FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Pontypool: quando l’horror si mette in cattedra e fa accademia

    Pontypool: quando l’horror si mette in cattedra e fa accademia

    Grant Mazzy è uno speaker radiofonico quasi a fine carriera, che conduce il suo programma assieme all’ansiosa produttrice e ad una giovane regista. Durante la diretta arrivano notizie inquietanti: sembra che Pontypool, la città in cui è ambientata la storia, sia stata contagiata da una misteriosa epidemia…

    In breve. Unico nel suo genere quanto vagamente didascalico, certo non un capolavoro: sembra di assistere al primo horror puramente “di parola” della storia. Poco dopo, la storia degenera nel classico accerchiamento da zombi. Non è scontato, a mio avviso, comprendere il focus della trama, e questo non giova alla qualità globale della pellicola. Certamente un film da non sottovalutare, per quanto destinato – nel suo essere fieramente indie – alla nicchia di spettatori più propensa all’orrore puramente metaforico.

    L’interno di una stazione radio è l’insolita ambientazione scelta per questo horror low-budget tratto dal libro “Pontypool Changes Everything” di Tony Burgess, da cui la BBC ha anche tratto – in modo piuttosto scontato, direi – un dramma radiofonico di circa un’ora. Il regista McDonald propone quindi una storia del terrore decisamente anticonvenzionale, basata parecchio sulla parola (e solo in parte sulle immagini), che porta al parossismo il tutto esprimendo l’idea che la lingua inglese sia stata infettata da una specie di meme virale, il quale spingerebbe le persone a diventare zombi assassini (questa, almeno, sembra essere l’interpretazione più plausibile). Per quanto sembri un’idea stramboide – ed in certa misura lo è – merita una standing ovation l’essersi distaccati, quantomeno, dalle consuete cause scatenanti del contagio (alieni, meteoriti, esperimenti militari, cause ignote). Molto meno esaltante la dinamica del film stesso, che tende secondo me a far perdere di vista il focus dell’intreccio costringendo lo spettatore a darsi un paio di scosse, nel terrore di essersi perso qualche dettaglio importante. In due parole: non è troppo chiara la causa del contagio.

    Assolutamente claustrofobica, poi, e piuttosto azzeccata, la scelta di destinare l’ambientazione dell’intero film all’interno della radio, con echi ovvi sia a moltissimi classici zombi movie del passato (La notte dei morti viventi, Zombi), sia al finale di uno dei lavori più sfortunati di Fulci (Zombi 3). Non mi sento quindi di affermare che il messaggio passi chiaramente, e questo per ragioni di sceneggiatura ampiamente discutibili: sia perchè la trama sembra preoccuparsi – più che dare plausibilità alla causa del caos che attanaglia Pontypool – di forzare la mano sullo scienziato che spiega tutto (?), oltre che su uno dei flirt più melensi ed improbabili dell’universo conosciuto. E poi mi spingo oltre: è abbastanza assurdo che uno spettatore medio debba, per godersi il film appieno, leggere i vari “spiegoni” che sono diffusi sul web a riguardo. Il mio ovviamente è un parere personalissimo, può darsi che la sua visione si riveli molto più gradevole per la maggioranza di voi, ed io – per quanto abbia cannibalizzato negli anni pellicole decisamente più contorte, stramboidi e surreali di questa – ho trovato “Pontypool” riuscito solo in parte, immerso com’è nel cercare di fare sociologia del linguaggio “de noantri“, e troppo poco concentrato a produrre un buon horror.

    Da un lato viene ripresa a piene mani, sia dal punto di vista visivo che concettuale, lo zombi romeriano come sinonimo di personalità conformista, ottusamente coinvolta nel ripetere parole come un mantra, e naturale sinonimo di disumanità, cannibalismo e omologazione. Niente male, comunque, per quanto ciò sia parecchio distante dai gusti di quel pubblico horror che predilige l’azione sulla riflessione meta-cinematografica e/o sociale (c’è modo e modo). Si insiste anche, sottilmente, su un ulteriore concetto – quello sì, sanamente radical chic: quello del doversi distaccare dal conformismo della comunicazione verbale per sopravvivere, in particolare da quello dei mass media e, più in generale, delle parole che non significano più nulla, e che si riducono ad un mero ripetersi di idiomi senza significato che ci rendono … morti viventi (maddai). Solo cambiando la semantica, sembra suggerire il regista, ovvero stravolgendo la parola più terrificante che possa esistere (kill) e trasformandola in tutt’altro (kiss), si può riprodurre un barlume di speranza, per quanto questa trovata sia stereotipicamente hippie e (probabilmente) forzata.

    Come se non bastasse, per il regista non si tratta di zombi, bensì di conversationalists – ovvero persone che – avendo saturato il proprio linguaggio – sono involuti allo stato di belve, e desiderano solo strappare la lingua a morsi di qualcun altro. A fine visione del film, può essere richiesta una breve relazione su quanto visto da parte degli spettatori…

  • Oltre il guado: folklore e horror del film di Bianchini

    Oltre il guado: folklore e horror del film di Bianchini

    Un etologo sta seguendo alcune tracce nelle foreste sperdute tra Fruili e Slovenia, monitorando gli animali che attraversano la zona. Una telecamera montata sul corpo di una volpe gli mostra una località sconosciuta, apparentemente abbandonato, giusto oltre il fiume…

    In breve. Notevole horror italiano che non ha nulla da invidiare alle produzioni più blasonate e citate. Bianchini è un talento del genere e rielabora a modo proprio, con grande stile, archetipi lovecraftiani e fulciani. Da non perdere.

    Oltre il guado di Lorenzo Bianchini potrebbe rientrare in quei film che, pur non potendo piacere a chiunque – perchè nessun film ci riesce, in fondo – riescono lo stesso a far parlare di sè. E questo avviene per meriti veri: perchè, diversamente da troppe produzioni indie (troppe delle quali tendono ad essere iconiche quanto stucchevoli, quando non puramente masturbatorie) si esprime finalmente in un linguaggio robusto, propinando una storia accattivante ed una fotografia nitida. Nonostante qualcuno sia stato tentato ad accostarlo allo pseudo-snuff della strega di Blair, infatti, Across the river va molto oltre; addirittura, in certi passaggi mostra indirettamente cosa sarebbe potuto essere il discusso film di fine anni 90 di Myrick e Sanchez, uno dei primi casi di pellicola promossa grazie al viral marketing e alle fake news sul web.

    Se è vero che da tempo l’horror ha trovato una nuova dimensione nei deliri new horror di Laugier, Roth e Gens, in grado (con gradazioni diversissime) di modernizzare ed innovare il genere, al tempo stesso bisogna constatare che l’altra tendenza, parallela, è quella dell’essenzialità esistenzialista e paranoica degli horror scarni, impalpabili e diretti come Buried, Haze e naturalmente questo. Probabilmente, uno dei migliori del suo sotto-genere, almeno tra quelli usciti negli ultimi anni.

    La storia di Oltre il guado è quella di un etologo avventuriero, incuriosito dai misteri di un bosco che si scopre contenere un antico paese, abbandonato dal dopoguerra; in questo, Bianchini non risparmia dettagli contestualizzanti, facendo raccontare parallelamente la storia a quelli che sembrerebbero essere due anziani ex abitanti. Al tempo stesso, la narrazione è condotta da elementi minacciosi (la natura ostile – e il fiume, soprattutto) ed altri relativamente rassicuranti (il camper, il computer, il fucile con visore notturno); col tempo, la parte rassicurante della storia si dilegua, sembra quasi farsi consumare dall’insistenza di quella pioggia battente.  E questo crea una tensione palpabile a cui è impossibile dare una spiegazione, e in grado di tenere lo spettatore incollato alla poltrona fino alla fine.

    Il protagonista resta infatti intrappolato nel villaggio, ed il pubblico è costretto ad affiancarlo nel suo spaventoso isolamento. Attenzione poi a pensare al solito b-movie “isolazionista” e girato alla buona: in questo bisogna saper valutare, a mio avviso, lo spirito sincero che muove Bianchini nel voler dirigere Oltre il guardo, un film indipendente assai pregevole. In fondo, chi va al cinema, non dovrebbe neanche sapere se sta vedendo un film dal budget milionario o di pochi euro: il biglietto da pagare, il più delle volte, quello è. Pregevole, folkloristico, pluri-premiato e (per una volta) molto facile da reperire online (c’è su Netflix).

    Se la storia è di per sè basilare, si riesce a svolgere in modo essenziale e particolarissimo, insistendo su elementi ricorrenti quanto suggestivi: elementi semplici, soprattutto, come l’acqua che invade l’ambiente di continuo (per un motivo che si capirà nel finale), e risparmiando i dettagli cruenti e splatter a semplici suggestioni, vaghi rimandi: il tanto che basta. Per il resto, la paura di Oltre il guado è quella di risate isteriche nella notte, isolamento notturno, porte e finestre che sbattono, mancanza progressiva di viveri, presenze che si dissolvono ed oggetti molto utili che scompaiono nel nulla.

    Mi sembra anche difficile cogliere precisi riferimenti ad altri film o cineasti, per quanto riesca ad essere personale questo eccezionale regista che comunque sembra conoscere sia Lovecraft che Lucio Fulci. A mio avviso, il vero merito è quello di aver saputo declinare, con mezzi e modi adeguati ai tempi di oggi, la celebre intervista a Fulci, quella in cui affermava che “l’orrore è pura idea“: in Across the river si sviluppano idee, archetipi della paura di ogni tempo, e sostanziali quanto imprecisabili sono i rimandi a molti generi (su tutti, l’uomo punito per la propria morbosa curiosità, per aver osato profanare segreti che dovevano rimanere tali – di natura chiaramente lovecraftiana, per inciso). Ma quello che spaventa davvero di questo film è l’idea di orrore che ogni spettatore vorrà immaginare dietro quella porta, in fondo alla cantina, dentro il camper del protagonista, forse anche negli sguardi dei due misteriosi personaggi più anziani (i cui discorsi sono in sloveno, e sono sottotitolati – credo volutamente – solo nella seconda parte).

    La visione di questo orrorifico one-man show, incredibilmente accattivante nonostante un soggetto restrittivo (il protagonista parla soltanto quando registra i propri appunti, e pochi altri sono i dialoghi del film), potrà comunque richiamare sia classici come La casa che alcuni episodi di AI confini della realtà, con la differenza che il taglio fumettistico/di intrattenimento dei succitati cede il passo ad un realismo concreto, mai esasperante (per intenderci, niente telecamere traballanti nè violenza gratuita di troppi pseudo-snuff). E se ancora non siete convinti di questa visione, considerate la grandissima qualità e nitidezza delle riprese e della fotografia, sempre pulita e modernamente sinistra. A questa qualità latente, poi, si aggiunga un’ulteriore trovata efficace: ovvero le due disgraziate sorelle che, nonostante si nascondano in vari anfratti, si vedono chiaramente e senza inutili misteri. Credo abbastanza convintamente che tanti altri film, più fiacchi, avrebbero insistito con suggerire la suggestione fino a stufare lo spettatore.

    Il tutto dovrebbe bastare a chiunque per trovare un’ottima scusa per gustarsi questa perla dell’orrore nostrano, passata un po’ sottogamba negli scorsi anni – e finalmente a disposizione del grande pubblico mediante Netflix.

    Curiosità: Oltre il guardo è una storia vera e/o è basato su una leggenda locale?

    Ha risposto il regista da Nocturno.it (riporto uno stralcio):

    La storia delle due gemelle maledette che infestano la zona, invece, ha come spunto una qualche leggenda popolare locale?

    No, però, sai, quando scrivi non inventi nulla di nuovo. Rielabori cose del tuo passato che ti hanno raccontato, che hai sentito, e quindi, involontariamente peschi dalla cultura locale popolare, sempre. Di rimando, c’è comunque quello che hai vissuto nella tua terra.

    Poi il fatto che la storia non dia tutte le risposte…

    Credo che sia questo il bello dell’orrore, che nei film horror non devi spiegare, secondo me, o almeno non in questi. Le gemelle possono anche essere state annegate ma non morte ed essere ancora lì, invecchiate, oppure possono essere dei demoni… mi piace il fatto che ognuno vada alla ricerca di una propria storia, di una propria idea. A me non interessava spiegare, se non introducendo i personaggi dei due anziani, cioè la memoria del vecchio, per dare un po’ di veridicità alle gemelle. Ma poi anche lui ha i ricordi sbiaditi, è tutta una cosa non spiegata che a me piace, e risulta realistico.

  • The divide: l’horror distopico che riflette sulla socialità e la solitudine

    The divide: l’horror distopico che riflette sulla socialità e la solitudine

    In un futuro prossimo New York è devastata dal nucleare, ed otto persone si ritrovano nel sotterraneo di un palazzo, allestito a mo’ di rifugio antiatomico. Poco dopo qualcuno inizia a forzare l’ingresso…

    In breve. Ottimo saggio di Gens di genere post-apocalittico (dopo il deludente, e vagamente pretenzioso, Frontiers), visto in un’ottica introspettiva – insolita, quanto apprezzabile – e soprattutto concreta e poco spettacolarizzata. Merita, senza dubbio, una visione: tra i migliori del genere degli ultimi anni.

    Con “The divide” Xavier Gens, dopo aver scomodato la critica a blaterare ripetutamente di new horror “alla francese”, vira quasi completamente genere, e si dedica al post-apocalittico: un genere spinoso, storicamente difficile da rappresentare sullo schermo, che raramente ha visto prodotti di reale qualità – se non per le notissime eccezioni (Carpenter in primis: Fuga da New York, e soprattutto Fuga da Los Angeles).

    Se è vero che di esempi del genere non mancano, neanche nei mai troppo osannati anni ottanta italiani (dove era soprattutto l’artigianalità a farla da padrone), resta un dato di fatto che gli sceneggiatori Karl Mueller e Eron Sheean abbiano prodotto un intreccio avvicente, perchè coglie nel segno, mostrando “quel tanto che basta” a fare un buon film. Niente inutile spettacolarizzazione delle trama, niente effetti speciali o eccessi di digital art (se non negli splendidi attimi conclusivi), ed un’idea fissa in mente: mescolare le dinamiche del cinema di genere claustrofobico (alla Wes Craven degli esordi, per capirci) con quelle post-apocalittiche (ed annessa sociologia pessimista), e tirare fuori un nuovo lavoro originale. Che risulta originale perchè, alla fine, “The divide” porta una ventata di aria fresca al genere, a dispetto delle varie esalazioni tossiche di cui è disseminata la trama.

    Non era agevole farlo, vista la sovra-abbondanza di emuli che, alla fine dei conti, puntano quasi sempre un nemico preciso (si veda Cloverfield, o il più recente The Gerber Syndrome), e quasi sempre – aggiungerei – inserendo qualche morto vivente e/o un novello Godzilla a guastare i piani dei protagonisti. La prevedibilità del post apocalittici è ben nota, ma “The divide” è diverso da quei film per una varietà di ragioni: la più importante è legata al fatto che è incentrato sui caratteri dei protagonisti, a formare un campionario di esseri umani tra cui sarà difficile non immedesimarsi. Un post-apocalittico di genere, introspettivo e profondamente umano (quanto feroce, a suo modo).

    Questo film è in fondo la storia di un viaggio estremo che rappresenta l’evoluzione dei caratteri, delle condizioni (fisiche e psicologiche) vissuto sulla pelle di otto tipi umani: personaggi che lottano per la sopravvivenza, con le consuete speranze malriposte e le immancabili conseguenze negative, degne degli esperimenti sociali visti in The experiment (Hirschbiegel, 2001).

    Gens resta un fan dell’horror e non risparmia sulla dose di terrore del film, inserendo innesti che sembrano ispirati a veri e propri snuff e, soprattutto, costruendo un crescendo che culmina in un finale memorabile, che colpisce e affonda per quanto, per forza di cose, potrà non piacere a tutti. La claustrofobia diventa la sintesi del vero orrore di “The divide“: essere costretti in una cantina angusta, razionando cibo e aria, mentre il mondo attorno finisce per andare letteralmente a rotoli.

    Certo, “The divide” non è privo di difetti: il ritmo del film non è uniforme, e spesso il voler indagare sui cambiamenti dei protagonisti (o della natura umana, se vogliamo metterla sul piano generale) in presenza di condizioni estreme rischia di sconfinare in quel cinema “da intellettuali” interessante, forse, ma a forte rischio di appensantire inutilmente la visione, anche per via degli eccessi presenti in più parti del film. Gens è stato comunque attento sia alla forma che alla sostanza, per cui il rischio di restare insoddisfatti dalla visione è limitato rispetto alla media.

  • Ho visto 3 volte “Dagon – La mutazione del male”, e non riesco a farmelo piacere sul serio

    Ho visto 3 volte “Dagon – La mutazione del male”, e non riesco a farmelo piacere sul serio

    Un gruppo di amici in vacanza su uno yacht si schianta su alcuni scogli ed arriva in uno strano paese di pescatori, Inboca. Presto scopriranno le reali origini degli abitanti del posto…

    In due parole. Ispirandosi al celebre racconto lovecraftiano “La maschera di Innsmouth” – che diventa “Inboca” – Gordon ne tira fuori una (a suo modo) notevole rielaborazione in chiave cinematografica, sfruttando al meglio gli stereotipi ed i topos caratteristici di questo genere di letteratura. Molto deriva anche da un altro classico dello scrittore quale “Dagon“, ovviamente, ed il risultato si lascia guardare con grande naturalezza. Il problema è, semmai, che il film non sorprende più e sembra ricalcare stereotipi abusati o comunque visti e rivisti.

    “Non avrei mai voluto vedere quella scena…”

    Ispirandosi ai due succitati racconti dello scrittore di Providence, si può dire che Stuart Gordon sia riuscito, una volta tanto, a rendere la letteratura lovecraftiana da straordinaria ad ordinaria: tale è la spontaneità, in effetti, che attraversa l’intera pellicola – oltre alla trattazione mai forzata o troppo letterale – che il pubblico si dovrebbe lasciar guidare in modo piuttosto ovvio all’interno di essa. Forse troppo normale, tutto sommato, considerando le atmosfere lovecraftiane che ben poco si adattano, alla fine, un po’ a qualsiasi riduzione cinematografica (il termine “riduzione” non è casuale, in queste circostanze).

    È bene tenere presente due aspetti: non siamo al top della rappresentazione del sottogenere (che avviene, ad esempio, in capolavori come “Il seme della follia” o “La cosa” di John Carpenter) e non dobbiamo dimenticare che Gordon è pur sempre l’artefice di una trasposizione di un altro classico della letteratura horror quale “Il pozzo e il pendolo” piuttosto arbitraria e, obiettivamente, neanche troppo azzeccata. Nei limiti della cinematografia del regista, dunque, che ha conosciuto probabilmente un unico vero picco con “Re-animator” (altro racconto lovecraftiano rappresentato molto liberamente), “Dagon – La mutazione del male” è un horror di discreto livello, con alcuni momenti di buona tensione ed una ricostruzione delle atmosfere lovecraftiane più che degna.

    Si tratta ovviamente di un b-movie che da’ molta importanza all’involucro dei mostri mutanti e poca, come spesso accade, alla sostanza del solitario di Providence, ma valutando il film in quanto tale si resta soddisfatti anche se, a dirla tutta, non proprio entusiasti. L’odore di umido-marcio arriva a permeare la pellicola fin dalle prime sequenze, giocando nel contempo sul consueto (ed azzeccatissimo) senso di “antico incubo diventato realtà” che non tarderà a disvelarsi.

    Un film fuori dalle righe per il periodo stesso in cui è uscito – gli anni 80 erano finiti da un pezzo – e, proprio per questo, da gustare ancora oggi. Dagon, a suo modo, non può essere annoverato tra i film propriamente brutti, anzi; presenta spunti di originalità che hanno, al limite, il difetto di rimanere tali. Il film non sorprende mai, ed è questo il suo limite più sostanziale: per un lavoro come quello di Lovecraft e, soprattutto, a confronto di film come From Beyond, sempre di Gordon, ci aspettavamo forse qualcosa di più.

  • 31: Rob Zombi reinventa lo slasher, ancora una volta

    31: Rob Zombi reinventa lo slasher, ancora una volta

    USA, Halloween 1978: cinque persone vengono rapite da un gruppo di sconosciuti per partecipare ad un sadico gioco di sopravvivenza.

    In breve. Trama un po’ scarna e sulla falsariga dei suoi precedenti di inizio 2000; piuttosto violento, ricco di colpi di scena e di personaggi deformi, folli e caricaturali. Un horror che riprende il “già visto” pur facendo riferimento ad un immaginario del tutto inedito: da vedere.

    I presupposti di questo nuovo film di Rob Zombi sono se non altro curiosi, in quanto basati sulla singolare statistica che ad Halloween scompaiono più persone di qualsiasi altro giorno dell’anno: girato in soli 20 giorni, sembra un film all’insegna del “flusso di coscienza” del regista, in grado di catapultare protagonisti borderline dell’America anni ’70 in un inferno senza via d’uscita apparente. Nel farlo propone una sequela di villain da fumetto horror, tutti accomunati da un “head” nel nome (Doom-Head, Sex-Head, Sick Head e così via) e dal provenire dallo staff di un circo.

    Non è la prima volta che Zombi caratterizza i suoi personaggi in questi termini, ed è impossibile non notare il suo, ormai inconfondibile, stile di regia: solido, nitido, brutale e attento ai dettagli. Si tratta anche di un film finanziato in crowdfunding, per cui le aspettative di massima libertà artistica sono in effetti rispettate: chi non ha apprezzato il film, d’altro canto, non ha potuto che notarne la sostanziale somiglianza con i lavori precedenti, cosa vera ma, a mio avviso, nel caso specifico non un vero e proprio aspetto negativo. A fare la differenza rispetto a molti horror contemporanei, e anche di molto, c’è la componente attoriale: molto curata, infatti, la scelta degli interpreti e le rispettive interpretazioni, sempre decisamente teatrali e sopra le righe. Come di consueto, e a differenza del sulfureo Le streghe di Salem, punta quasi esclusivamente sulle dinamiche slasher (Non aprite quella porta), concentrandosi su un immaginario del tutto proprio e senza alcun riferimento a culture, leggende urbane o altro. Un inferno personale nel quale tre individui (vestiti grottescamente da vetusti signori dell’800 imparruccati) scommettono sulla morte delle vittime contattando dei killer, in un panottico dell’orrore che saprà appassionare nella misura in cui saremo disposti a cedere alle sue lusinghe. Nel farlo, non risparmia dettagli sanguinolenti e, anzi, sembra insistere sulla componente violenta più del consueto, con trovate a sorpresa che faranno rabbrividire.

    Zombi evoca un feeling già noto nei suoi precedenti La casa dei mille corpi e La casa del diavolo per ricostruire un’atmosfera settantiana, tanto exploitation da sembrare quasi da snuff, cosparsa di spirito hippy e ben caratterizzata, fin dai primi fotogrammi, dai consueti personaggi grotteschi. Non è nulla di clamoroso, probabilmente, ma l’approccio è quantomeno molto azzeccato, per quanto determinati riferimenti passeranno soltanto per i più accaniti fan del genere (vari classici che passano sulle TV inquadrate, il genere naziploitation per il personaggio Sick Head, una citazione molto specifica del Rocky Horror Picture Show). Se il vero colpo di classe del film è il finale – che chiude la storia con un doppio finale, che rimane comunque parzialmente aperto – il labirinto squallido, le vittime trattate come marionette e le sadiche trappole che li aspettano non sono certo una novità, a partire da Cube di Vincenzo Natali (1997) fino ad esempi più evoluti come The experiment del 2001 (e senza contare che un analogo Sick Head si era già visto nel sottovalutato Eaters).

    Del resto si tratta di uno di quei film da cui dovresti sapere bene cosa aspettarti, e che devi gustarti nella loro essenza senza farti troppe domande, e – per noialtri – chiudendo un occhio sul doppiaggio italiano (la traduzione di certe espressioni gergali e delle canzoncine perde un po’ di efficacia). Zombi sembra volersi liberare di qualsiasi pretesa contestualizzante o ideologica (almeno in apparenza, anche se apre citando Kafka con l’aforisma A first sign of the beginning of understanding is the wish to die), e si limita a regalare al suo pubblico una perla di horror moderno ricco di ritmo, citazioni, interpretazioni di buon livello ed alcuni punti volutamente non chiariti: su tutti, il reale ruolo dei tre feroci aguzzini – forse fuori dal tempo, sempre esistiti, quasi una sorta di demoni – Father Murder, Sister Serpent e Sister Dragon, che a quanto pare colpiscono ad ogni Halloween. Figure grottesche che hanno scommesso sulle vite delle vittime, ed è tutto quello che sappiamo: viene in mente a riguardo, per chi lo avesse visto, uno dei corti di The ABC’s of Death 2.

    Se Zombi ha insegnato qualcosa al suo pubblico, in questi anni, è proprio che un buon horror non deve per forza spiegare tutto, e può ritenersi godibile (e ancora più spaventoso) anche lasciando qualche ombra oculatamente sparsa.