CULT_ (114 articoli)

Gli imperdibili: una selezione di pellicole da non perdere per qualsiasi appassionato del genere horror, commedia, thriller, trash.

  • Che vuol dire triggerare

    Che vuol dire triggerare

    Triggered (da cui deriva la forma italianizzata triggerato e triggerare, che si legge triggherare) nasce nel gergo informatico e, per estensione, in quello delle community, delle board tipo 4chan e dei social network in generale. Trigger in inglese significa grilletto, per cui triggerare si potrebbe tradurre come innescare, far scattare e (per estensione) far arrabbiare, stuzzicare, punzecchiare, far uscire di testa. Un esempio classico è quello dei troll, che sono i disturbatori nelle community online che ad esempio inseriscono un commento fuori luogo nel profilo di un politico giusto per il gusto di farsi bannare o di stuzzicare gli altri.

    Secondo l’urban dictionary, triggerato fa riferimento ad una reazione emotiva / psicologica causata da qualcosa che, con modalità variabili caso per caso, in qualche modo si riferisca ad un qualcosa che urti la sensibilità di qualcuno. Ad esempio, evocare ricordi scatenanti rispetto a persone che abbiano subito un trauma o un dispiacere profondo, in modo anche abbastanza sprezzante delle sensibilità altrui.

    In ambito informatico, nel web e lato Javascript, un trigger è un particolare metodo che emula il comportamento di un utenti che fa click su un componente, oppure apre un menù, tutto questo lato codice quindi come se lo facesse un bot al posto suo. Bot che, pertanto, viene triggerato lato codice JS.

    Triggerare in Arancia meccanica

    Il concetto di “triggerare” rappresenta un aspetto cruciale nell’ambito della psicologia e della salute mentale, poiché evidenzia la complessità delle risposte emotive umane e il legame profondo tra gli eventi del passato e le esperienze attuali. Nel romanzo distopico di Anthony Burgess, “Arancia Meccanica“, e nel film omonimo diretto da Stanley Kubrick, il protagonista Alex è un esempio emblematico di come certi stimoli possano scatenare risposte emotive e comportamentali intense, riflesso di una psiche tormentata e vulnerabile.

    Immagine tratta da IMDB.COM
    Immagine tratta da IMDB.COM

    La narrazione di “Arancia Meccanica” si snoda attraverso una serie di eventi straordinariamente violenti, nei quali Alex e i suoi “drughi” si impegnano in atti di estrema brutalità. Tuttavia, la violenza di Alex non è solamente il risultato di un impulso criminale, ma è radicata in un contesto più ampio, caratterizzato da traumi passati, dinamiche familiari complesse e una società disfunzionale.

    Cos’è un trigger

    Il concetto di trigger (letteralmente grilletto) si manifesta in diverse occasioni nel corso del racconto, poiché determinati stimoli o situazioni evocano ricordi dolorosi o reazioni emotive violente in Alex. Ad esempio, le immagini di violenza nei media, le melodie di Beethoven (utilizzate nel film come parte della tecnica di “trattamento” di Alex), o il confronto con figure di autorità possono attivare risposte viscerali che lo riportano ai suoi trascorsi di delinquenza e di punizioni brutali.

    La complessità di Alex come personaggio risiede proprio nella sua vulnerabilità e nelle sue contraddizioni interne. Se da un lato emerge come un individuo privo di empatia e incline alla violenza gratuita, dall’altro si intravedono tracce di sofferenza e fragilità psicologica, alimentate da un passato segnato da abusi e disfunzioni familiari.

    Il ruolo dei trigger nella vita di Alex sottolinea l’importanza di considerare il contesto psicologico e le esperienze passate di un individuo nel comprendere il suo comportamento presente. Le ferite emotive e i traumi non risolti possono permanere nell’inconscio di una persona, influenzando le sue reazioni e i suoi atteggiamenti di fronte a determinati stimoli.

    Inoltre, la figura di Alex solleva questioni più ampie riguardanti la natura della violenza e della criminalità. Sebbene sia indubbiamente responsabile delle sue azioni, la sua storia personale e il contesto sociale in cui vive mettono in luce le complessità della condizione umana e la necessità di approcci più compassionevoli nella gestione della devianza e del disagio mentale.

