PASSEGGIATE MENTALI_ (90 articoli)

  • Nuda per Satana: il surrealismo fuori dalle righe del 1974

    Nuda per Satana: il surrealismo fuori dalle righe del 1974

    Un medico ed una ragazza, subito dopo un incidente stradale, arrivano in un castello per cercare aiuto: quello che troveranno sarà decisamente surreale.

    In breve. Un horror-erotico dal registro non banale, con la capacità di impressionare giocando sui contrasti; almeno, nelle intenzioni. Alla prova dei fatti è una sublimazione settantiana del “so bad is so good“: un gotico-porno sul tema del doppio, con pretese surrealiste e abbastanza poco riuscito. Gli inserti hardcore gratuiti, l’insistere su dialoghi ostentatamente lirici, le nudità randomizzate smantellano quasi del tutto l’impianto. Per gli amanti del cinema bis può essere comunque una gradevole esperienza.

    Nuda per Satana rimane scolpito nell’immaginario cinefilo soprattutto per la sua storia, che vorrebbe essere un singolare esperimento tra horror ed erotico (alla Jess Franco, per intenderci), e che possiede poco terrore e troppo osè. Tanto per proporre qualcosa di diverso dalla solita elencazione di difetti, partirei proprio dalla parte erotica: quella che fa diventare il film “di cassetta”. Fin dal titolo, del resto, si intuisce di un legame con suggestioni liberatorie ed occulte, e questo viene preannunciato dalle primissime sequenze – nelle quali non si perde occasione per mostrare la Calderoni nuda, una vera e propria costante della pellicola (anche quando sarebbe tutt’altro che necessario).

    Si è molto discusso e sbeffeggiato questo lavoro(cosa che, personalmente, non accetto di fare quasi per nessun film) proprio a cominciare dagli inserti hardcore, che spiazzano il pubblico – e per ragioni tutto sommato lecite, che valsero il divieto ai minori, ovviamente. Del resto si tratta di un erotismo distaccato, da VHS, ostentatamente esibizionista quanto impacciato; in un bizzarro equilibrio tra nudo artistico e porno classico, un insolito sesso esplicito, a più riprese, finisce per padroneggiare le scene senza un vero motivo. Se si volesse cercare un difetto anche qui, dovremmo parlare di gestualità che – il più delle volte – emulano il piacere, e che (soprattutto oggi) appaiono molto poco coinvolgenti. Il sesso nel film è un comparto staccato dal resto, e a poco o nulla serve che venga raffigurato come momento onirico o liberatorio.

    Quello che manca più concretamente in Nuda per Satana, del resto, è un solido tessuto di connessione tra le scene hard ed il resto della storia: storia che, sebbene suggestiva dalle premesse, risulta fastidiosamente spezzettata in più punti, e dal ritmo troppo altalenante. Avrebbe forse funzionato se si fosse basata su una dichiarazione di intenti meno seriosa, come accade ad esempio in tanti film di Russ Mayer o Tinto Brass (per i quali il sesso è spesso delirante, ma è anche giocoso), o al limite nel divertimento citazionista del Rocky Horror Picture Show (che nomino perchè, probabilmente in modo incidentale, Nuda per Satana mi pare ne condivida alcuni snodi narrativi: l’incidente di una coppia, un maggiordomo grottesco, un padrone di casa dal singolare fascino, una ambientazione gotica surreale, vari personaggi disinibiti contrapposti a due protagonisti sessualmente inebetiti dalle convenzioni). Se la parte erotica fosse stata meno ostentata, pertanto, Nuda per Satana avrebbe (forse) meglio fatto da contraltare alla componente orrorifica: ma nemmeno quest’ultima componente funziona del tutto, e così il film ne risente in ogni singolo fotogramma. Spaventarsi in questo film, per intenderci, è piuttosto arduo, e lo è almeno quanto provare a pensarlo in qualche modo eccitante. Peccato, anche perchè – al netto del resto – le ambientazioni e la colonna sonora (un delirio psichedelico a suo modo memorabile) erano particolarmente azzeccate. E, per inciso, su questo genere si è visto molto, ma molto di peggio.

