PASSEGGIATE MENTALI_ (90 articoli)

  • Oltre il guado: folklore e horror del film di Bianchini

    Oltre il guado: folklore e horror del film di Bianchini

    Un etologo sta seguendo alcune tracce nelle foreste sperdute tra Fruili e Slovenia, monitorando gli animali che attraversano la zona. Una telecamera montata sul corpo di una volpe gli mostra una località sconosciuta, apparentemente abbandonato, giusto oltre il fiume…

    In breve. Notevole horror italiano che non ha nulla da invidiare alle produzioni più blasonate e citate. Bianchini è un talento del genere e rielabora a modo proprio, con grande stile, archetipi lovecraftiani e fulciani. Da non perdere.

    Oltre il guado di Lorenzo Bianchini potrebbe rientrare in quei film che, pur non potendo piacere a chiunque – perchè nessun film ci riesce, in fondo – riescono lo stesso a far parlare di sè. E questo avviene per meriti veri: perchè, diversamente da troppe produzioni indie (troppe delle quali tendono ad essere iconiche quanto stucchevoli, quando non puramente masturbatorie) si esprime finalmente in un linguaggio robusto, propinando una storia accattivante ed una fotografia nitida. Nonostante qualcuno sia stato tentato ad accostarlo allo pseudo-snuff della strega di Blair, infatti, Across the river va molto oltre; addirittura, in certi passaggi mostra indirettamente cosa sarebbe potuto essere il discusso film di fine anni 90 di Myrick e Sanchez, uno dei primi casi di pellicola promossa grazie al viral marketing e alle fake news sul web.

    Se è vero che da tempo l’horror ha trovato una nuova dimensione nei deliri new horror di Laugier, Roth e Gens, in grado (con gradazioni diversissime) di modernizzare ed innovare il genere, al tempo stesso bisogna constatare che l’altra tendenza, parallela, è quella dell’essenzialità esistenzialista e paranoica degli horror scarni, impalpabili e diretti come Buried, Haze e naturalmente questo. Probabilmente, uno dei migliori del suo sotto-genere, almeno tra quelli usciti negli ultimi anni.

    La storia di Oltre il guado è quella di un etologo avventuriero, incuriosito dai misteri di un bosco che si scopre contenere un antico paese, abbandonato dal dopoguerra; in questo, Bianchini non risparmia dettagli contestualizzanti, facendo raccontare parallelamente la storia a quelli che sembrerebbero essere due anziani ex abitanti. Al tempo stesso, la narrazione è condotta da elementi minacciosi (la natura ostile – e il fiume, soprattutto) ed altri relativamente rassicuranti (il camper, il computer, il fucile con visore notturno); col tempo, la parte rassicurante della storia si dilegua, sembra quasi farsi consumare dall’insistenza di quella pioggia battente.  E questo crea una tensione palpabile a cui è impossibile dare una spiegazione, e in grado di tenere lo spettatore incollato alla poltrona fino alla fine.

    Il protagonista resta infatti intrappolato nel villaggio, ed il pubblico è costretto ad affiancarlo nel suo spaventoso isolamento. Attenzione poi a pensare al solito b-movie “isolazionista” e girato alla buona: in questo bisogna saper valutare, a mio avviso, lo spirito sincero che muove Bianchini nel voler dirigere Oltre il guardo, un film indipendente assai pregevole. In fondo, chi va al cinema, non dovrebbe neanche sapere se sta vedendo un film dal budget milionario o di pochi euro: il biglietto da pagare, il più delle volte, quello è. Pregevole, folkloristico, pluri-premiato e (per una volta) molto facile da reperire online (c’è su Netflix).

    Se la storia è di per sè basilare, si riesce a svolgere in modo essenziale e particolarissimo, insistendo su elementi ricorrenti quanto suggestivi: elementi semplici, soprattutto, come l’acqua che invade l’ambiente di continuo (per un motivo che si capirà nel finale), e risparmiando i dettagli cruenti e splatter a semplici suggestioni, vaghi rimandi: il tanto che basta. Per il resto, la paura di Oltre il guado è quella di risate isteriche nella notte, isolamento notturno, porte e finestre che sbattono, mancanza progressiva di viveri, presenze che si dissolvono ed oggetti molto utili che scompaiono nel nulla.