    Immagine tratta da IMDB.COM
    Immagine tratta da IMDB.COM

    In conclusione, il concetto di trigger ci ricorda che le nostre esperienze passate hanno un impatto profondo sul nostro presente e sulle nostre reazioni emotive. Attraverso l’analisi di personaggi come Alex in “Arancia Meccanica”, possiamo approfondire la nostra comprensione della psiche umana e dell’interazione complessa tra ambiente, esperienze personali e comportamento individuale.

  • Guida concettuale agli elefanti rosa

    Guida concettuale agli elefanti rosa

    Nel film d’animazione Disney del 1941 “Dumbo“, gli elefanti rosa rappresentano una sequenza molto particolare e altrettantosurreale.

    • La scena entra in una fase onirica, con il suono di una musica incalzante e misteriosa che emerge gradualmente.
    • La telecamera si focalizza su Dumbo, il piccolo elefante dalle grandi orecchie, che si trova all’interno della tenda del circo.
    • Dumbo è visibilmente confuso, balbettando leggermente mentre si muove in modo instabile.
    • Intorno a Dumbo, gli oggetti iniziano a deformarsi e a prendere forme insolite. Le luci si diffondono, creando un’atmosfera sfocata e surreale.
    • Improvvisamente, compare una carrellata di elefanti, tutti di un vivace colore rosa acceso. Sono dipinti con sfumature brillanti e psichedeliche, con grandi occhi sfaccettati e orecchie allungate.
    • Gli elefanti rosa iniziano a danzare in modo stravagante e sincronizzato, muovendosi in cerchi intorno a Dumbo. Alcuni elefanti saltellano e si librano nell’aria, sfidando la legge della gravità in un balletto bizzarro.
    • La musica raggiunge il suo apice, aumentando l’intensità e il ritmo. La scena diventa ancora più frenetica e caotica, con luci psichedeliche che si intrecciano e si fondono con i movimenti degli elefanti.
    • Dumbo, ancora sotto l’effetto dell’ebbrezza, segue gli elefanti rosa con sguardi sbigottiti e incerti, incapace di capire cosa sta accadendo.
    • Mentre la scena raggiunge il suo culmine, gli elefanti rosa sembrano fondersi insieme, creando forme sempre più strane e astratte, come un caleidoscopio vivente di colori e movimenti.
    • Poco a poco, l’effetto dell’allucinazione inizia a svanire, e Dumbo si ritrova nel suo ambiente familiare, con la confusione che pian piano svanisce.
    • La scena si conclude con Dumbo che si guarda intorno, ancora un po’ disorientato, mentre la musica si attenua e la normalità torna al circo.

    Nel film, Dumbo è un piccolo elefante dalle orecchie enormi che viene deriso e emarginato dagli altri elefanti del circo a causa della sua diversità. Un giorno, Dumbo si ubriaca involontariamente a causa di una bevanda alcolica mescolata all’acqua, e questo gli provoca una vera e propri allucinazione.

    Nella confusione, Dumbo ha una visione stravagante e psichedelica in cui degli elefanti rosa ballano e svolazzano intorno a lui. La scena è accompagnata da una musica incalzante e trascinante, rendendo il tutto ancora più surreale.

    Cosa significa la scena degli elefanti rosa di Dumbo

    La sequenza degli elefanti rosa è un momento iconico del film e rappresenta metaforicamente il momento di incertezza e smarrimento di Dumbo, il quale si sente emarginato e incompreso a causa delle sue caratteristiche fisiche diverse. È una rappresentazione dell’ansia e della paura che il piccolo elefante prova in un contesto sociale ostile.

    Inoltre, la scena ha un tono onirico e quasi psichedelico, caratteristico dello stile di animazione di quel periodo. Essa mostra anche il talento creativo degli animatori Disney, che hanno creato un momento visivamente affascinante e indimenticabile nel film.

    La sequenza degli elefanti rosa è uno dei momenti più distintivi e ricordati di “Dumbo,” e ha lasciato un’impronta indelebile nella cultura popolare, diventando una rappresentazione iconica della sperimentazione artistica e dell’immaginazione che caratterizzano i film Disney.

