PASSEGGIATE MENTALI_ (90 articoli)

  • Uzumaki: le spirali mortali dirette da Higuchinsky

    Uzumaki: le spirali mortali dirette da Higuchinsky

    Un piccolo villaggio giapponese è ossessionato da una singolare allucinazione: spirali che appaiono nelle forme e nei modo più impensabili, portando alla morte gli abitanti che le vedono. Due ragazzi ed un giornalista si interessano al caso…

    In breve. Un horror giapponese macabro, originale e ben diretto, ricco di sorprese e colpi di scena.

    Lanciato da una tagline forse un po’ goffa e ridondante (“cosa si nasconde dietro il vortice infinito delle spirali?“), Uzumaki si ispira ad un manga omonimo che, all’epoca dell’uscita del film, non era ancora stato finito. Questo significa che il suo finale e le sue premesse sono state formalizzate in modo parzialmente indipendente dalla storia cartacea, il che finisce per essere più un pregio del film che altro.

    Molte scene con vortici in movimento (la spirale possiede una valenza ipnotica quando surreale, e si presta alle intepretazioni più svariate) sono state realizzate in digitale (quella del cielo, ad esempio), mentre altre sono puramente analogiche (la scena della modellazione della ceramica). In genere le spirali si ritrovano nei contesti più variegati ed imprevedibili: appaiono nelle decorazioni di un dolce, formano i capelli di una delle ragazze della scuola, appaiono negli occhi delle persone sempre più ossessionate dalle stesse – in genere ricalcano una paranoia abitudinaria che sembrerebbe molto fedele a quella del fumetto originale (riedito di recente dalla Star Comics in Italia).

    Hai detto che dovresti proteggermi, come se le cose girassero nel modo che tu vuoi. Se questo non è un sogno, le persone stanno morendo veramente. Questa città è maledetta da un vortice.

    Che si tratti di un film tratto da un manga, del resto, si intuisce dal tono vagamente didascalico della storia, che assume una valenza istruttiva e mostra la candida semplicità della protagonista a differenza del cinismo del mondo circostante. Come di consueto, poi, l’horror di questa nazionalità cede parecchi il passo ad un fatalismo di fondo, che caratterizza le circostanze di morte e che il più delle volte è inspiegabile e piuttosto esplicito. La principale causa di morte, comunque, è legata alle ossessioni morbose delle proprie vittime, attraverso incubi di vario ordine e grado (gli occhi che ruotano vorticosamente, le espressioni rassegnate ed assenti, la centrifuga della lavatrice, l’insetto strisciante che cerca di entrare nell’orecchio della donna durante il sonno, i lumaconi umanoidi). La componente horror aumenta con lo scorrere dei fotogrammi, e le uzumaki assomigliano ad una subdola maledizione senza un motivo vero e proprio, una sorta di demone interiore che invade la tranquillità del villaggio in cui è ambientata la storia, votata allo sterminio dell’umanità. Stesso motivo per cui ricorrono spesso nel film il 9 ed il 6, numeri che ricordano una spirale e che vengono inquadrati spesso da Higuchinsky (nome d’arte del regista Akiro Higuchi).

    Se le dinamiche narrative sono quelle classiche dell’horror orientale – da Abnormal Beauty a Ju-on – il film si dipana in modo piuttosto imprevedibile ed originale, formando così uno degli horror apocalittici più interessanti (e passati sottogamba) dei primi anni 2000.

  • Scappa – Get out: l’horror anti-razzista del nuovo millennio

    Scappa – Get out: l’horror anti-razzista del nuovo millennio

    Chris e Rose sono fidanzati da pochi mesi: lui è un aspirante fotografo afroamericano, lei una classica ragazza da college. I due decidono di trascorrere un fine settimana a casa dei genitori di lei: all’inizio sembrano simpatici, cordiali e (figuriamoci) non razzisti. La madre, in particolare, sostiene di poter curare il vizio del fumo del ragazzo ricorrendo all’ipnosi.

    In breve. Un saggio horror sul razzismo e le annesse implicazioni sociali odierne, con richiami ai grandi titoli del passato (da Society a La casa nera). Imperdibile.