    Mi sembra anche difficile cogliere precisi riferimenti ad altri film o cineasti, per quanto riesca ad essere personale questo eccezionale regista che comunque sembra conoscere sia Lovecraft che Lucio Fulci. A mio avviso, il vero merito è quello di aver saputo declinare, con mezzi e modi adeguati ai tempi di oggi, la celebre intervista a Fulci, quella in cui affermava che “l’orrore è pura idea“: in Across the river si sviluppano idee, archetipi della paura di ogni tempo, e sostanziali quanto imprecisabili sono i rimandi a molti generi (su tutti, l’uomo punito per la propria morbosa curiosità, per aver osato profanare segreti che dovevano rimanere tali – di natura chiaramente lovecraftiana, per inciso). Ma quello che spaventa davvero di questo film è l’idea di orrore che ogni spettatore vorrà immaginare dietro quella porta, in fondo alla cantina, dentro il camper del protagonista, forse anche negli sguardi dei due misteriosi personaggi più anziani (i cui discorsi sono in sloveno, e sono sottotitolati – credo volutamente – solo nella seconda parte).

    La visione di questo orrorifico one-man show, incredibilmente accattivante nonostante un soggetto restrittivo (il protagonista parla soltanto quando registra i propri appunti, e pochi altri sono i dialoghi del film), potrà comunque richiamare sia classici come La casa che alcuni episodi di AI confini della realtà, con la differenza che il taglio fumettistico/di intrattenimento dei succitati cede il passo ad un realismo concreto, mai esasperante (per intenderci, niente telecamere traballanti nè violenza gratuita di troppi pseudo-snuff). E se ancora non siete convinti di questa visione, considerate la grandissima qualità e nitidezza delle riprese e della fotografia, sempre pulita e modernamente sinistra. A questa qualità latente, poi, si aggiunga un’ulteriore trovata efficace: ovvero le due disgraziate sorelle che, nonostante si nascondano in vari anfratti, si vedono chiaramente e senza inutili misteri. Credo abbastanza convintamente che tanti altri film, più fiacchi, avrebbero insistito con suggerire la suggestione fino a stufare lo spettatore.

    Il tutto dovrebbe bastare a chiunque per trovare un’ottima scusa per gustarsi questa perla dell’orrore nostrano, passata un po’ sottogamba negli scorsi anni – e finalmente a disposizione del grande pubblico mediante Netflix.

    Curiosità: Oltre il guardo è una storia vera e/o è basato su una leggenda locale?

    Ha risposto il regista da Nocturno.it (riporto uno stralcio):

    La storia delle due gemelle maledette che infestano la zona, invece, ha come spunto una qualche leggenda popolare locale?

    No, però, sai, quando scrivi non inventi nulla di nuovo. Rielabori cose del tuo passato che ti hanno raccontato, che hai sentito, e quindi, involontariamente peschi dalla cultura locale popolare, sempre. Di rimando, c’è comunque quello che hai vissuto nella tua terra.

    Poi il fatto che la storia non dia tutte le risposte…

    Credo che sia questo il bello dell’orrore, che nei film horror non devi spiegare, secondo me, o almeno non in questi. Le gemelle possono anche essere state annegate ma non morte ed essere ancora lì, invecchiate, oppure possono essere dei demoni… mi piace il fatto che ognuno vada alla ricerca di una propria storia, di una propria idea. A me non interessava spiegare, se non introducendo i personaggi dei due anziani, cioè la memoria del vecchio, per dare un po’ di veridicità alle gemelle. Ma poi anche lui ha i ricordi sbiaditi, è tutta una cosa non spiegata che a me piace, e risulta realistico.

  • Donnie Darko: paradossi, alienazione, viaggi nel tempo

    Donnie Darko: paradossi, alienazione, viaggi nel tempo

    Problematiche sociali, viaggi nel tempo ed incomprensioni per l’incredibile storia di Donnie.

    In breve. Film splendido, enormemente sottovalutato: più discusso che visto, assolutamente da riscoprire.