    Nei Simpson l’episodio viene parodizzato da “Rosafante“, l’elefante rosa che salva Barney da un mostro onirico che lo minacciava durante l’ennesima sbronza.

  • La scena dell’orso dentro Shining di Stanley Kubrick spiegata al popolo sovrano

    La scena dell’orso dentro Shining di Stanley Kubrick spiegata al popolo sovrano

    Nel film “Shining” diretto da Stanley Kubrick, basato sul romanzo di Stephen King, la scena dell’orso è una delle sequenze più enigmatiche e inquietanti. Questa scena non è presente nel libro originale di King e rappresenta un’aggiunta dell’adattamento cinematografico di Kubrick, che ha spesso inserito elementi visivi e simbolici unici per creare un’atmosfera surreale e spaventosa.

    La sequenza

    Nel film, la scena dell’orso si verifica quando il personaggio di Wendy si aggira nell’hotel con un coltello in mano, per difendersi da Jack. Poco dopo avvista in camera da letto un uomo vestito da orso, che sembra stare praticando un rapporto orale ad un uomo sconosciuto sdraiato sul letto. Le due figure si accorgono della presenza di Wendy, e la fissano per qualche istante. Wendy scappa, senza dire nulla.

    Spiegazione e Interpretazioni

    La scena dell’orso non è mai stata spiegata in modo definitivo da Kubrick e può essere soggetta a interpretazioni diverse. Ecco alcune possibili spiegazioni e concetti simbolici associati alla scena:

    1. Folclore e Mistero: L’orso con la maschera potrebbe richiamare immagini di rituali o leggende misteriose. Questo si allinea con l’atmosfera inquietante e surreale dell’intero film.
    2. Sesso e Perversione: Alcune interpretazioni suggeriscono che la scena dell’orso potrebbe essere legata a temi di sesso e perversione, riflettendo il deterioramento mentale e morale di Jack. L’immagine dell’orso mascherato potrebbe simboleggiare una sorta di desiderio represso, come mostrato dal fatto che l’orso si trova in camera da letto con un uomo dall’aria distinta, il che potrebbe riferire una qualche relazione non convenzionale (a tema furry, ad esempio).
    3. Labirinto dell’Hotel: L’Overlook Hotel è spesso descritto come un labirinto in cui le persone si perdono fisicamente e mentalmente. La scena dell’orso potrebbe rappresentare la confusione nella mente di Jack che si riflette, ovviamente, anche in quella della moglie Wendy.
    4. Visione Allucinatoria: L’orso potrebbe essere una visione distorta e allucinatoria causata dall’instabilità mentale di Jack e dall’influenza sovrannaturale dell’hotel stesso, il che finisce per influenzare in modo contagioso anche la moglie.
    5. Critica Sociale: Alcuni critici hanno suggerito che la scena dell’orso potrebbe rappresentare una forma di satira contro l’ipocrisia dell’alta società, per quanto tale intepretazione sembri vagamente forzata.

    È importante notare che Stanley Kubrick è noto per creare film complessi e ricchi di simbolismo, lasciando spazio a diverse interpretazioni. La scena dell’orso in “Shining” è solo uno dei molti elementi del film che contribuiscono alla sua natura ambigua e al suo impatto duraturo sulla cultura popolare.

  • Nosferatu di Robert Eggers ci parla del gotico

    Nosferatu di Robert Eggers ci parla del gotico

    Rialzati o cuore, sballottato da tormenti infiniti e oscura solitudine. Resisti contro chi ti minaccia con una croce in mano o ti accerchia fra luci tremule di un villaggio superstizioso. E se l’alba ti uccide, non disperare. E se la notte è tua, non gioire. θυμέ ἄνα δέ. Rialzati, o cuore, sulla nostra oscurità interiore.  L’apostrofe è una figura retorica con cui l’autore si appella al proprio lettore, e nel caso di Archiloco (qui citato in meta-versi che non ha mai scritto, ma che avrebbe potuto – se avesse conosciuto la figura di un vampiro) è un modo artistico per appellarsi all’animo.