    Girato in soli 23 giorni e, per quanto ne sappiamo, senza particolari pressioni produttive (è l’opera prima di Jordan Peele, che poi consacrerà la propria fama con il successivo Us), Get out si apre sulla falsariga di Halloween di John Carpenter, una gigantesca citazione al classico slasher (tanto che, secondo il regista, Michael Myers rappresenterebbe “il perfetto vicino di casa bianco“).

    Il soggetto è stato scritto da Peele stesso, che scrive una storia con alcuni punti in comune con Il fu signor Elvesham (un racconto di H. G. Wells del 1896, che è stato anche girato come episodio di una serie TV su Sky Arte). Nel farlo, il regista cristallizza alcuni punti di riferimento del cinema che ama – a cominciare da La notte dei morti viventi – e rielabora una storia che presenta una componente originale (l’uso massivo dell’ipnosi, una pratica da horror sovrannaturale in un film che più materialistico non si può) per un film che, in altri tempi, sarebbe stata pura exploitation. Varrebbe la pena di ricordare anche La casa nera, uno degli horror più sociali e meno citati di Wes Craven, con il quale ci sono vari punti di contatto dentro Get out.

    Scappa – Get out per inciso non è uno slasher – o almeno non lo è nella sua definizione canonica: è più un mix di generi che vanno dalle home invasion ai thriller più psicologici, senza dimenticare le lezioni degli horror più prettamente politici di Yuzna, Romero e Carpenter. In particolare si parla di razzismo, un male radicato nella società (non solo) americana, e che viene rappresentato grottescamente all’interno di salotti di lusso, giardini curatissimi, bianchi raffinati e apparentemente impeccabili ed una nota anomala, ovvero personaggi afro-americani vestiti come i personaggi di metà ottocento de La capanna dello zio Tom. A questo si aggiunge una progressiva invasività dei personaggi, che incrementa il disagio del protagonista e lo fa diventare una sorta di Billy attualizzato (l’indimenticabile horror di Yuzna Society).

    Scappa – Get out (un titolo che, per certi versi, potrebbe quasi fuorviare e far pensare ad una commedia pura, per quanto Peele lo abbia scelto come titolo per citare una frase abusata in qualsiasi horror) risulta un film moderno ed efficace, mai appesantito e mai didascalico – difetto comune, quest’ultimo, in questo sottogenere. Un genere che Peele reinventa quasi da zero, disseminando tra una scena inquietante e l’altra alcuni gustosi siparietti umoristici (black humour, in tutti i sensi) con personaggi sempre molto teatrali e caratterizzati. E senza polarizzare le posizioni, soprattutto, dato che i classici poliziotti insulsi che non credono alla storia denunciata dall’amico del protagonista sono, volutamente, tutti di colore. Un film, peraltro, molto equilibrato dal punto di vista visuale, contraddicendo la tendenza moderna di caricare la violenza fino all’estremo, con risultati spesso fuori target (penso ad esempio a Frontiers).

    Il film è del 2017, ed è stato scritto durante la prima presidenza di Barack Obama, periodo in cui sembrava che il razzismo fosse un qualcosa del passato – cosa poi tragicamente smentita dalle cronache recenti annesse al Black Lives Matter. La scena in cui il protagonista precipita nell’oblio, peraltro, nel Sunken Place (traducibile più o meno come il “luogo profondo”), è stata tanto toccante da scrivere che, per quanto dice lo stesso Peele, avrebbe pianto dopo averla riletta (ed è probabilmente il motivo “tecnico” per cui lo fa Chris). La spiegazione del Sunken Place resta forse poco ovvia e vale la pena spenderci due parole: è la dimensione in cui la voce black non viene ascoltata, nonostante ogni vittima urli la propria disperazione, ed è anche lo status in cui la società tutta è ormai diventata sorda al problema. Vale la pena citare la definizione fornita dall’Urban Dictionary, che recita più o meno “quando si vive in un totale stato di sonnolenza, soprattutto a riguardo ad una sistematica avversione nei confronti verso le ingiustizie razziali“. La rappresentazione di questa zona oscura è raggelante (quanto vagamente artigianale), e funziona alla grande: guardiamo attraverso gli occhi del protagonista, e lo vediamo precipitare nel vuoto dell’universo mentre la realtà, impressa su uno schermo TV, si allontana sempre di più.