    L’idea dei “doppi”, del resto, e l’ambientazione surreale non erano niente male: siamo negli anni ’70, ed i richiami a combattere le convenzioni e la repressione sessuale erano all’ordine del giorno. Il periodo, le masturbazioni mentali dei critici d’epoca e il pubblico a caccia di erotismo facile li caldeggiavano parecchio, per cui potevano tranquillamente starci. Per dovere di cronaca, quindi, Batzella un onesto tentativo lo fa: riprese sulfuree, qualche inquadratura azzeccata (e molte curiosamente fuori asse), suggestive ambientazioni fumose ed un montaggio/effetti speciali che a volte funzionano … e a volte no (su tutti, i vestiti di Susan che spariscono “al volo” e l’indimenticabile ragno gigante, visibilmente finto).

    Il gioco regge ancora meno la prova del tempo, con un livello narrativo non lineare quanto non troppo curato, per non parlare delle interpretazioni discutibili di quasi tutti i personaggi – unica vera eccezione la protagonista, che sembra l’unica nel giusto feeling con la storia. C’è anche spazio per due doppi personaggi (Dr. William Benson / Peter e Susan Smith / Evelyn), e questo aumenta ulteriormente l’aura mitologica del film. Nonostante tutto, Nuda per Satana rimane un cult da riscoprire: ma questo solo per chi ritenga divertente seguire il delirante “flusso di coscienza” che accompagna la narrazione, quei primi piani inspiegabili, le criptiche riflessioni dei personaggi (che vorrebbero sembrare saggi esistenzialisti, ma non lo sono), e la filosofia misticheggiante che dovrebbe accompagnare il tutto. A suo modo, un film da ricordare.

  • The void: l’horror enciclopedico e autocelebrativo di Gillespie e Kostanski, bello quanto dimenticabile

    The void: l’horror enciclopedico e autocelebrativo di Gillespie e Kostanski, bello quanto dimenticabile

    Un agente di polizia trova per strada una persona ferita, in apparente stato confusionale: una volta recatisi in ospedale, si accorge che l’edificio è stato circondato da varie figure incappucciate.

    In breve. Un horror difficile da giudicare: se gran parte del mood è positivo, e la regia sembra convinta quanto originale, il film sembra perdersi in digressioni splatter fini a se stesse, che  poco danno e poco tolgono, oltre che tendono a far perdere di vista il focus della trama. Si racconta di una intrigante “discesa negli inferi”, fin troppo sentita, quasi certamente già vista.

    Finanziato da un crowdfunding su Indiegogo (budget complessivo di 82,510 dollari), paraculisticamente annunciato “dallo stesso produttore di The Vvitch” e realizzato con massiccio uso di CGI, viene lanciato da una consueta tagline minacciosa ed espressiva: “C’è un inferno, e questo è peggio“.

    In effetti si intuisce da subito che ci sia poco da “scherzare”, in termini di credibilità della trama e di caratterizzazione dei personaggi, fin da subito sinistri, minacciosi e dal tipico modo di fare nichilista e sbrigativo già visto in decine di survival horror. Non ci vuole troppo, poco dopo, perchè la narrazione evolva nello splatter più esplicito che si possa concepire, schizzando in modo imprevedibile su vari registri e prefigurando uno scenario che evoca sia La cosa (l’essere mostruoso che usa corpi umani per replicarsi) che (in parte) Distretto 13 – Le brigate della morte (lo scenario claustrofobico e i personaggi che, come già nell’altro, non si fidano l’uno dell’altro, e ricorrono a strategie di sopravvivenza improvvisate quanto “romeriane” – La notte dei morti viventi è proprio il film che guarda uno dei ricoverati in ospedale, per inciso).