    La storia di un adolescente americano contro un mondo che cerca di propinargli felicità a buon mercato. Se preferite, la parabola dell’incomprensione generazionale, dell’isolamento dell’individuo, del rifiuto dei dogmi, degli insegnamenti stereotipati per intraprendere la lunga – e non certo indolore – strada per costruire pratiche di vita a misura d’uomo, vivibili e reali. Il personaggio di Donnie, interpretato da un Jake Gyllenhaal ancora non noto come lo diventerà poi in seguito, è un po’ il simbolo di un qualcosa di archetipico: il nerd crepuscolare (cit.9 che viene isolato e represso dalla realtà, e sembra lasciarsi guidare nelle sue considerazioni dalla mistica e minacciosa figura di Frank. Personaggio dalla spiccata propensione alla ribellione contro il mondo esterno, ma sostanzialmente di indole buona si risveglia in un campo da golf con dei numeri scritti sul braccio: 28:06:42:12., che avviano un vortice di mistero e speculazioni di ogni genere non solo sul suo personaggio, ma anche sull’andamento della storia stessa. Rientrato a casa, infatti, si scopre che il ragazzo soffre di sonnambulismo, ed il caso ha voluto che uscendo da casa di notte sia scampato ad una morte orribile: il reattore di un aereo, del quale non si capisce la provenienza, è precipitato giusto nella sua stanza. Nel frattempo Donnie inizia a soffrire di allucinazioni, e vede Frank,un uomo che calza un grottesco costume da coniglio che sembrerebbe colui che gli ha salvato la vita.

    Scritto e diretto da Richard Kelly, Donnie Darko è un film ricco di suggestioni ed accenni quasi mai espliciti, che in altri contesti avremmo potuto definire puramente lynchiani. Di fatto, è uno dei tanti film basati sulle realtà alternative, una multi-narrazione che – alla lunga – potrebbe diventare ostica per molti spettatori, e potrebbe al tempo stesso affascinarne almeno altrettanti.

    Spiegazione del film

    L’idea di fondo, alla fine, è che gli stessi personaggi si muovano dentro almeno due realtà alternative, in cui la sliding door o elemento decisivo in favore dell’una o dell’altra sembra rappresentata dal reattore che si schianta sull’appartamento di Donnie, di cui verranno poi mostrate due possibilità (in un caso Donnie si salva perchè sonnambulo, nell’altro viene ucciso). Molti elementi dell’intreccio sono rimasti volutamente vaghi o indefiniti, e nessuno ha mai fatto chiarezza, mentre probabilmente chiunque guarderà il film si potrà fare un’idea precisa e molto personale.

    Probabilmente l’idea del regista è proprio quella di fornire degli spunti di riflessione, e che ogni spettatore possa farsi una propria idea in merito. Come in parte della produzione lynchiana più recente, è da focalizzare la figura del coniglio (che si ispira, a quanto pare, al film di animazione La collina dei conigli) come metafora della condizione umana, repressa tra mille vincoli e rappresentazione animalesca ed istintiva dell’uomo.

    Ma certo… il coniglio non è come noi. Non ha storia, libri, fotografie, non prova rimpianto o tristezza… e poi, mi scusi professoressa, a me piacciono i conigli, sono carini e arrapati, e quando uno è così è probabile che sia felice! Non si sa chi è, non si sa che cosa viva a fare, vuole solo fare sesso, quanto più sia possibile, prima di morire.

    C’è di tutto all’interno di Donnie Darko, a ben vedere: la teoria dei Wormhole (il reattore che precipita dallo spazio sembrerebe arrivare da lì), alcuni richiami alle teorie dell’astrofisico Stephen Hawking sui viaggi nel tempo, la creazione e dipanamento di varie dimensioni parallele, la curva spazio-temporale e la sua alterazione (e la possibilità di passarci all’interno) e così via.

    Da vedere almeno una volta nella vita in versione uncut (quella del DVD).

  • Uzumaki: le spirali mortali dirette da Higuchinsky

    Uzumaki: le spirali mortali dirette da Higuchinsky

    Un piccolo villaggio giapponese è ossessionato da una singolare allucinazione: spirali che appaiono nelle forme e nei modo più impensabili, portando alla morte gli abitanti che le vedono. Due ragazzi ed un giornalista si interessano al caso…

    In breve. Un horror giapponese macabro, originale e ben diretto, ricco di sorprese e colpi di scena.