    Chris e Rose, poi, sembrano la coppia perfetta: assertivo e mite lui, mentalmente aperta e dolce lei. Sembra il quadretto perfetto che prefigura la classica commedia leggera americana, a cominciare dai presupposti e dalle piccole gelosie che ne derivano. La Williams, in particolare, è tanto convincente da risultare archetipica (un personaggio che sembra tratto da un qualsiasi slasher che contrapponga giovani del college e villain di turno). Il disagio del ragazzo, comunque, già prevenuto di suo, si accentua una volta a casa di lei, dove scopre che i discorsi della famiglia di lei sono sempre più impertinenti e razzisti e che, soprattutti, tutti coloro che hanno il colore della pelle uguale al suo sembrano imbabolati e inermi. Peele gioca più volte la carta della sorpresa narrativa, rivolgendo un clamoroso messaggio anti-razzista rivolto a risvegliare le coscienze, a non addormentarsi e a non farsi condizionare dall’andazzo conformistico generale. lo stesso andazzo che dibatte di razzismo nei salotti radical chic, per poi arrivare a sminuire o negare il problema, alla meglio banalizzarlo e ricordurlo a forme di complottismo, vittimismo o paranoia.

    Peele suggerisce – e con Us finirà per ribadirlo – che il problema è tutt’altro che risolto, e che deve essere affrontato da tutti con grande coraggio (c’è una citazione abbastanza clamorosa durante la fuga di Chris: dentro l’auto che sta usando per scappare, infatti, trova un misterioso elmo medievale che, a quanto suggerisce IMDB, si ricondurrebbe alla frangia dei White Knights of the Ku Klux Klan). Peele dirige un gran film ricorrendo ad uno dei genere più flessibili e controversi per lanciare un messaggio del genere (l’horror), con buone idee, grande cultura cinematografica e una trama disseminata di twist sconvolgenti.

  • Society – The horror è una metafora del mondo in cui viviamo

    Society – The horror è una metafora del mondo in cui viviamo

    Billy è di famiglia benestante nell’America di fine anni ’80: dovrebbe essere felice, godersi le sue giornate spensieratamente e passare le notti con le donne più belle di Beverly Hills. Eppure qualcosa lo turba, non dialoga coi genitori, vive ambiguamente i propri rapporti ed è tormentato da paure inspiegabili. Un orrore incredibile sta per spalancare le porte contro di lui..

    In due parole. Prima parte da telefilm, seconda grand guignol a coronare un notevole horror satirico di Yuzna contro l’ipocrisia della società capitalistica.Una delle chicche orrorifiche (e più politicizzae di sempre) del cinema americano anni ’90.

    Già John Carpenter aveva espresso con grande maestria il rapporto conflittuale tra sfruttati e sfruttatori nel mondo degli yuppie, basandosi sulle fondamenta degli zombi mai troppo compresi di George Romero. Yuzna, sceneggiatore promettente di splatter inquientanti e fan di Lovecraft della prima ora, decide di girare una sostanziale satira contro il mondo finto ed ipocrita della borghesia americana. Il soggetto fu firmato da Woody Keith e Rick Fry, e crea i presupposti – grazie ad una regia solida e ad effetti speciali da manuale – per un film divertente e pauroso al tempo stesso, forse non sempre ben interpretato ma con varie “macchiette” davvero irresistibili. Lo spettatore passa mezzo film a chiedersi cosa veda Billy, se si tratti di paranoia o chissà che altro: le conclusioni horror probabilmente oggi appaiono scontate, ma si tratta pur sempre di un’idea originalissima, e mai realizzata prima. Come già in “Essi vivono“, le apparenze ingannano lo stesso protagonista, che sospetta che i suoi familiari covino qualcosa di mostruoso: ma, dal loro punto di vista, si tratta di comuni paranoie adolescenziali, che scemeranno non appena Billy sarà introdotto nella Società che conta. Ai suoi occhi, nel frattempo, si compone un puzzle infernale che ogni volta sembra chiaro, e che inevitabilmente viene scombinato da una forza esterna: la stessa che lo tormenta dall’inizio, e che rende terribile il suo passaggio da “ragazzo qualunque” a “persona che conta”. Terrorizzato da quel mondo adulto in cui non riesce a riconoscersi, viene contattato dall’ex fidanzato della sorella, che gli fa ascoltare una cassetta registrata piuttosto inquietante: in essa ascolta la propria famiglia che racconta l’iniziazione nella società della ragazza come un’autentica orgia, a cui avrebbero partecipato addirittura i suoi genitori ed un bullo che lo tormenta. Sospetti paranoici o realtà?