    Vedo un mostro che si vede Dio. Io ho sfidato Dio!

    Una cosa è certa: in questi casi è fin troppo comodo per qualsiasi recensore evocare i racconti di H. P. Lovecraft, cosa che ha reso accettabile qualsiasi film fuori dalle righe, irrazionale e multi-dimensionale, arricchito da orrori extraterrestri e dimensioni parallele in cui i personaggi rimangono intrappolati. Cosa piuttosto sbrigativa, in questo caso e che un film del genere a mio parere non giustifica del tutto: non fosse altro che sembra partire con determinate intenzioni, per poi evolvere su ben altro, sequenziando le varie scene in una maniera abbastanza subdola e poco prevedibile, quasi da sembrare inintelleggibile. The void evoca vari sottogeneri e in fondo non è un horror vero e proprio, proprio perchè sembra, in più momenti, un collage di idee diverse tra loro, messe insieme con entusiasmo (senza dubbio) ma in modo non sempre chiarissimo, mediante trovate a volte azzeccate (le creature che covano la propria stirpe violando corpi umani) altre meno (certe dinamiche in cui la gente si ritrova sgozzata quasi senza sapere come o perchè).

    E se le sequenze più cruente mi hanno ricordato Hellraiser (nuovi supplizianti che promettono vita eterna, in risposta al sempiterno dramma della morte di un figlio, per cui varrebbe la pena evocare film inossidabili come Don’t look now), l’aspetto di alcuni personaggi non ho potuto che ricordarmi (almeno per qualche istante) il moloch visto ne La fortezza, uno degli horror ottantiani potenzialmente più belli (e altrettanto incompiuti) mai visti su uno schermo.

    In definitiva The void è un horror compatto e relativamente convincente, che pero’ presenta il difetto sostanziale di proporre più forma che sostanza, preso com’è dall’entusiasmo e dalla briga di citare didascalicamente i classici del genere. Sia chiaro che il gioco del cinema passa anche questo genere di trovate, che possono rasentare la vera e propria manìa autocelebrativa senza sfigurare: ma se questo, come secondo me accade, finisce per far perdere di vista il focus (al punto che i personaggi sembrano soltanto sciocchi burattini destinati alla morte), ovvero un insieme di (stereo)tipi da survival horror, in cui si lotta per la sopravvivenza senza sapere cosa-cazzo-succede, chiaro che le valutazioni troppo entusiastiche dovrebbero essere messe aprioristicamente al bando. Pare anche che i registi abbiano invitato il pubblico a farsi un’idea personale sulla storia, lasciando volutamente molti riferimenti non specificati, e ciò rende The void un film horror sperimentale a pieno titolo, per cui potrebbe avere un senso l’ennesima rivalutazione incensatrice tra una ventina d’anni circa (e buon divertimento a chi lo riscoprirà, dato che adesso non ce la possiamo fare).

    Un film del genere è anche puramente carpenteriano, lo è così tanto (soprattutto nella scena clou del “regolamento di conti”) che è impossibile non pensare a Il signore del male, con i suoi riferimenti ad un’altra dimensione oscura e ad un futuro minaccioso quanto imprecisabile. C’è anche una setta di mezzo (l’elemento cardine di ogni horror moderno, a quanto pare, deve essere sempre una setta), figure incappucciate con un triangolo nero al posto del viso che potrebbe ricordare, per certi versi, i guardiani del citatissimo Squid Game in voga su Netflix (The void è disponibile su Amazon Video, per inciso).

    E quel finale che ha lasciato tanti di stucco, allora, che spiegazione ha? Impossibile provare a dare indizi senza considerare un precedente celebre di cui, per la veritá, non si fa esplicita menzione, ma qualche recensore si è accorto lo stesso. Il finale di The void sembra infatti calcare apertamente quello, altrettanto surreale, de L’aldilà di Lucio Fulci, giusto con più mezzi visuali e un mood più rassicurante: come a dire che i due personaggi sono assieme, per sempre, più o meno al sicuro, in un mondo extrasensoriale che potrebbe essere l’aldilà, appunto, che si svelerà al momento della morte. Vale la pena di ricordare la frase che chiude il capolavoro fulciano, guarda caso anch’esso ambientato parzialmente in un ospedale, ovvero: E ora affronterai il mare delle tenebre, e ciò che in esso vi è di esplorabile.