    Lanciato da una tagline forse un po’ goffa e ridondante (“cosa si nasconde dietro il vortice infinito delle spirali?“), Uzumaki si ispira ad un manga omonimo che, all’epoca dell’uscita del film, non era ancora stato finito. Questo significa che il suo finale e le sue premesse sono state formalizzate in modo parzialmente indipendente dalla storia cartacea, il che finisce per essere più un pregio del film che altro.

    Molte scene con vortici in movimento (la spirale possiede una valenza ipnotica quando surreale, e si presta alle intepretazioni più svariate) sono state realizzate in digitale (quella del cielo, ad esempio), mentre altre sono puramente analogiche (la scena della modellazione della ceramica). In genere le spirali si ritrovano nei contesti più variegati ed imprevedibili: appaiono nelle decorazioni di un dolce, formano i capelli di una delle ragazze della scuola, appaiono negli occhi delle persone sempre più ossessionate dalle stesse – in genere ricalcano una paranoia abitudinaria che sembrerebbe molto fedele a quella del fumetto originale (riedito di recente dalla Star Comics in Italia).

    Hai detto che dovresti proteggermi, come se le cose girassero nel modo che tu vuoi. Se questo non è un sogno, le persone stanno morendo veramente. Questa città è maledetta da un vortice.

    Che si tratti di un film tratto da un manga, del resto, si intuisce dal tono vagamente didascalico della storia, che assume una valenza istruttiva e mostra la candida semplicità della protagonista a differenza del cinismo del mondo circostante. Come di consueto, poi, l’horror di questa nazionalità cede parecchi il passo ad un fatalismo di fondo, che caratterizza le circostanze di morte e che il più delle volte è inspiegabile e piuttosto esplicito. La principale causa di morte, comunque, è legata alle ossessioni morbose delle proprie vittime, attraverso incubi di vario ordine e grado (gli occhi che ruotano vorticosamente, le espressioni rassegnate ed assenti, la centrifuga della lavatrice, l’insetto strisciante che cerca di entrare nell’orecchio della donna durante il sonno, i lumaconi umanoidi). La componente horror aumenta con lo scorrere dei fotogrammi, e le uzumaki assomigliano ad una subdola maledizione senza un motivo vero e proprio, una sorta di demone interiore che invade la tranquillità del villaggio in cui è ambientata la storia, votata allo sterminio dell’umanità. Stesso motivo per cui ricorrono spesso nel film il 9 ed il 6, numeri che ricordano una spirale e che vengono inquadrati spesso da Higuchinsky (nome d’arte del regista Akiro Higuchi).

    Se le dinamiche narrative sono quelle classiche dell’horror orientale – da Abnormal Beauty a Ju-on – il film si dipana in modo piuttosto imprevedibile ed originale, formando così uno degli horror apocalittici più interessanti (e passati sottogamba) dei primi anni 2000.

  • Scappa – Get out: l’horror anti-razzista del nuovo millennio

    Scappa – Get out: l’horror anti-razzista del nuovo millennio

    Chris e Rose sono fidanzati da pochi mesi: lui è un aspirante fotografo afroamericano, lei una classica ragazza da college. I due decidono di trascorrere un fine settimana a casa dei genitori di lei: all’inizio sembrano simpatici, cordiali e (figuriamoci) non razzisti. La madre, in particolare, sostiene di poter curare il vizio del fumo del ragazzo ricorrendo all’ipnosi.

    In breve. Un saggio horror sul razzismo e le annesse implicazioni sociali odierne, con richiami ai grandi titoli del passato (da Society a La casa nera). Imperdibile.

    Girato in soli 23 giorni e, per quanto ne sappiamo, senza particolari pressioni produttive (è l’opera prima di Jordan Peele, che poi consacrerà la propria fama con il successivo Us), Get out si apre sulla falsariga di Halloween di John Carpenter, una gigantesca citazione al classico slasher (tanto che, secondo il regista, Michael Myers rappresenterebbe “il perfetto vicino di casa bianco“).