    “Mamma, papà, vorrei parlare un po’ con voi…”

    E’ ovvio che Yuzna intende costruire una metafora piuttosto esplicita del mondo borghese, un mondo divora chiunque non si omologhi ai suoi canoni, e questo dopo averlo adulato con mille “giocattoli” irresistibili. Ma il regista opera in tal senso con grande stile, facendo sorridere ogni tanto e senza appesantire mai lo spettacolo con slogan politici, anzi rivelandosi apertamente non politically-correct nel finale. In particolare “la società che uccide per mantenere segreta la sua esistenza” non deve essere intesa in senso cospirazionista: questo è il “manifesto” di Yuzna, che si scaglia contro la società in cui viviamo tutti, chi da un lato, chi dall’altro della barricata. Dunque chi si omologa avrà agi, un posto di lavoro assicurato, bellezza esteriore e ricchezza materiale: chi invece si azzardi anche solo a discutere l’assunto capitalistico verrà letteralmente… mangiato vivo. Tale aspetto, a scanso di possibili equivoci, viene specificato nell’inizio della scena conclusiva, quando Billy è additato come appartenente ad una razza diversa per “addestramento“, un piccolo insieme di persone della razza umana che sottomette tutti gli altri e detta subdolamente legge.

    Una visione non banalmente romantica, quella del ragazzo, dato che non desidera un mondo ideale di persone simili a lui: semplicemente uno in cui sia lecito vivere la vita vera, umana, fatta di complicazioni, problemi, pulsioni e naturalmente di sesso (il vero leitmotiv di Society, probabilmente). Insomma, quell’umanità che dovrebbe essere ovvia e che invece ai genitori, alla sorella ed agli altri “normali” evidentemente manca, e gli fa addirittura venire il sospetto di relazioni incestuose tra i suoi familiari. In questo scenario anche il rapporto “normale” con Clarissa – interpretata perfettamente dalla conturbante playmate Devin DeVasquez – appare pauroso, visto che anche lei sembra parte di quel mondo. In fondo se la Società, intesa come insieme di rapporti umani tenuti assieme dalla convenienza, della speculazione e dall’opportunismo, impone universalmente dei modelli disumani, Yuzna suggerisce che il tutto non possa che sfociare nella perversione, nel cinismo e – neanche a dirlo – nel cannibalismo. La “grande orgia” e la “cosa informe” degna dei peggiori incubi lovecraftiani è, in effetti, una letterale fusione dei corpi dei borghesi-mutanti: flaccidi, umidicci, solidali tra loro e propensi a cibarsi dei poveri, degli oppressi e di chi non sta alle loro “regole”. Più chiaro di così, si muore (è proprio il caso di scriverlo).

    Vale la pena aspettare la fine del film (il gore nella prima parte è praticamente assente), perchè le scene conclusive sono realmente spaventose, tutte figlie di allucinazioni horror sul corpo umano (mani che escono dalla bocca, persone rivoltate letteralmente come guanti, deformazioni e contorsioni). Non mancano momenti surreali, come le allucinazioni di Billy che vede ninfomani in pose insolite un po’ ovunque (colpa degli squilibri ormonali della sua età!), senza contare la rappresentazione stra-cult dell’irreprensibile padre di famiglia, ovvero una letterale… “faccia da culo”! Anche se la forma è ironica – e richiama una commedia americana – il sottotesto è serissimo e viene affrontato in modo irreprensibile: il pubblico si diverte, e tutti (o quasi) sono soddisfatti dalla visione. Ogni appassionato di horror dovrebbe vedere Society, poi ovviamente la scelta finale spetta a voialtri.