    E dagli anni ottanta per il momento è tutto.

    Dalla parte di The void, e in favore di una valutazione mediamente positiva, muove anche la sua brevità, il suo non tirarla per le lunghe, la sua capacità di far switchare i personaggi da una situazione normale ad una extra-ordinaria senza perdere colpi, ambientazione, dettagli o (per dirla con una parola semplice quanto poco utilizzata in ambito horror) credibilità. Ma c’è anche quell’effetto “minestrone” – Minestrone Valle dei Morti, probabilmente – a cavallo su più fronti, pronto a restare sul pezzo e assumere ora la parvenza del nuovo Inferno, poco dopo chissà che altro. Il tutto, insomma, rende davvero difficile per lo spettatore comprendere a che punto della trama si sia arrivati, con il dilemma di spalancare la porta della noia, quasi in corrispondenza del momento in cui un portale extradimensionale si apre sullo schermo.

    Non che The void sia un brutto horror, anche perché scrivere una cosa del genere sarebbe ingiustificato: ma non è nemmeno il film da riscoprire di cui molti hanno scritto, anche perché denota un limite evidente a livello narrativo per cui la sceneggiatura avrebbe fatto meglio ad ispirarsi seriamente a Lovecraft, invece che lasciarlo come riferimento vago (e sia pur riconoscendo l’evidente conoscenza dei classici che i due registi hanno sfoggiato). Non ci sono solo Lovecraft e Carpenter in The void: ci sono anche Lucio Fulci, Clive Barker, forse addirittura Dario Argento e Michele Soavi, per non parlare di George Romero e dei suoi immarcescibili morti viventi. Oltre un certo limite, è veramente troppo per poter osannare un vero e proprio capolavoro, senza limitarsi  – in modo più equilibrato, secondo noi – a constatare che questo film sia proprio come quello di Michael Mann: un potenziale capolavoro che vive di incompiutezza, questa volta ingiustificata rispetto alla situazione in cui si trovava il regista statunitense.

    Un horror canadese da vedere per curiosità, senza dubbio, con la certezza di non assistere al consueto delirio randomico di psicopatici e vittime urlanti, ma che rischia lo stesso di farsi dimenticare con la stessa velocità con cui si guarda, al netto degli entusiasmi che provocano determinate sequenze e alla sensazione positiva che accompagna gran parte della sua visione. Manca qualcosa, e non riusciamo a saperne di più: lo guardiamo, e tanto basta.

  • Schramm: l’horror violento e insostenibile di Buttgereit

    Schramm: l’horror violento e insostenibile di Buttgereit

    Retrospettiva autobiografica di Lothar Schramm, un tassista ed insospettabile serial killer che sta morendo: mediante una serie di flashback vediamo la sua vita e le sue allucinazioni ossessive.

    In breve. Un altro tassello di horror del regista Buttgereit, solo apparentemente più “amichevole” nel formato (rispetto ad altre digressioni filosofico-esistenziali di altri film); nonostante questo, il film è una autentica mazzata in quanto a ferocia ed effetti espliciti.

    Appare difficile dare un giudizio certo su questo Schramm, uno dei film più lineari di Buttgereit ma, al tempo stesso, tutt’altro che appetibili nella forma, quasi sempre esplicita e priva di allusioni: la storia di Lothar si prefigura quasi come una favola nera, con un uomo timido e impacciato segretamente innamorato della vicina che fa la prostituta. Utilizzando un sapiente uso della telecamera ed effetti speciali forse un po’ datati ma, al tempo stesso, decisamente realistici e disgustosi, Schramm esplicita la filosofia esistenzialista del regista, tanto da far sembrare ogni nudità corporea corrispondente ad un’ossessione o perversità, capace di travolgere il protagonista in un vortice di orrore. Alla base di tutto, una frustrazione latente ed un senso di forte inadeguatezza per il mondo reale (“Sono seduto in classe, l’insegnante sta camminando su e giù mentre detta qualcosa. Improvvisamente realizzo che sono completamente nudo. Mi guardo intorno molto intimorito che qualcuno possa averlo visto, quindi lentamente, con attenzione faccio scivolare la mia mano fra le mie cosce ma non c’era niente, assolutamente niente“).

    Girato in 16mm per imprimere un maggiore realismo, il formato diventa anche una scusa per mostrare le peggiori efferatezze senza pietà, comprese sequenze di masochismo davvero estreme e difficilmente visibili in qualsiasi altro horror (quella sul pene, soprattutto, visibile in primo piano perchè lo stile di Buttgereit questo impone). Numerosi i riferimenti ad altri serial killer, su tutti il Lipstick Killer (il killer del rossetto) e qualche riferimento a Jeffrey Dahmer, morto un anno dopo l’uscita del film. Se il primo è noto soprattutto per via della sua ossessione feticista per la collezione di oggetti personali delle sue vittime, quasi sempre di sesso femminile, il secondo lo fu per gli atti di particolare ferocia sulle proprie vittime, aspetto da cui Schramm non è certamente esente. Tuttavia è evidente come Buttgereit abbia sviluppato indipendentemente i caratteri del suo personaggio, facendolo vivere di vita propria e di una certa imprevedibilità.

    La patologia da cui è affetto Schramm è un disturbo antisociale di personalità, caratterizzato da un disprezzo patologico per le regole e le leggi della società, dall’incapacità di assumersi responsabilità e dall’indifferenza e dalla mancanza di senso di colpa nei confronti degli altri, pur soffrendo di base un forte senso di solitudine (che potrebbe un po’ essere la chiave di lettura globale del film). Una forma di schizofrenia che affligge il protagonista, quindi, che appare come vittima e carnefice fin dall’inizio: sappiamo che sta per morire, la sua morte sarà completamente accidentale e quello che vediamo è solo un flashback del suo passato, di come è arrivato lì. Al tempo stesso, il secondo vero personaggio della storia, la prostituta vicina di casa – che sembra più compatirlo e sfruttarlo che esserne realmente attratta, fa emergere tutte le sue debolezze in modo esplicito, ed è questo che causa prima la sua reazione in un climax di ferocia (dall’usare una bambola gonfiabile ad auto-mutilarsi) che poi culmina in ennesimi omicidi.

    Schramm in tal senso è un film decisamente esplicito e davvero per stomaci forti, non annoia e non rischia in nessun caso – se non altro – di lasciare indifferente lo spettatore.

  • Inseparabili di David Cronenberg affronta il tema del doppio e della scissione

    Inseparabili di David Cronenberg affronta il tema del doppio e della scissione

    Beverly e Elliot Mantle (Jeremy Irons) sono due gemelli che condividono, oltre ad un’insana passione per la chirurgia, letteralmente tutti gli aspetti della propria vita, compresi quelli legati al sesso; il film racconta il processo di distacco da parte di uno dei due e la rovina che travolgerà entrambi…

    In due parole. Cronenberg mette in cascina l’horror puro per concentrarsi sugli aspetti più oscuri della personalità, in particolare sul senso di solitudine (mostrato come meccanismo fondamentalmente auto-indotto) e sulla dipendenza interpersonale che sfocia, come da copione, in tragedia. Il tutto con la freddezza e la determinazione di un chirurgo di fronte ad un tavolo operatorio.