    Il soggetto è stato scritto da Peele stesso, che scrive una storia con alcuni punti in comune con Il fu signor Elvesham (un racconto di H. G. Wells del 1896, che è stato anche girato come episodio di una serie TV su Sky Arte). Nel farlo, il regista cristallizza alcuni punti di riferimento del cinema che ama – a cominciare da La notte dei morti viventi – e rielabora una storia che presenta una componente originale (l’uso massivo dell’ipnosi, una pratica da horror sovrannaturale in un film che più materialistico non si può) per un film che, in altri tempi, sarebbe stata pura exploitation. Varrebbe la pena di ricordare anche La casa nera, uno degli horror più sociali e meno citati di Wes Craven, con il quale ci sono vari punti di contatto dentro Get out.

    Scappa – Get out per inciso non è uno slasher – o almeno non lo è nella sua definizione canonica: è più un mix di generi che vanno dalle home invasion ai thriller più psicologici, senza dimenticare le lezioni degli horror più prettamente politici di Yuzna, Romero e Carpenter. In particolare si parla di razzismo, un male radicato nella società (non solo) americana, e che viene rappresentato grottescamente all’interno di salotti di lusso, giardini curatissimi, bianchi raffinati e apparentemente impeccabili ed una nota anomala, ovvero personaggi afro-americani vestiti come i personaggi di metà ottocento de La capanna dello zio Tom. A questo si aggiunge una progressiva invasività dei personaggi, che incrementa il disagio del protagonista e lo fa diventare una sorta di Billy attualizzato (l’indimenticabile horror di Yuzna Society).

    Scappa – Get out (un titolo che, per certi versi, potrebbe quasi fuorviare e far pensare ad una commedia pura, per quanto Peele lo abbia scelto come titolo per citare una frase abusata in qualsiasi horror) risulta un film moderno ed efficace, mai appesantito e mai didascalico – difetto comune, quest’ultimo, in questo sottogenere. Un genere che Peele reinventa quasi da zero, disseminando tra una scena inquietante e l’altra alcuni gustosi siparietti umoristici (black humour, in tutti i sensi) con personaggi sempre molto teatrali e caratterizzati. E senza polarizzare le posizioni, soprattutto, dato che i classici poliziotti insulsi che non credono alla storia denunciata dall’amico del protagonista sono, volutamente, tutti di colore. Un film, peraltro, molto equilibrato dal punto di vista visuale, contraddicendo la tendenza moderna di caricare la violenza fino all’estremo, con risultati spesso fuori target (penso ad esempio a Frontiers).

    Il film è del 2017, ed è stato scritto durante la prima presidenza di Barack Obama, periodo in cui sembrava che il razzismo fosse un qualcosa del passato – cosa poi tragicamente smentita dalle cronache recenti annesse al Black Lives Matter. La scena in cui il protagonista precipita nell’oblio, peraltro, nel Sunken Place (traducibile più o meno come il “luogo profondo”), è stata tanto toccante da scrivere che, per quanto dice lo stesso Peele, avrebbe pianto dopo averla riletta (ed è probabilmente il motivo “tecnico” per cui lo fa Chris). La spiegazione del Sunken Place resta forse poco ovvia e vale la pena spenderci due parole: è la dimensione in cui la voce black non viene ascoltata, nonostante ogni vittima urli la propria disperazione, ed è anche lo status in cui la società tutta è ormai diventata sorda al problema. Vale la pena citare la definizione fornita dall’Urban Dictionary, che recita più o meno “quando si vive in un totale stato di sonnolenza, soprattutto a riguardo ad una sistematica avversione nei confronti verso le ingiustizie razziali“. La rappresentazione di questa zona oscura è raggelante (quanto vagamente artigianale), e funziona alla grande: guardiamo attraverso gli occhi del protagonista, e lo vediamo precipitare nel vuoto dell’universo mentre la realtà, impressa su uno schermo TV, si allontana sempre di più.