    L’intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione (G. Debord, “La società dello spettacolo”)

  • Blade Runner: la fantascienza filosofica di Ridley Scott

    Blade Runner: la fantascienza filosofica di Ridley Scott

    All’interno di una Los Angeles distopica nell’anno 2019, la tecnologia ha consentito di creare i “replicanti”, androidi o robot fortemente umanizzati, utilizzati per servire gli esseri umani e esteticamente non distinguibili da questi ultimi. Sei di essi, particolarmente evoluti e dotati di possente forza fisica, sono fuggiti dalle colonie extramondo e cercano di introdursi nella Tyrell Corporation, la fabbrica che li produce. Il poliziotto Deckard è sulle loro tracce.

    In breve. Suggestivo, sempre straordinario da rivedere e ricco di spunti, suggestioni onirico-futuristiche ed affascinanti ambiguità, mai veramente sciolte e oggetto di infinite fan theory. Chi sono gli umani, chi gli androidi? Quale valore assumono i ricordi nella vita dell’uomo? Forse, senza timore di esagerare, uno dei migliori film di fantascienza di tutti i tempi assieme a Brazil.

    Scrivere oggi di “Blade Runner“, indimenticabile capolavoro (che potremmo definire proto-cyberpunk) girato da Ridley Scott, rischia di ricadere inevitabilmente nella sterile ripetizione di concetti, idee e visioni futuristiche che hanno formato buona parte del cinema di fantascienza “colta”.

    L’analisi, che non può – in casi del genere – essere approssimativa in alcun modo, dovrebbe comunque basarsi su una duplice considerazione. Se da un lato infatti questo film ha stilato dei veri e propri canoni stilistici all’interno del cinema di fantascienza, dall’altro – senza nulla togliere a regia ed interpretazioni – è in effetti la storia di Philip Dick da cui è tratta ad avere gran parte della responsabilità del successo della pellicola. “Do Androids Dream of Electric Sheep?” (1968) poneva, in anticipo sui tempi, una tematica estremamente intrigante: se è umano amare, proteggere e relazionarsi con altri simili, cosa implica uccidere un androide che, in preda ad una “presa di coscienza” progressiva, si senta “vivo”?

    Bisogna rispondere a questa domanda formulandone molte altre, e questo potrebbe non piacere a chi concepisce la fantascienza in modo più orientato verso l’azione pura che altro. Il film possiede dunque la capacità di far immedesimare grandi fette di pubblico, e questo sia nella coscienza per così dire “organica” di alcuni protagonisti che in quella “artificiale” dei replicanti, rendono impossibile la chiarificazione definitiva dei ruoli di ognuno – è quasi certo che Deckard sia un replicante (forse…), e rimane vivido il fascino di lasciare questo interrogativo “appeso” fino all’estremo.

    Se si guarda Blade runner oggi, peraltro, va fatta una certa attenzione a procurarsi la director’s cut: la versione voluta dal regista con il finale ambiguo, mille volte più poetico e intrigante di quanto non sia la versione imposta dalla produzione, che forza fantozzianamente un happy end che, visto oggi, convince meno della metà del pubblico a cui era teoricamente rivolto. Il punto merita una breve digressione tanto per capirne il grottesco: dopo averci raccontato per quasi due ore che gli androidi vivono solo per pochi anni, tanto che sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa pur di diventare immortali (vedi la caccia al loro creatore, che vanno a stanare direttamente a casa per farsi rivelare il segreto della vita eterna), quel finale scellerato (che è lo stesso che potete vedere nella versione Amazon Video, per inciso) afferma, mediante un improbabile solipsismo di Deckard, che Rachael in realtà non era programmata per morire dopo quattro anni e che dovremmo goderci la vita, demolendo la simbologia fondamentale degli origami (l’unicorno e via dicendo) e di conseguenza, a nostro modesto avviso, uno dei capolavori del genere, rendendolo incoerente prima che melenso.

