifer arrivano, iniziano a influenzare il mondo circostante introducendo idee e cambiamenti che sfidano il conformismo e la rigidità della società dell’epoca. Col passare del tempo, il colore inizia a emergere nel mondo in bianco e nero del programma televisivo, simboleggiando l’apertura alla diversità, all’individualità e all’esplorazione della sessualità.

    Il film affronta temi come l’importanza dell’individualità, la sfida alle norme sociali, l’accettazione delle differenze e la comprensione dell’importanza della conoscenza e dell’esperienza. La trama serve anche da metafora per esplorare il cambiamento sociale, il razzismo, la sessualità e l’evoluzione culturale.

    Cast

    Il cast principale di “Pleasantville” include diversi attori noti. Ecco alcuni dei membri del cast e i personaggi che interpretano nel film:

    • Tobey Maguire: David / Bud Parker
    • Reese Witherspoon: Jennifer / Mary Sue Parker
    • Joan Allen: Betty Parker / Joan Allen
    • William H. Macy: George Parker / William H. Macy
    • Jeff Daniels: Bill Johnson / Jeff Daniels
    • Don Knotts: TV Repairman / Don Knotts
    • J.T. Walsh: Big Bob
    • Paul Walker: Skip Martin
    • Marley Shelton: Margaret Henderson
    • Jane Kaczmarek: David e Jennifer’s Mother
    • Giorgio Cantarini: Lover’s Lane Guy
    • Jenny Lewis: Christinains / Girl in Car
    • Marc Blucas: Basketball Hero

    Questi sono solo alcuni dei membri del cast del film “Pleasantville”. Ognuno di loro contribuisce alla rappresentazione dei vari personaggi nel mondo in bianco e nero di Pleasantville e nel mondo a colori che evolve man mano che la storia si svolge.

    Sulla regia

    Il regista del film “Pleasantville” è Gary Ross. Il film è stato scritto e diretto da lui ed è stato rilasciato nel 1998. Gary Ross è noto anche per aver diretto altri film come “Seabiscuit – Un mito senza tempo” e “Hunger Games”.

    Spiegazione del film (spoiler alert)

    Il finale di “Pleasantville” è ricco di significati e simbolismi che riflettono le tematiche del film. Verso la fine del film, il mondo di Pleasantville è passato da uno stato in bianco e nero a uno a colori, simboleggiando la trasformazione sociale e culturale che si è verificata nella comunità. Questo cambiamento è avvenuto a causa dell’influenza delle nuove idee, della conoscenza e dell’apertura alla diversità introdotti dai protagonisti, David e Jennifer.

    Il passaggio al colore rappresenta l’abbattimento delle barriere sociali e culturali che limitavano l’espressione individuale, la sessualità e la creatività. Rappresenta anche l’accettazione delle emozioni umane complesse e dei conflitti che prima erano repressi. Questa trasformazione simboleggia il progresso e il cambiamento necessari per una società più inclusiva e aperta.

    Inoltre, il cambiamento nei colori riflette anche il processo di crescita personale e di scoperta attraverso l’esperienza. I personaggi nel film imparano a essere veramente se stessi, a esplorare la loro individualità e a connettersi con gli altri in modi autentici. La diversità di idee e identità viene finalmente abbracciata.

    In sintesi, il finale di “Pleasantville” trasmette un messaggio di speranza, cambiamento e progresso, sottolineando l’importanza dell’apertura mentale, dell’accettazione delle differenze e dell’esplorazione personale.

    Omonimie

    “Pleasantville” è il titolo di una canzone dell’artista indie pop Dodie Clark. Tuttavia, la canzone non è stata inclusa in uno dei suoi album ufficiali, ma è stata pubblicata come singolo indipendente nel 2013. La canzone riflette sul tema della ricerca dell’innocenza e della purezza in un mondo complesso e spesso confuso. La canzone potrebbe non essere molto conosciuta a meno che tu sia un fan dell’artista o del genere musicale indie pop.