    Chris e Rose, poi, sembrano la coppia perfetta: assertivo e mite lui, mentalmente aperta e dolce lei. Sembra il quadretto perfetto che prefigura la classica commedia leggera americana, a cominciare dai presupposti e dalle piccole gelosie che ne derivano. La Williams, in particolare, è tanto convincente da risultare archetipica (un personaggio che sembra tratto da un qualsiasi slasher che contrapponga giovani del college e villain di turno). Il disagio del ragazzo, comunque, già prevenuto di suo, si accentua una volta a casa di lei, dove scopre che i discorsi della famiglia di lei sono sempre più impertinenti e razzisti e che, soprattutti, tutti coloro che hanno il colore della pelle uguale al suo sembrano imbabolati e inermi. Peele gioca più volte la carta della sorpresa narrativa, rivolgendo un clamoroso messaggio anti-razzista rivolto a risvegliare le coscienze, a non addormentarsi e a non farsi condizionare dall’andazzo conformistico generale. lo stesso andazzo che dibatte di razzismo nei salotti radical chic, per poi arrivare a sminuire o negare il problema, alla meglio banalizzarlo e ricordurlo a forme di complottismo, vittimismo o paranoia.

    Peele suggerisce – e con Us finirà per ribadirlo – che il problema è tutt’altro che risolto, e che deve essere affrontato da tutti con grande coraggio (c’è una citazione abbastanza clamorosa durante la fuga di Chris: dentro l’auto che sta usando per scappare, infatti, trova un misterioso elmo medievale che, a quanto suggerisce IMDB, si ricondurrebbe alla frangia dei White Knights of the Ku Klux Klan). Peele dirige un gran film ricorrendo ad uno dei genere più flessibili e controversi per lanciare un messaggio del genere (l’horror), con buone idee, grande cultura cinematografica e una trama disseminata di twist sconvolgenti.

  • Blade Runner: la fantascienza filosofica di Ridley Scott

    Blade Runner: la fantascienza filosofica di Ridley Scott

    All’interno di una Los Angeles distopica nell’anno 2019, la tecnologia ha consentito di creare i “replicanti”, androidi o robot fortemente umanizzati, utilizzati per servire gli esseri umani e esteticamente non distinguibili da questi ultimi. Sei di essi, particolarmente evoluti e dotati di possente forza fisica, sono fuggiti dalle colonie extramondo e cercano di introdursi nella Tyrell Corporation, la fabbrica che li produce. Il poliziotto Deckard è sulle loro tracce.

    In breve. Suggestivo, sempre straordinario da rivedere e ricco di spunti, suggestioni onirico-futuristiche ed affascinanti ambiguità, mai veramente sciolte e oggetto di infinite fan theory. Chi sono gli umani, chi gli androidi? Quale valore assumono i ricordi nella vita dell’uomo? Forse, senza timore di esagerare, uno dei migliori film di fantascienza di tutti i tempi assieme a Brazil.

    Scrivere oggi di “Blade Runner“, indimenticabile capolavoro (che potremmo definire proto-cyberpunk) girato da Ridley Scott, rischia di ricadere inevitabilmente nella sterile ripetizione di concetti, idee e visioni futuristiche che hanno formato buona parte del cinema di fantascienza “colta”.

    L’analisi, che non può – in casi del genere – essere approssimativa in alcun modo, dovrebbe comunque basarsi su una duplice considerazione. Se da un lato infatti questo film ha stilato dei veri e propri canoni stilistici all’interno del cinema di fantascienza, dall’altro – senza nulla togliere a regia ed interpretazioni – è in effetti la storia di Philip Dick da cui è tratta ad avere gran parte della responsabilità del successo della pellicola. “Do Androids Dream of Electric Sheep?” (1968) poneva, in anticipo sui tempi, una tematica estremamente intrigante: se è umano amare, proteggere e relazionarsi con altri simili, cosa implica uccidere un androide che, in preda ad una “presa di coscienza” progressiva, si senta “vivo”?

    Bisogna rispondere a questa domanda formulandone molte altre, e questo potrebbe non piacere a chi concepisce la fantascienza in modo più orientato verso l’azione pura che altro. Il film possiede dunque la capacità di far immedesimare grandi fette di pubblico, e questo sia nella coscienza per così dire “organica” di alcuni protagonisti che in quella “artificiale” dei replicanti, rendono impossibile la chiarificazione definitiva dei ruoli di ognuno – è quasi certo che Deckard sia un replicante (forse…), e rimane vivido il fascino di lasciare questo interrogativo “appeso” fino all’estremo.