    Una scelta che risulta ancora peggio oggi, e per cui uno dovrebbe scusarsi con il cast a cominciare dal compianto Rutger Oelsen Hauer, scomparso giusto nel 2019 (per una macabra coincidenza, verrebbe da scrivere, tra la scomparsa del suo personaggio e dell’attore) e qui artefice di una delle sue interpretazioni più iconiche di ogni tempo. Il suo personaggio è un androide diventato dolorosamente consapevole di sè, in un processo psicologico di rinnovamento e ricerca del senso della vita che mai gli ingegneri genetici avrebbero potuto prevedere. E anche oggi, per restare sul pezzo, l’eco di Blade Runner risuona sinistramente nelle nostre coscienze, mentre rabbrividiamo nello scoprire che certe profezie del film si sono quasi avverate (i robot umanoidi sono una realtà, e riusciamo a creare video deepfake talmente realistici da ingannare anche i più esperti).

    In fondo il tratto distintivo di questo cult – uno dei film che possiede ben 7 cut differenti, tra Director’s, International e Final – è rappresentato essenzialmente dalla profondità dei topic che tira in ballo: questo è visibile non soltanto all’interno di ambientazioni metropolitane gigantesche e tutt’altro che a misura d’uomo, ma anche per via delle tematiche esistenzialiste che sono inserite nell’intreccio. È interessante la chiave visiva scelta da Ridley Scott, pure, che affianca al futurismo classico delle automobili che possono volare – il film è del 1982, ed è ambientato nel 2019 – il degrado dei bassifondi delle città, in cui troverai un ambiente fumoso, personaggi ambivalenti e poliziotti intenti a mangiare sushi. Una scelta che, anch’essa, è diventata profondamente iconica.

    https://www.youtube.com/watch?v=Wo3HpcRJxUg

    I replicanti, del resto – umanoidi che assumono le precise fattezze di esseri umani – non soltanto possono pensare, agire e vivere per quattro anni, ma si trasformano in autentici “oggetti” sia multimediali che biologici. È questa loro duplice natura che li rende i veri elementi tragici della storia, e ciò è visibile soprattutto nel momento in cui iniziano a porsi delle domande, a crescere mentalmente, ad interrogarsi sul presente. Oggetti, dunque, che sono consapevoli di esserlo e che sviluppano autonomamente sofferenza, disgusto e – di rabbioso controbalzo – desiderio di diventare immortali. Cosa ci sarà dato fare nell’arco della nostra breve vita? Ha davvero importanza se i ricordi ci sono stati impiantati artificialmente oppure sono frammenti di vita vissuta?

    La complessa simbologia scomodata da “Blade Runner“, di cui i celebri origami di Gaff sono soltanto la punta dell’iceberg, pone domande per il nuovo millennio che meriterebbero risposte fin troppo articolate. Risposte che si possono provare a cercare vedendolo ancora una volta, senza esitazioni.

    Per finire, un tutorial per emulare Gaff, e fare un origami a forma di unicorno.

  • The imitation game è il film su Alan Turing che appassiona e commuove ancora oggi

    The imitation game è il film su Alan Turing che appassiona e commuove ancora oggi

    Alan Turing tenta di decifrare il funzionamento della macchina crittografica tedesca Enigma, con l’aiuto di un team di altri matematici. “The Imitation Game” è un film del 2014 che racconta la storia di Alan Turing, un matematico britannico che ha svolto un ruolo fondamentale nella decrittazione del codice Enigma tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.

    In breve. La vera storia (sia pur romanzata, per certi tratti) del crittografo e matematico Alan Turing, considerato il padre putativo dell’informatica, e le cui speculazioni avvenieristiche sulla omonima “macchina” sopravvivono ancora oggi alla prova del tempo. Grazie al suo lavoro, il dispositivo elettromeccanico Enigma usato dai nazisti venne decifrato, impedendo di fatto il prolungamento della seconda guerra mondiale. Quale grottesco paradosso e tragico contrappasso, Turing venne condannato per omosessualità dal proprio governo, finendo suicida i propri giorni.