    “Il dolore provoca distorsione del carattere… semplicemente, non è necessario”

    Ispirandosi alla storia vera dei gemelli Marcus (1975), David Cronenberg sviluppa il tema del doppio innestando nell’intreccio svariati dettagli medico-ginecologici. Essi simboleggiano, con più forza rispetto al passato, le mutazioni della personalità degli individui, e fanno assumere all’interiorità delle persone una valenza letteralmente organica. La ricerca del grande regista canadese prosegue così nelle consuete direzioni, ed il romanzo “Gemelli” di Wood e Geasland offre un’opportunità  ulteriore per approfondire le più amate tematiche: la mutazione della carne che si riflette sulla personalità, il desiderio e la paura della maternità oltre, ovviamente, all’incubo della separazione di ciò che ha vissuto sempre in simbiosi. Nonostante la storia dei due protagonisti – un Jeremy Irons indimenticabile – proceda inizialmente di pari passo, uno dei due fratelli (quello “buono”, Beverly) svilupperà progressivamente una forma di schizofrenia che si ripercuoterà anche sull’altro.

    Questo distacco viene simboleggiato in modo eccellente dalla scena dell’incubo di Beverly, che vede Claire – la donna che hanno condiviso a sua insaputa – strappare il cordone ombelicale che li unisce con un morso (auto-citazione di Brood). Il film si incentra di fatto sulla definizione di tre personaggi: Beverly, fragile e sensibile, Elliot, cinico e calcolatore e Claire, donna “mutante” poichè dall’utero triforcuto (la quale diventerà presto causa della forte depressione del primo). L’unica debolezza di Elliot è proprio legata al destino del fratello, il quale si mostra talmente convinto e fedele alla propria scienza (La mosca) da idolatrare la tecnologia (Videodrome) e realizzare degli strumenti chirurgici ex-novo, che si possano adattare per l’appunto ai corpi di mutanti.

    Il tutto fino alla poetica, paurosa e romantica scena finale, nella quale il processo di simbiosi finalmente si materializza. Uno dei Cronenberg meno scontati, più lunghi e più complessi in assoluto, non tutto il pubblico riuscirà a seguire ogni dettaglio, ma ne vale davvero la pena.

  • Stalker è il film di Tarkovsky più accessibile

    Stalker è il film di Tarkovsky più accessibile

    In un futuro prossimo gli Stalker (misteriosi individui conoscitori di un luogo tra il mito e la realtà noto come “Zona”) si offrono come guide per condurre le persone in una stanza: tale stanza, da quello che si sa, è in grado di soddisfare i desideri più segreti delle persone che ci vanno.

    In breve. La fantascienza – del tutto priva di effetti speciali, qui profondamente atipica e concettuale –  di Tarkovsky trova in Stalker una delle migliori espressioni mai realizzate. Il risultato è un film d’autore dall’incedere lento e coinvolgente, ricco di spunti riflessivi e sociologici sulla natura umana.

    Stalker parte dalla spedizione di tre personaggi mai chiamati coi loro nomi (il Professore, lo Scrittore e lo Stalker), che si lasciano trasportare in un singolare viaggio alla ricerca della Zona: un territorio dai tratti misteriosi, in grado di soddisfare i desideri più profondi di chiunque riesca ad arrivarci. Non sembra difficile, in questo, rilevare una metafora dell’esistenza e della sua piena realizzazione, al di là delle numerose speculazioni in merito (molto fantasiose e di cui diffidare a prescindere, secondo me). Del resto lo stesso regista si è pronunciato chiaramente in merito e basta anche una ricerca veloce sul web per convincersene (ma anche dal libro del regista Scolpire il tempo: “La Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero“). Sembra insomma che il messaggio da cogliere per lo spettatore sia legato alla mutevolezza dell’esistenza ed al suo saperne cogliere gli aspetti davvero importanti, specialmente nei momenti di profonda crisi (che in effetti accomunano la totalità dei personaggi presentati): per dirla con le parole del film, “rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza“.