    Se si guarda Blade runner oggi, peraltro, va fatta una certa attenzione a procurarsi la director’s cut: la versione voluta dal regista con il finale ambiguo, mille volte più poetico e intrigante di quanto non sia la versione imposta dalla produzione, che forza fantozzianamente un happy end che, visto oggi, convince meno della metà del pubblico a cui era teoricamente rivolto. Il punto merita una breve digressione tanto per capirne il grottesco: dopo averci raccontato per quasi due ore che gli androidi vivono solo per pochi anni, tanto che sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa pur di diventare immortali (vedi la caccia al loro creatore, che vanno a stanare direttamente a casa per farsi rivelare il segreto della vita eterna), quel finale scellerato (che è lo stesso che potete vedere nella versione Amazon Video, per inciso) afferma, mediante un improbabile solipsismo di Deckard, che Rachael in realtà non era programmata per morire dopo quattro anni e che dovremmo goderci la vita, demolendo la simbologia fondamentale degli origami (l’unicorno e via dicendo) e di conseguenza, a nostro modesto avviso, uno dei capolavori del genere, rendendolo incoerente prima che melenso.

    Una scelta che risulta ancora peggio oggi, e per cui uno dovrebbe scusarsi con il cast a cominciare dal compianto Rutger Oelsen Hauer, scomparso giusto nel 2019 (per una macabra coincidenza, verrebbe da scrivere, tra la scomparsa del suo personaggio e dell’attore) e qui artefice di una delle sue interpretazioni più iconiche di ogni tempo. Il suo personaggio è un androide diventato dolorosamente consapevole di sè, in un processo psicologico di rinnovamento e ricerca del senso della vita che mai gli ingegneri genetici avrebbero potuto prevedere. E anche oggi, per restare sul pezzo, l’eco di Blade Runner risuona sinistramente nelle nostre coscienze, mentre rabbrividiamo nello scoprire che certe profezie del film si sono quasi avverate (i robot umanoidi sono una realtà, e riusciamo a creare video deepfake talmente realistici da ingannare anche i più esperti).

    In fondo il tratto distintivo di questo cult – uno dei film che possiede ben 7 cut differenti, tra Director’s, International e Final – è rappresentato essenzialmente dalla profondità dei topic che tira in ballo: questo è visibile non soltanto all’interno di ambientazioni metropolitane gigantesche e tutt’altro che a misura d’uomo, ma anche per via delle tematiche esistenzialiste che sono inserite nell’intreccio. È interessante la chiave visiva scelta da Ridley Scott, pure, che affianca al futurismo classico delle automobili che possono volare – il film è del 1982, ed è ambientato nel 2019 – il degrado dei bassifondi delle città, in cui troverai un ambiente fumoso, personaggi ambivalenti e poliziotti intenti a mangiare sushi. Una scelta che, anch’essa, è diventata profondamente iconica.

    https://www.youtube.com/watch?v=Wo3HpcRJxUg

    I replicanti, del resto – umanoidi che assumono le precise fattezze di esseri umani – non soltanto possono pensare, agire e vivere per quattro anni, ma si trasformano in autentici “oggetti” sia multimediali che biologici. È questa loro duplice natura che li rende i veri elementi tragici della storia, e ciò è visibile soprattutto nel momento in cui iniziano a porsi delle domande, a crescere mentalmente, ad interrogarsi sul presente. Oggetti, dunque, che sono consapevoli di esserlo e che sviluppano autonomamente sofferenza, disgusto e – di rabbioso controbalzo – desiderio di diventare immortali. Cosa ci sarà dato fare nell’arco della nostra breve vita? Ha davvero importanza se i ricordi ci sono stati impiantati artificialmente oppure sono frammenti di vita vissuta?

    La complessa simbologia scomodata da “Blade Runner“, di cui i celebri origami di Gaff sono soltanto la punta dell’iceberg, pone domande per il nuovo millennio che meriterebbero risposte fin troppo articolate. Risposte che si possono provare a cercare vedendolo ancora una volta, senza esitazioni.

    Per finire, un tutorial per emulare Gaff, e fare un origami a forma di unicorno.