    Alan Turing, classe 1912, considerato uno dei padri dell’informatica nonchè matematico e crittografo tra i più celebri di ogni tempo: grazie ai suoi studi pioneristici sulla decifratura della macchina Enigma (un dispositivo elettromeccanico usato dai nazisti per trasmettere e ricevere messaggi) fu possibile anticipare la chiusura della seconda guerra mondiale. Non solo: la sua macchina di Turing, uno splendido quanto inossidabile modello teorico di dispositivo informatico, un archetipo su cui si può risolvere un problema di decisione di Hilbert e su cui, alla lunga, hanno finito per basarsi gli algoritmi che tutti conosciamo ed utilizziamo.

    All’epoca in cui è ambientato il film (che è un biopic in cui meno la metà degli avvenimenti – precisamente il 42,3% – è realmente accaduto, come studiato accuratamente dal sito informationisbeatiful.net), la parola ‘computer’ era un aggettivo riferibile ad una persona, non un dispositivo univoco come sarebbe avvenuto soltanto anni dopo. Alan Turing viene mostrato come personalità complessa e sensibile, appassionato del proprio lavoro oltre che runner ostinato (fatto storicamente accreditato, tanto che riuscì a correre una maratona nel 1946 in sole 2 ore, 46 minuti e 3 secondi). L’interpretazione del protagonista (Benedict Cumberbatch) fu talmente intensa, del resto, nel riprodurre una realtà storica in cui lo scienziato venne prima incensato e poi condannato per omosessualità e probabilmente indotto al suicidio, che l’attore che lo interpretò ammise, a fine delle riprese, di aver avuto una sorta di burnout. Peraltro le responsabilità politiche dell’epoca furono considerevoli nei termini di questa assurda condanna, che portò ad una riabilitazione e una grazia postuma solo nel 2013 non prima di averne ufficializzato la natura omofobica.

    L’unica persona che dovrebbe perdonare qualcuno è proprio Turing. Spero che il film possa portare alla luce quanto straordinario sia stato come persona, e quanto sia stato spaventosamente trattato dal governo dell’epoca. È stata una pagina vergognosa della nostra storia (Benedict Cumberbatch)

    The imitation game è diretto da una regia solida ed efficace (il norvegese Morten Tyldum), ruotando sul ruolo del protagonista mentre lavora in team (molto prima, in effetti, che farlo diventasse una moda effimera da startupper) alla ricerca delle chiavi crittografiche di Enigma, ricerca che lo scienziato cerca di automatizzare. Il limite del film è ovviamente nei suoi aspetti romanzati, che sembrano voler iper-personalizzare la vicenda umana mettendo in quasi in secondo piano l’ingiustizia politica e sociale nonchè le responsabilità del governo dell’epoca. Farne un film politico, del resto, sarebbe stato meno emozionale e quasi fuori tempo massimo, data la riabilitazione del personaggio Turing in tempi recenti, sia pur dopo molti anni dal tragico accaduto. Il Turing di Cumberbatch è l’archetipo del genio discreto, incompreso e valorizzato solo dai posteri, ai quali tocca l’ardua sentenza di giudicarne i meriti, nello specifico mediante un biopic sceneggiato sulla base del libro di Andrew Hodges Alan Turing, storia di un enigma.

    Non era agevole realizzare un film del genere senza romanzare le relazioni tra i personaggi, e molto di questo feeling umanizzato passa dal personaggio di Joan Elisabeth Lowther Clarke, personaggio realmente esistito e crittografa che sostiene il protagonista nei momenti più bui (interpretata da Keira Knightley). Dopo il successo dell’operazione Enigma, dopo aver superato mille diffidenze sulla propria scienza e coscienza, dopo essere stato eletto membro della Royal Society, avviene il breakdown: nel 1952 Turing viene additato dalle autorità come criminale, per via della propria omosessualità e nell’estremo paradosso di aver lottato contro i nazisti, ritrovandosi sulla gogna di un tribunale quasi equivalente a quello tedesco dell’epoca. Stando alla ricostruzione ufficiale, Turing morì nel proprio letto a soli 41 anni ingerendo una mela al cianuro, per quanto all’epoca il suicidio non venne neanche ufficialmente riconosciuto dalle autorità. Il suo modello di macchina di Turing ed il suo articolo pioneristico Computer machinery and intelligence del 1954 sono, ancora oggi, modelli riveriti e rispettati dai fatti per quello che riguarda la scienza informatica come la conosciamo e la utilizziamo ai giorni nostri.