    Nella Zona, significativamente – anche se non sarà facile per chiunque cogliere questo aspetto – sembra non esserci letteralmente nulla (gli americani avrebbero infarcito la narrazione quantomeno di un goblin o di un Predator qualsiasi): qui invece, coerentemente con un film più auto-riflessivo che altro, cambiano soltanto i colori, i quali mutano dal grigiore della “zona seppia” rappresentata come punto di partenza delle vicende ad un vivido colore. Eppure, in conclusione del film, i tre viaggiatori sembrano vittime di un radicalemte ripensamento, e decidono di tornare sui propri passi – questo in aperta contraddizione con quanto si fossero ripromessi dall’inizio. Il senso vero di lavori del genere è che devono essere visti almeno una volta nella vita, in quanto lavori seminali del genere oppure anche solo perchè hanno finito per dare nuovo senso al cinema d’autore.

    Stalker (in russo Сталкер) mostra la figura di un’enigmatica figura di stalker (Aleksandr Kaidanovsky) che conduce uno Scrittore alcolizzato e depresso (Anatoli Solonitsyn) a trovare nuova ispirazione ed un Professore (Nikolai Grinko) a fare finalmente la ricerca definitiva per poter vincere il premio Nobel.  La Zona, in questo, rappresenta l’obiettivo che accomuna le ansie e le paure dei tre personaggi, tanto più che già nelle prime battute Stalker dice chiaramente alla moglie di stare fuggendo da una prigione (quella esistenziale). Il viaggio è lungo, e due ore e mezza sono abbastanza per proporre allo spettatore vari spunti di discussione sull’esistenza, a volte affidati ad una voce fuori campo, altri ai profondi dialoghi tra i tre personaggi.

    Stalker è anche il film lento per eccellenza: basti pensare che non c’è alcun dialogo nei primi 9 minuti e mezzo di film. L’uso della parola stalker (da tradurre nel senso di inseguitore) è tratto dal romanzo a cui si è ispirato il regista (Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugatski), a cui il regista si è ispirato per concepire il proprio film. Nel libro il termine stalker era utilizzato come nomignolo per indicare uomini impegnati nelle attività illegali di procurare e contrabbandare manufatti alieni fuori dalla Zona, senso che sembra essere rimasto sostanzialmente identico nel film.

    Al netto delle innate lungaggini stilistiche di Tarkovsky, con un certo insistere sui paesaggi e sull’ambientazione generale (cosa che, in verità, non stanca neanche troppo), Stalker è un film semplicemente perfetto: prima di tutto nella sua curatissima fotografia, e nella scelta di virare su due tonalità di colore distinte per ogni parte del film (seppia nella parte iniziale, colore pieno per la Zona).

    Peraltro la Zona sembra che sia stata ambientata in una zona contaminata da un incidente nucleare nella metà degli anni ’50, motivo per cui almeno tre persone dello staff sul posto perderanno la vita anni dopo (tra cui la seconda moglie del regista, xxx). Lo schema narrativo è talmente libero, in questa fase, che risulta anche difficile proporre vere e proprie interpretazioni, e addirittura sembra un azzardo provare a scriverci qualcosa di sensato – anche per via di molti riferimenti mistici a San Pietro ed agli ebrei. Di sicuro la struttura narrativa non sembra dissimile dal celebre cult Il mago di Oz (1939), nel quale assistiamo (anche in quel caso) ad un viaggio che condurrà i protagonisti a cercare un posto in cui realizzare i propri desideri. Che ciò avvenga sul serio o meno, del resto, in Stalker non sembra essere detto con chiarezza; e non sembra neanche sensato cercare una spiegazione logica o razionale, dato che il regista stesso ha invitato a vederlo con lo spirito di un viaggiatore che si rechi in posti mai visti prima (My ideal viewer watches a movie like a traveler observes the country he is visiting).

    Stalker è da qualche tempo disponibile gratuitamente sul web (audio originale russo sottotitolato) grazie all’iniziativa di OpenCulture.