    Un appellarsi oggi inconsueto dato che la figura di Dracula è relegata a un immaginario quasi svanito, al limite dell’irraccontabile, del vetusto. Un racconto smarrito in mille divagazioni sul tema che hanno finito, alla lunga, per renderlo ben lontano dall’essenza radicale della sua prima versione. Perchè vale la pena ricordare che il conte Dracula (se preferite, il conte Orlok) è Il non-morto, espressione di un desiderio che non trova pace, oltre che ben diverso dal vituperato morto vivente. Il vampiro come espressione solipsistica della volontà di inseguire il desiderio, persi nel sogno dell’immortalità, nell’ombra di una pulsione di morte ben cristallizzata narrativamente.

    Eppure nel racconto originale Dracula sarà addirittura grato a Van Helsing, alla fine, e questo per avergli consentito, con la sua distruzione, di poter finalmente riposare in pace. Allo stesso modo (mentre si osserva in silenzio l’incedere di una storia che, per Eggers, è orrore come pura idea) l’animo di chi guarda è tormentato da richiami ancestrali a valori eterni, che vanno dal mito dell’eterna giovinezza a quello, più desueto, di un amore senza fine, in grado di risorgere ogni notte a patto di trovare nuovo sangue. Per quanto si possa essere profondamente disillusi e distratti dalla quotidianità, a conti fatti, quella di Nosferatu continua ad essere una storia che strugge, appassiona, disorienta – per quanto sia ben nota, come di un amore non ricambiato, a senso unico, destinato a fallire eppure intenso, per il quale verremmo biasimati da chiunque – lo stesso biasimo di chi oggi non amerà questa pellicola, perchè dai, ancora con Dracula state, ma basta – una follia senza mordente, puro masochismo, uno strazio che avresti potuto evitare eppure hai deciso di viverlo, se non altro fino all’alba – il momento simbolico in cui quel sogno svanisce.

    Da un lato cinematografico il tema dei vampiri è tra più noti e sfruttati nella storia, e non è mai agevole riproporne uno senza auto-relegarsi al ruolo di ennesimo cineasta da b movie. Cosa che questo Nosferatu si guarda bene dall’essere. Un vampiro del genere forse oggi fa sorridere, al limite in chiave grottesca o satirica, fa alludere di riflesso ad una sensualità immortale, come dire, è difficile crederci, è particolarmente difficile onorare il patto spettatore-regista legato alla sospensione di incredulità. Non è agevole prenderlo sul serio, soprattutto dopo che decine di opere lo hanno di fatto privato dello spirito del suo tempo – quello fatto di oscura malinconia, terrore sublimato e rappresentazione del desiderio e della sua pura, irraccontabile, oscena, inevitabile perversione.

    Ciò di cui parliamo pone una svolta, perchè Eggers relega il mito del vampiro ad un mondo antico, fitto di superstizioni ancestrali e mitologie occulte. Un mondo essenzialmente pagano e dalla fatua modernità (fatua perchè i topi invaderanno la città, portando la peste e la quarantena), in cui anche le persone più razionali sono segretamente attratte dal mondo dell’occulto. Poco importa che la scienza stia nel frattempo muovendo i primi, timidi passi, perchè conta solo la suggestione del pensiero magico. Soprattutto siamo in un mondo in cui la medicina era ancora poco sviluppata, non esistono ancora psicologia e psicoanalisi – per cui i deliri mistico-malinconici di una donna come Ellen Hutter, protagonista centrale del film, alla ricerca di una figura indefinita da cui si sente attratta, viene banalmente declassata ad esaurimento nervoso – e per l’epoca in cui viviamo, per inciso, tanto vale legarla al letto, in caso esagerasse. La singolarità del Nosferatu di Eggers, del resto, è anche quella di averlo costruito su un archetipo femminile fragile emotivamente quanto decisivo narrativamente, al punto di restituire l’arcaico mistero della storia originale di Bram Stoker in una chiave rivoluzionaria e, a ben vedere, ben adeguata alla modernità.

    Di Maxpoto - https://www.youtube.com/watch?v=b59rxDB_JRg, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=10166607
    Di Maxpoto – https://www.youtube.com/watch?v=b59rxDB_JRg, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=10166607

    Il film di Eggers risulta pertanto un gotico oscuro, solo in apparenza fuori tempo massimo, espressione di un folk horror ancestrale dal montaggio snello, in cui nulla è di troppo e tutto è funzionale alla trama. Ne risulta un lavoro asciutto e perfetto nella forma, che saprà essere divisivo per il pubblico abituato alle versioni fumettistiche, vuotamente romantiche e accattivanti dei vampiri. Nosferatu relega, in altri termini, la narrazione agli aspetti più oscuri e antichi del gotico, riportandolo alle origini dell’orrore, con la stessa convinzione oscura che doveva avere Bram Stoker quando mise mano al proprio Dracula.

    La migliore versione della storia, senza timore di esagerare, forse dai tempi di Dracula di Francis Ford Coppola di inizio anni NOvanta, considerando pure che la saga vampirica ispirata al conte è sempre vissuta di alti e bassi, di titoli altisonanti quanto vacui, e di lavori meno noti o più sostanziali: basterebbe considerare la varietà tematico-stilistica di opere come Blade, Underworld, Intervista col vampiro, Hanno cambiato faccia, la saga di Twilight, Miriam si sveglia a mezzanotte, L’ombra del vampiro per rendersene conto. Da troppo tempo si trattava di un jolly narrativo da spendere a casaccio, privato dell’oscuro mood gotico che lo rendeva una delle migliori opere horror mai pubblicate, al pari dei capolavori di Lovecraft e Poe. Qui si torna alle origini, e lo si fa con la convinzione dello stesso cineasta che ha prodotto folk horror immarcescibili come The Vvitch.

    Eggers si richiama sia al Nosferatu di Murnau che a quello di Herzog, ricalcandone creativamente lo spirito e i contenuti e adeguandoli ai tempi che cambiano. Soprattutto conferendo alla trama un insolito (per un film di vampiri) spessore psicologico ai personaggi, per i quali i limiti tra psicosi e malattia organica sono sempre labili, in grado di lasciare deliziosi dubbi allo spettatore. Di fatto, il Nosferatu di Eggers è anche un film costruito sui dettagli: in primis la scelta della location (il castello di Perstein, lo stesso usato da Herzog per la sua versione dell’opera), poi lo stile frenetico e privo di tempi morti con cui le sequenze si susseguono. Ecco Thomas che scoperchia la bara del vampiro, riuscirà a colpirlo con un piccone? Van Helsing? Dovrebbe essere lui, ma non ne siamo sicuro. La peste arriva in città, e con lui il Conte Orlok, proteso a conquistare il mondo e diffondere un male proto-lovecraftiano sulla terra. Guardate adesso il conte Orlok, è talmente spaventoso che il regista si guarda bene dal mostrarlo prima che il film si avvii verso la fine. Il sangue e la violenza la fanno da padrone nella giusta misura, sono sequenze fatte essenzialmente di sprazzi, sangue che vediamo solo per rapidi istanti perchè conta più lo studio d’atmosfera, l’esaltazione della scenografia macabra e surreale. Poi va rilevata la scelta dei simbolismi animaleschi, decisamente classica: vampiri associati ai topi e alla diffusione della peste nera in Europa, cacciatori di vampiri associati al contrario ai gatti. Sono elementi che piaceranno ai fanno dell’horror concettuale e metafisico, effettivamente, e che potrebbero deludere chi non ha idea di cosa sia un Horror, o magari si aspettava l’ennesimo rehash fumettistico tipo Blade.

    La caratterizzazione del conte Orlok / Dracula, di suo, deriva qui dal folklore rumeno (sulla falsariga della versione di Herzog, in effetti), a cominciare dai baffi e dai dettagli fisici sinistri che le accompagnano l’essenza. La forma del protagonista è a suo modo inedita, soprattutto per la scelta di mostrarne chiaramente le fattezze solo nella parte finale del film, facendolo diventare un’ombra oscura e accennata, a evocare virtualmente il Freddy del primo Nightmare. Forma allungata, incedere minaccioso e imprevedibile, unghie lunghissime, Orlok parla quasi sempre lingua rumena (con cui sembra poter comunicare anche telepaticamente con le vittime), mentre attorno a lui sta per nascere il mondo in cui viviamo, con le città evolute asimmetricamente rispetto ai villaggi, con i primi che esaltano il culto della produttività e i secondi che evocano riti ancestrali dimenticati dai più.

    Per il resto “Blood is life” (come viene detto nella seconda parte del film): il sangue è vita, e sarà dei vampiri.

    Di Huuzzah - Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=143179077
    Di Huuzzah – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=143179077

    Per molti versi quello di Eggers è un esperimento azzardato, almeno sulla carta, che esibisce una grande prova registica e concettuale su un terreno scivoloso, in cui il rischio è che il pubblico possa lamentarsi sia di interpretazioni troppo letterali (considerandolo poco originale) che troppo azzardate (considerandolo, al contrario, poco fedele all’originale). Non era agevole tornare alla figura orrorifica che più di tutte ha influenzato il mito del vampiro: una storia che, in questa sede, si richiama a suo modo al romanzo episotolare di Bram Stoker “Dracula“, lo stesso che costò il fallimento della Prana-Film, condannata a pagare i diritti del Nosferatu di Murnau. Per quello che ci riguarda, qui l’esperimento è da considerarsi perfettamente riuscito.

    L’orrore di Eggers, come già in The Northman e The Vvitch, si richiama ai classici del genere, ed è di natura squisitamente folkloristica: si lega ad un mondo fatto di villaggi retrogadi, tradizioni locali antiche quanto macabre, un mondo ancora tecnologicamente e scientificamente non troppo evoluto quanto affascinato dall’esoterismo e dell’occulto. Il tutto viene arricchito da un singolare mood proto-lovecraftiano per eccellenza: ciò che è sepolto nel passato, magari in un antico castello, deve rimanere lì. Per forza. Se andiamo a riscoprilo o stuzzicarlo, peggio ancora se per scopo di lucro (come fa il povero sss), non può finire bene. E fa impressione sentire oggi questa storia, attuale più che mai, con la peste nera che arriva da una barca in cui enormi e numerosi topi porteranno il contagio che infesterà realmente l’Europa.

    Dal canto loro – in un’ambientazione dei primi anni del 1800 – i personaggi rivivono sullo schermo in un’atmosfera da grand guignol, spesso e volentieri illuminata e allestita come se fossimo a teatro, tra cui svettano per eccellenza le prestazioni di William Dafoe nei panni di uno professore allontanato dalla comunità scientifica per il suo interesse per l’occultismo (Van Helsing?), che strizza l’occhio alle nuove attitudini psicologiche, che sarebbe nata solo qualche decennio dopo con i laboratori di Wilhelm Wundt.

    Con uno squisito equilibrio tra oscurità e gore, gran parte del film di Eggers si focalizza pure sul lato psichiatrico dei vampirizzati, con una modalità che mai si era vista con tale vividezza: come Orlok è una metafora della diffusione del contagio pestilenziale (tanto è vero che i morsi sul corpo delle vittime potrebbero essere ratti come non-morti), allo stesso modo le sue vittime sembrano vacillare, muoversi a fatica, soffrire le pene dell’inferno per un problema di salute mentale, prima che fisica.

    È il mito di Nosferatu frammisto alla vera storia di Daniel Paul Schreber, il magistrato che si era convinto di parlare con Dio e di poterne condizionare l’operato. Le sue Memorie di un malato di nervi sono un classico della letteratura psichiatrica, e il caso vuole che sia vissuto nello stesso periodo in cui è ambientato il film di Eggers. Null’altro da aggiungere, a questo punto: il tributo è probabilmente involontario, ma serve a sottolineare come gran parte della brillanza di questo ennesimo Nosferatu risieda nell’averla voluta mettere sul piano clinico-psichiatrico in un momento storico in cui la medicina non aveva ancora lo sviluppo attuale, era ritenuto accettabile legare e narcotizzare i pazienti e Freud non aveva ancora proposto i propri studi sui sogni dei pazienti e sulla rilevanza degli stessi.

    Orlok non è solo un vampiro predatore di sangue, ma diventa una metafora dell’essere ancora vivi. O, se preferite, dell’essere probabilmente non-morti.

    Rialzati o cuore, sballottato da tormenti infiniti e oscura solitudine. Resisti contro chi ti minaccia con una croce in mano o ti accerchia fra luci tremule di un villaggio superstizioso. E se l’alba ti uccide, non disperare. E se la notte è tua, non gioire. θυμέ ἄνα δέ. Rialzati, o cuore, sulla nostra oscurità interiore.

  • Manuale digitale del Cinema Dissacrante

    Manuale digitale del Cinema Dissacrante

    “Dissacrante” è un aggettivo che indica qualcosa che è in grado di oltraggiare, sfidare o violare deliberatamente le norme, le convenzioni o i valori sacri, sia religiosi che culturali. Questo termine viene utilizzato per descrivere qualcosa di provocatorio, irriverente o che mette in discussione idee o istituzioni considerate intoccabili o sacre dalla società o dalla cultura in cui si inseriscono. L’etimologia del termine “dissacrante” deriva dalla combinazione del prefisso “dis” (che indica un’azione negativa o contraria) e dal termine “sacro” che ha radici latine e fa riferimento al concetto di santo o consacrato. Un sinonimo di “dissacrante” potrebbe essere “irriverente”. Entrambi gli aggettivi descrivono qualcosa che manca di rispetto per le norme, le istituzioni o le convenzioni, solitamente in modo provocatorio, sfidando le aspettative sociali o culturali. Altri sinonimi potrebbero essere “scorretto”, “sacrilego”, “provocatorio” o “sfacciato”, a seconda del contesto in cui vengono utilizzati.

    Quindi, letteralmente, “dissacrante” significa “che toglie la sacralità o il carattere sacro a qualcosa”, con una connotazione di sfida o oltraggio nei confronti di ciò che è considerato sacro o intoccabile. Questo aggettivo è spesso usato per descrivere opere artistiche, opere letterarie, film o azioni che mirano a mettere in discussione dogmi, valori tradizionali o concetti considerati sacri dalla società. Il cinema non poteva fare eccezione ed in questo articolo abbiamo raccolto i 10 film tra i più dissacranti mai realizzati.

    Brian di Nazareth

    Diretto da Terry Jones, questo film dei Monty Python affronta temi religiosi in modo satirico, seguendo la storia di un uomo di nome Brian che vive nell’antica Giudea e viene letteralmente scambiato per il Messia.

    Arancia meccanica

    Diretto da Stanley Kubrick, questo film si concentra sulla violenza giovanile e sulla psicologia del male, esplorando il tema del libero arbitrio attraverso un protagonista violento e disturbato.

    Salò o le 120 giornate di Sodoma

    Diretto da Pier Paolo Pasolini, il film affronta temi di potere, sadismo e perversione attraverso una rappresentazione estremamente cruda e provocatoria.

    La montagna sacra

    Diretto da Alejandro Jodorowsky, questo film surrealista e simbolico mette in discussione le istituzioni religiose, sociali e politiche attraverso una serie di immagini e simbolismi visivi.

    Dogma

    Diretto da Kevin Smith, questo film presenta una visione satirica e irriverente della religione e dei dogmi religiosi attraverso una trama che coinvolge angeli, un’apocalisse e un gruppo di personaggi umani connessi a temi spirituali.

    Borat 2

    Borat Seguito di film cinema: il ritorno del giornalista kazako che diverte (e fa arrabbiare) chiunque

    This Is the End

    Questo film, diretto da Seth Rogen e Evan Goldberg, è una commedia apocalittica che vede diversi attori interpretare versioni di sé stessi in una situazione di fine del mondo, utilizzando humor oscuro e autoironico.

    “The Wolf of Wall Street

    Diretto da Martin Scorsese, questo film segue la storia vera di Jordan Belfort, un broker di Wall Street, mostrando il suo stile di vita eccessivo e immorale, mettendo in discussione il mondo della finanza e della moralità.

    Postal

    Un film che entra di diritto nell’universo del cinema più dissacrante di sempre.

    American Psycho

    Basato sul romanzo di Bret Easton Ellis, il film diretto da Mary Harron segue la vita di Patrick Bateman, un giovane banchiere con tendenze psicopatiche, critica la società degli anni ’80 e le ossessioni materialistiche.

    Fight Club

    Diretto da David Fincher, questo film basato sul romanzo di Chuck Palahniuk mostra una critica al consumismo e alla società moderna attraverso un club segreto che promuove (direttamente o indirettamente, pur sempre in maniera provocatoria) la ribellione contro lo status quo.