    Il film The imitation game , uscito nel 2014, è disponibile in streaming gratuito su RaiPlay fino a fine 2021, e viene periodicamente trasmesso in TV.

    Di che parla il film?

    “The Imitation Game” è un film del 2014 diretto da Morten Tyldum e scritto da Graham Moore. Il film si concentra sulla vita di Alan Turing, un matematico britannico noto per il suo contributo fondamentale alla decrittazione del codice Enigma durante la Seconda Guerra Mondiale. Il titolo del film, “The Imitation Game” (in italiano, “Il gioco dell’imitazione”), si riferisce al concetto centrale del film: la ricerca di Turing per creare una macchina che possa imitare il pensiero umano, una macchina che alla fine è diventata il precursore dei computer moderni.

    Il film esplora anche la difficile vita personale di Turing, incluso il suo status di omosessuale in un’epoca in cui l’omosessualità era criminalizzata nel Regno Unito. La sua storia è quindi un racconto sia di genio matematico che di lotta contro la discriminazione e l’intolleranza. L’opera è stata ben accolto dalla critica ed è stato candidato a diversi premi, vincendo l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale nel 2015. Benedict Cumberbatch ha interpretato il ruolo di Alan Turing, e il suo lavoro è stato più volte elogiato per la sua interpretazione del personaggio.

    Ecco una panoramica della trama, del cast, di alcune curiosità e della produzione del film:

    Trama: Il film è incentrato sulla vita di Alan Turing, interpretato da Benedict Cumberbatch, dalla sua infanzia fino alla sua carriera adulta. La narrazione salta avanti e indietro nel tempo, mostrando i momenti chiave della sua vita. Gran parte della trama si concentra sulla sua esperienza lavorativa durante la guerra, quando è stato incaricato di decifrare il codice Enigma, una macchina crittografica tedesca considerata inarrivabile. Turing si unisce a un gruppo di matematici e crittografi a Bletchley Park, inclusa Joan Clarke (interpretata da Keira Knightley), per lavorare al progetto.

    Mentre lavorano contro il tempo e l’ostilità dei superiori militari, Turing e il suo team cercano di risolvere l’Enigma. Nel frattempo, il film esplora anche il passato di Turing, inclusa la sua difficile infanzia e il suo rapporto con la sua sessualità, che in un’epoca in cui l’omosessualità era criminalizzata nel Regno Unito, ha avuto gravi conseguenze sulla sua vita.

    Cast principale:

    • Benedict Cumberbatch come Alan Turing
    • Keira Knightley come Joan Clarke
    • Matthew Goode come Hugh Alexander
    • Rory Kinnear come detective Nock
    • Charles Dance come comandante Denniston
    • Mark Strong come Stewart Menzies

    Curiosità:

    • Il film è basato sulla biografia di Alan Turing, “Alan Turing: The Enigma” scritta da Andrew Hodges.
    • Benedict Cumberbatch ha ricevuto una nomination all’Oscar per la sua interpretazione di Alan Turing.
    • Il titolo “The Imitation Game” si riferisce al concetto centrale del film: la creazione di una macchina che può imitare il pensiero umano.
    • Alan Turing è considerato uno dei padri fondatori dell’informatica e della scienza dei computer, e la sua macchina Turing è un precursore dei computer moderni.
    • Il film esplora il trattamento ingiusto e discriminatorio che Turing ha subito a causa della sua omosessualità, e ha contribuito a sollevare l’attenzione sull’ingiustizia subita da Turing e da altri a causa delle leggi contro l’omosessualità nel Regno Unito.

    Produzione: Il film è stato diretto da Morten Tyldum e scritto da Graham Moore. È stato girato principalmente nel Regno Unito, tra cui Bletchley Park, il luogo storico in cui Turing e il suo team lavoravano per decifrare l’Enigma. “The Imitation Game” ha ricevuto recensioni positive da parte della critica ed è stato un successo al botteghino. Ha anche vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale.