DENTRO_ (101 articoli)

Film psicologici, thriller e opere che hanno valorizzato e approfondito gli studi di Lacan, Jung e molti altri.

  • Essere sapiosessuale

    Essere sapiosessuale

    Una volta un amico mi ha confidato di “essere sapiosessuale” – di sentirsi attratto da partner con cui possiede interessi in comune in termini culturali. Il sapiosessuale è infatti attratto dal cervello dell’altra persona, al punto di sognare di farlo proprio, di farselo, di renderlo organo sessuale.

    Il concetto mi sembrava affascinante e, qualche mese dopo, mi è capitato di metterlo alla prova: per mesi ho frequentato assiduamente una collega con cui vado molto d’accordo e c’è tuttora intesa mentale considerevole. Ogni aspetto del reale era motivo di confronto, diventava la scusa per parlare di libri, di film, di musica; per raccontare di noi, aprirci l’un l’altro. E poi condividere conoscenza, raccontarci storie, essere trasparenti, sinceri l’uno con l’altra, infarcite di autori che avevamo letto e cose che avevamo studiato. Sembrava il preludio di una delle più belle storie sapiosessuali mai raccontate, ma non è andata come si sperava: la persona in questione si è rivelata più attratta dai miei ragionamenti che da me, e il suo interesse era sinceramente lavorativo e non sentimentale o sessuale. L’altra persona che parlava di sapiosessualità, del resto, non ha mai esibito troppa cultura con la propria compagna, anzi ha sempre insistito su un registro colloquiale anche piuttosto banale, stantìo, nulla di elaborato. Mi venne il dubbio, a quel punto, che la sapiosessualità di fatto non esista, o al limite che si tratti di un modo per abbellire la propria narrazione emotiva (nulla di male nel farlo, intendiamoci).

    Di per sè, se andiamo ad indagare, la sapiosessualità sembra un neologismo senza alcun fondamento scientifico, al contrario di altri fenomeni come la demisessualità che sono attualmente allo studio. Può anche darsi che in futuro vengano fatti studi approfonditi anche sulla sapiosessualità e si possa saperne di più, ma ad oggi è bene sapere che il termine “sapiosexualcompare sul web sul finire degli anni Novanta, sul blog dell’utente con nickname wolfieboy. L’autore si considerava “entusiasta della sapiosessualità“, e del fatto “che parecchie persone stiano annoverando la sapiosessualità come interesse“. Nel blog, l’autore si attribuisce di aver “inventato” questato parola nel 1998, a seguito di una discussione con una blogger (nickname Jadine), con cui – in era pre-social / web 1.0 – era solito comunicare e scambiarsi idee.

    La sapiosessualità veniva definita da wolfieboy come un qualcosa di diagonale rispetto al sesso biologico, dato che (scrive l’autore)

    Non mi interessa molto “l’impianto idraulico”

    nel senso che non gli interessava il sesso del partner, probabilmente. L’autore specifica poco dopo la propria lista della spesa in fatto d’amore:

    Vorrei una mente incisiva, curiosa, perspicace e irriverente. Qualcuno per cui la discussione filosofica sia un preliminare. Qualcuno che a volte mi faccia venire il voltastomaco per la sua arguzia e il suo senso dell’umorismo maligno. Qualcuno che possa raggiungere e toccare dove capita. Qualcuno con cui potermi fare le coccole.

    Ho deciso che tutto ciò significa che sono sapiosessuale, conclude in modo lapidario.

    Se ammettiamo che questa dichiarazione possa essere una sorta di “manifesto” della sapiosessualità (termine popolarizzato ulteriormente, per inciso, dalla scrittrice erotica Kayar Silkenvoice), bisognerebbe premettere che quella wishlist interminabile di desiderata per un partner sia probabilmente irrealistica. Questo anche solo per il fatto che si basa su una lista della spesa discorsiva, poco applicabile alla realtà, e perchè – da che mondo è mondo, diremmo – ognuno trova i partner che trova, senza programmi, senza scadenze e soprattutto se li trova. Questo ci riconduce a pensare il problema della sapiosessualità in termini cognitivi, perchè sembrerebbe plausibile che si tratti di un paravento, un bias cognitivo che ci risparmia di fare i conti con la realtà e la sua irriducibilità ad una formula matematica. Molto più semplice pensare, per intenderci, che sono un/una nerd incallita e voglio un/una nerd incallita come me.

    Viene altresì il sospetto che la sapiosessualità possa essere un costrutto sociale, dai tratti molto semplicistici nel suo concepimento, in netta opposizione alle caratteristiche sfuggenti della realtà in cui viviamo. Una realtà in cui – lo sappiamo bene – è complicato trovare un partner adeguato, soprattutto (ma non solo) in pianta stabile e se le nostre esigenze cozzano con le tendenze maggioritarie della società. Molti trovano subito in modo spontaneo nonostante varie disregolazioni emotive e caratteriali, altri lavorano su se stessi per anni senza trovare nulla. Questo aspetto è fonte di sofferenza per tanti, e spiega il discreto successo di cose come i corsi di seduzione online che, il più delle volte, si prefigurano come saggi incel riduzionisti per maschi bianchi etero. Sono dotati di dialettica argomentativa accattivante quanto semplificata, che sia in grado di catturare la mente delusa del single, ma non rendono (ed è questo il loro limite sostanziale) l’idea della soggettività dell’incontro, dell’irripetibilità della circostanza, della risonanza del contatto fisico e forse neanche della possibilità che possano esistere molte forme di amore, tra cui quelle non necessariamente sessuali. Non è poco, ed è sempre meglio di nulla per chi non trova davvero nient’altro. Viene insomma il dubbio che dire “sapiosessuale” sia un travestimento emotivo per suggerire alle persone che “mi considero degno e voglio una persona degna come me“. Vale la pena seguire la falsariga dell’anti-semplicismo e provare a capire meglio dove ci porta, a questo punto.

    Nel saggio “Abitare la complessità” Mauro Ceruti e Francesco Bellusci evidenziano come sia cresciuta, negli ultimi anni, la diffidenza generale nei confronti della complessità del reale, in favore di una tendenza a trovare una logica forzosa in ogni cosa. Al netto dei complottismi che giustificano sempre qualsiasi cosa, si finisce spesso per applicare criteri brutalmente cartesiani ad un mondo che, di suo, rifiuta questa categorizzazione, perchè è troppo sfuggente e complesso perchè si possa esprimere in termini deterministici. Gli autori si spingono a scrivere, in merito, che

    il semplice non esiste, ovvero è sempre il semplificato

    nel senso che qualsiasi schema mentale applichiamo alla realtà rivela null’altro che la nostra utilità, ciò che a noi serve, o anche la nostra ansia nell’accettare o meno quella benedetta complessità. Complessità che, a sua volta, non vuole essere sinonimo di complicanza, bensì rilancia la propria effettività in favore di scelte operate, in risposta alla giungla del reale, in maniera più flessibile, dalle conseguenze imprevedibili e non per forza funzionali ad una narrazione preconcetta.

    “La prima regola del club di Dunning–Kruger è che non sai di farne parte” (D. Dunning).

    Al tempo stesso, gli studi di David Dunning e Justin Kruger avevano analizzato ad inizio anni Novanta un campione di studenti universitari che sostenevano un esame, osservando un singolare fenomeno: la performance media effettiva, a confronto di quella auto-percepita, tendeva a presentare un divario sostanziale. Più nello specifico, sembrava che i meno studiosi tendessero a sopravvalutarsi e, al contrario, quelli con voti più alti a sottovalutare le proprie capacità.

    Un fenomeno dai tratti grotteschi che i due autori citano nel proprio articolo “Non qualificati e inconsapevoli: come le difficoltà nel riconoscere la propria incompetenza portano a autovalutazioni esagerate“, diventato un vero classico del pensiero razionale, dello studio dei bias cognitivi e del debunking in genere. Chi riferisce la sapiosessualità come una caratteristica di se stesso e del proprio potenziale partner (o meglio, del proprio io ideale e della proiezione idealizzata del futuro partner) potrebbe essere parte del club di cui nessuno è consapevole di essere, quello di Dunning e Kruger: potrebbe insomma considerarsi più intelligente di quanto non sia, e sovrastimare le doti del (o della) partner.

  • La questione di genere dentro Nosferatu di Robert Eggers

    La questione di genere dentro Nosferatu di Robert Eggers

    Per l’osservatorio EIGE qualsiasi questione di genere può essere definita come qualsiasi questione o tematica determinata da differenze basate sul genere e/o sul sesso tra donne e uomini. Non è atipico che questa tematica venga riprodotta all’interno del recente horror di Eggers, diventando oggetto di una vera e propria sottonarrazione rispetto alla trama principale. Da sempre – e un po’ meccanicamente – si considera Thomas Hutter, agente immobiliare inviato nel castello del conte Orlok per fargli firmare un contratto, il vero protagonista della storia in sè. In realtà nella versione di Eggers è anche Ellen a relegarsi un ruolo di protagonista duale, rispetto alle vicende sanguinose che vengono richiamate nella trama e per l’aspetto legato proprio al sangue: del resto il sangue è vita, e sarà mia, viene ripetuto da McBurney (il capo di Thomas) più volte. (attenzione: il saggio contiene spoiler della trama)

    Inizialmente vediamo la città di Wisborg, in Germania, con Ellen che sembrerebbe vivere felicemente assieme al marito Thomas Hutter. La relazione tra i due viene delineata come profonda, toccante e romantica, ma suggerisce anche implicitamente che non sia una relazione fisica: i due coniugi sembrano non avere tempo e/o modo di avvicinare troppo i loro corpi, vuoi per il lavoro frenetico di Thomas (che arriverà in ritardo dopo essersi trattenuto in effusioni con la moglie), vuoi per una relazione di stampo tradizionalista improntata sull’inibizione reciproca, vuoi perchè (dice apertamente Thomas, ad un certo punto) non potrebbero mantenere un eventuale figlio, cosa che invece possono tranquillamente la coppia benestante di amici (che ne hanno anche un terzo in arrivo). Ellen appare intrappolata in questa visione angusta della relazione e della sessualità, e infatti la vive in maniera controversa: la prospettiva che Thomas vada via per un lungo viaggio la turba, riferisce terribili incubi (uno davvero spaventoso: sogna di sposare la Morte in persona, di voltare le spalle all’altare e constatare che tutti gli invitati sono deceduti all’improvviso), ma viene costantemente minimizzata e quasi ostracizzata nel manifestare il malessere interiore. È il tema legato ad ogni questione di genere: la donna come eterna Cassandra, condannata a non essere creduta nelle proprie affermazioni, che il pubblico sa avere un fondamento. In un momento storico in cui la psicologia e la psichiatria erano ancora ai primi passi, di fatto, non meraviglia che Ellen dopo alcune crisi di sonnambulismo venga semplicemente legata al letto, e solo l’atteggiamento progressista di Von Franz (che evoca grottescamente conoscenze occultistiche nel farlo) la libera da questo gioco.

    Vale la pena di osservare che Ellen ad un certo punto avrà una discussione con il ricco amico del marito, accusando l’uomo di essere responsabile del contagio della peste nei confronti della moglie di lui: l’uomo si limita a richiamare la donna all’ordine, e a restare al suo posto. Ellen non sembra disposta a farlo e, a quel punto, finirà per inseguire il proprio destino che è quello di redimere l’umanità con il suo sacrificio. Nel frattempo Thomas proverà gelosia per le intenzioni del Conte Orlok e si precipiterà a casa, una volta evaso disperatamente dal castello, per evitare di farli incontrare. Tuttavia la connessione tra Ellen e il villain della storia è soprattutto mentale, prima ancora che fisica, al punto che Ellen anela inconsciamente ricongiungersi al conte – con cui, si scoprirà in seguito, ha avuto una storia da giovane. Questa rivelazione cambia radicalmente il rapporto tra i due, facendolo diventare apertamente conflittuale ed instillando il sesso nella relazione nel modo più diretto: in una sequenza che non sappiamo essere o meno condizionata dall’influsso a distanza del conte, Ellen viene posseduta con brutalità dal marito (in modo traumatico per lo spettatore, che non si aspetta un’evoluzione del genere), in funzione della gelosia che prova e della “minaccia” che possa avere un rapporto con il conte. Il vampiro portatore di peste arriva, finalmente, a casa di Ellen, assicurandosi che il patto firmato subdolamente dal marito di lei venga rispettato: la terza notte la donna accetta, ma ha già concordato il proprio sacrificio con Von Franz, l’unico a conoscere le sue intenzioni. Così mentre Von Franz, Sievers e Thomas trovano Knock nella bara del conte e danno fuoco al rifugio del conte per garantire che possa scomparire con la luce del sole, non avendo più dove nascondersi, Ellen si concede al conte più volte, per tutta la notte. Continuerà a ripetere “ancora” e a farsi mordere alle prime luci dell’alba, stremata e morente, consapevole di aver salvato il mondo con la sua prima (e autentica) libera scelta.

  • Perchè la coerenza è sopravvalutata (una provocazione)

    Perchè la coerenza è sopravvalutata (una provocazione)

    La parola coerenza deriva dal latino cohaerentia (l’essere unito) e tende generalmente ad assumere una valenza mentale, oltre che di presunta “solidità” psicologica. Se sei coerente voilà, sei a posto (in apparenza): è come essere credente in chiesa, metallaro a un concerto, con mille pagine già battute di fronte al tuo editore. È nell’ordine delle cose, essere coerenti, e soprattutto ordina le tue cose: sei coerente, per cui agisci secondo i tuoi principi e tanto basta. Del resto coerenza è il contrario di disomogeneità, disorganicità, frammentarietà, rappresenta lo stare uniti, stare assieme, usando un termine desueto potremmo anche dire sentirsi agglutinato, che fa presa con gli altri e dentro di te. Agglutination era (è stato) un celebre festival metal nonchè una delle rare occasioni di aggregazione metallara nel sud Italia. Nulla di male nella coerenza, insomma, e non sarà certo un articolo a far cambiare le cose. Coerenza intesa come generica costanza logica o affettiva nel pensiero e nelle azioni, come da manuale, non farebbe mai di per sè urlare allo scandalo in alcun modo, anzi. Il problema sta altrove (come sempre, direbbero i benaltristi).

    Esiste una forma di coerenza che non ci piace, e non riusciamo ad ammetterlo. Non la troviamo un valore desiderabile o, quantomeno, offre meno vantaggi e cose di cui andare orgogliosi di quanto potrebbe sembrare. La coerenza va sempre contestualizzata e compresa a fondo, prima di considerarla un valore positivo. Del resto già Sigmund Freud aveva notato, nella sua Psicologia delle masse, che un manipolatore che volesse condizionare un gruppo di persone

    non ha bisogno di coerenza logica fra i propri argomenti; deve dipingere nei colori più violenti, esagerare e ripetere sempre la stessa cosa.

    Gli strumenti di comunicazione ambigui, pericolosi e potenzialmente minacciosa della democrazia – intesa nel senso più ampio del termine, non solo politico ma anche sociale, emotivo ed economico – sono quelli della manipolazione, dello sfruttamento di bias cognitivi radicati nell’uomo fin dalle sue origini. Non fanno leva, questi strumenti, sul semplice fatto di sentirsi tranquilli perchè (mantra rassicurante) “ci siamo comportati come sempre abbiamo fatto“, “siamo stati coerenti e va bene così“. La coerenza di base permette di costruire senso e personalità alla vita, ovviamente, ma può diventare un’arma infida che potrebbe rivoltarsi contro. La coerenza ostentata aiuta a renderci unici o inimitabili (e neanche sempre) ma può portare, in altri termini, a ripetere sempre gli stessi errori e/o pattern, cosa che molte band metal  dopo aver prodotto capolavori negli anni 80 e 90 hanno finito per fare, diventando una parodia del genere.

    La coerenza è anche un modo per arroccarsi nelle proprie posizioni senza dare spazio all’altro, anzi investendolo di insulti e umiliazioni (peggio che peggio sui social, sfruttando l’illusione dell’anonimato digitale). Diventiamo parodie di noi stessi con il paravento della coerenza.

    Lo scrittore Ralph Waldo Emerson parlava, a riguardo, di uomini perennemente con la testa dietro le spalle, timorosi di essere ciò che vorrebbero essere, spaventati dall’idea di fare alcune cose o di pensarle (tra cui il diritto di cambiare idea, uno dei tabù del mondo moderno), alla ricerca di una fantomatica coerenza con il passato o, per dirla con le sue parole:

    Perché trascinarti dietro il cadavere della memoria, per paura di contraddire quel che hai detto e fatto in questo o quel luogo pubblico?

    Perchè, in altri termini, usare la coerenza come paravento per negare, negandosi a se stessi e agli altri, impedendosi di migliorare le cose per una malintesa forma di “coerenza” col proprio passato? Il punto dovrebbe essere esattamente questo, ed è proprio questa frase ad aver ispirato questo insolito rant contro il mito della coerenza ad ogni costo e in ogni dove.

    Perchè in fondo la coerenza può cedere il passo all’intelligenza, e qualora diventasse cristallizzata, morbosa o spigolosa può diventare qualcosa di cui preoccuparsi, da correggere, limare e lavorarci su. Fermo restando che la sua variante sana ha pieno diritto di esistere, e che potrebbe essere almeno un faro in grado di guidare le nostre vite e la sanità delle nostre azioni, con l’elasticità di liberarcene quando non ci serve e riprendercela se ne abbiamo davvero bisogno. La coerenza come scusante per non essere … no, non dovrebbe albergare in nessuno di noi.

    L’incoerenza può essere una linea di fuga da logiche troppo stringenti in cui non ci riconosciamo più.

    Photo by Raamin ka on Unsplash

  • Realismo capitalista potrebbe bastare

    Realismo capitalista potrebbe bastare

    La sensazione è diffusa: stiamo attraversando una notte lunga e tenebrosa che, piaccia o meno, sta cambiando la storia, nonchè la nostra percezione della realtà. Quello che cambia è soprattutto, introspettivamente, il modo in cui stiamo reagendo a questo cambiamento, che tendiamo a subire in una maniera mediamente passiva o senza troppi accorgimenti. Negli ultimi anni sono stati sdoganati molti luoghi comuni relativi alla psicologia o alla psicoterapia, che vengono praticate con maggiore disinvoltura e sono quantomeno meno tabù di quanto non fossero tempo fa. Viviamo comunque in un paese in cui è più socialmente accettabile confessarsi con il prete che parlare con un analista, e questo diventa un po’ lo specchio in cui ci deformiamo.

    In questo il capitalismo gioca un ruolo determinante, perché sembra potersi additare a causa perenne o “piovra” sul mondo in cui viviamo:  e per quanto sia facile prendersela col capitalismo se, ad esempio, siamo pagati poco (ma anche se un appuntamento romantico dovesse fallire), nessuno sembra aver trovato una ricetta alternativa al mondo che non sia basato sul capitalismo. Che come un padre severo eppure comprensivo, rigido ma in grado di concedere la grazia, ci riaccoglie pacificamente nonostante qualcuno di noi abbia “strane idee” per contrastarlo.

    Realismo capitalista di Mark Fisher, opera profetica della direzione intrapresa dal mondo (nostro malgrado), finiva su questa falsariga:

    La lunga e tenebrosa notte della fine della storia va presa come un’opportunità enorme. La stessa opprimente pervasività del realismo capitalista significa che persino il più piccolo barlume di una possibile alternativa politica ed economica può produrre degli effetti sproporzionatamente grandi. L’evento più minuscolo può ritagliare un buco nella grigia cortina della reazione che ha segnato l’orizzonte delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile

    Questa frase di Mark Fisher riflette il suo pensiero critico nei confronti del capitalismo e della “fine della storia“, concetto associato alla vittoria del capitalismo liberale come sistema politico-economico definitivo dopo il crollo del comunismo. Fisher suggerisce che la pervasività del realismo capitalista, che permea ogni aspetto della nostra vita e immagina un futuro in cui non ci sono alternative al capitalismo, crea una sorta di stagnazione culturale e politica. Molto probabilmente Fischer non aveva previsto che ci sarebbero stati un gran numero di persone che arrivano a ripudiare l’occidente pur di non ripudiare il capitalismo, e lo dimostrano le simpatie sempre più aperte della classe politica e di soggetti che popolano questa terra rispetto a dittature feroci che tutto sommato, signora mia, si sta meglio con loro che con i politici che ci siamo beccati.

    Tuttavia, Fisher vedeva una luce in quella “lunga e tenebrosa notte della fine della storia“: anche il più piccolo segno di un’alternativa al dominio capitalista potrebbe avere un impatto significativo. La deviazione dalla norma assume un’importanza vitale anche nel piccolo, anche nella nostra capacità di fare scelte diverse per quanto le stesse sembrano insensibili al mondo che ci circonda. La rigidità del realismo capitalista finisce del resto, per definizione, per rendere qualsiasi deviazione dalle sue norme o aspettative potente e significativa, per quanto poi il meccanismo monologante generale diluisca e sminuiscono questo aspetto. Anche un evento apparentemente insignificante può aprire la possibilità di immaginare e costruire alternative politiche ed economiche. Dobbiamo stare attenti probabilmente a non essere noi stessi a finire per autoboicottarci, forse. Potrebbe bastare. Nel senso che sarebbe già qualcosa.

    Da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile.

    (nella foto: Fisher che da’ la mano a Lacan, immaginato da Midjourney)

  • Jacques Ellul, il teologo che teorizzò la propaganda nel 1962

    Jacques Ellul, il teologo che teorizzò la propaganda nel 1962

    Tra gli studi sull’anarchismo meritano una menzione particolare quelli incentrati sul suo legame con il cristianesimo, di cui il teologo Jacques Ellul fu precursore. L’anarchismo cristiano fa riferimento ad un passaggio della Bibbia (Libro dei Giudici) in cui sembra si faccia spazio, nel Discorso della montagna, all’idea che un sovrano avrebbe provocato solo oppressione e repressione sul popolo, facendo appello come possibile alternativa ad un popolo che possa obbedire a Dio senza alcun intermediario. Idea affascinante quanto utopica, verrebbe da dire ancora oggi, tanto più se si considerano gli studi di Ellul sul potere della propaganda e sulla sua capacità di guidare il nostro agire. L’idea di propaganda è, forse non a caso, declassata a prodotto commerciale con cui costruire pseudo-sottoculture alternative: felpe, magliette, cappellini modello I want to believe, io desidero credere in qualcosa, sono consapevole della propaganda e la combatto dall’interno, facendomi guidare da un potere insito negli e-commerce e senza assolutamente mettere in discussione il capitalismo, motore immobile dell’universo. Sarà utopico, sarà inconcepibile, sarà contraddittorio? Non importa, perchè la propaganda ha cristallizzato certe idee e le ha iniettate nella nostra mente da tempo, ed è forse troppo tardi per tornare indietro.

    Il saggio Propaganda (J. Ellul, 1962) non è solo indicativo della propaganda politica, che sarebbe già di per sè clamoroso per la quantità di riferimenti e approfondimenti in esso presenti. Ciò che rende unico il lavoro di Ellul (dei primi anni Sessanta, recentemente pubblicato in Italia da Piano B editore) è nel titolo completo dell’opera: “come si formano i comportamenti degli uomini“. Hai detto niente. Una riletture della propaganda in chiave non solo ideologica, tecnica e morale, ma altresì psicologica, sul piano sociale e come chiave di volta per determinare il nostro agire quotidiano. Sicuramente inquietante come idea, ma realistica.

    Pubblicato a Parigi nel 1962, Propaganda di Jacques Ellul è un saggio politico poderoso e approfondito, di circa quattrocento pagine dense di riferimenti politici d’epoca (un intero capitolo, quello finale, è dedicato alla propaganda di Mao Zedong, ad esempio). L’idea dell’educazione marxista permanente, per intenderci – ma anche quella dell’indottrinamento di massa, in vista di un futuro in cui quel tipo di potere possa consolidarsi. Un classico della propaganda, insomma, che culmina con l’idea del lavaggio del cervello dei prigionieri politici già sperimentato da altre nazioni.

    Diventa indicativo, soprattutto, il concetto indicato da Ellul come “cristalizzazione psicologica“, ovvero il processo mentale secondo cui l’agire, i pregiudizi, i pensieri vengono incanalati e globalmente chiarificati dall’incedere della propaganda, che trova una risposta ad ogni incertezza e fornisce risposte chiare, non contraddicibili, prive di dubbi e incertezze. L’individuo ha bisogno di giustificazioni per votare, comportarsi nella vita di ogni giorno, vivere la propria esistenza, e la propaganda ben costruita può abilmente tessere una rete di relazioni, idee e pensieri in grado di dargli supporto incondizionato. Così facendo l’umanità, conclude Ellul, finisce per perdere ogni spirito critico e ogni capacità di flessibilizzare il pensiero, rifugiandosi nelle false certezze cristalizzate o cementificate offerte dalla propaganda. Il saggio è del 1962, è bene ricordarlo, ed è ampiamente influenzato dallo studio della propaganda dei regimi (ferita all’epoca ancora aperta): del resto si applica con disinvoltura anche oggi alle nuove tecnologie e alla tecnocrazia dei social network. Questi ultimi, lungi dal favorire il libero scambio di idee, si configurano sempre più come rigide macchine di ingegneria sociale, dove il consenso viene fabbricato per via algoritmica.

    Tale processo di cristallizzazione ricorda per altri versi il meccanismo di difesa inconscia dell’Io scoperto dai tempi di Freud, che si rifugia in una struttura rigida per proteggersi dall’angoscia dell’incertezza del vivere quotidiano. Come nella più classica nevrosi, l’individuo cede il proprio potenziale creativo e dialettico, preferendo il rassicurante conforto di una narrazione preconfezionata che non richiede sforzi critici. Laddove il Sé potrebbe abbracciare la complessità e la fluidità del reale, la propaganda lo spinge a un processo regressivo: la dipendenza infantile da un’autorità superiore, un papà autoritario che offre verità assolute, schemi binari di interpretazione del mondo. È il trionfo del Super-Io autoritario sulla spinta del principio di piacere, sulla forza dirompente della pulsione di vita, che potrebbe (e forse dovrebbe) invece sovvertire l’ordine simbolico imposto.

    Tale dinamica – lungi dall’essere spenta, al giorno d’oggi – non è altro che la codificazione del controllo sociale e del dominio sistematico sull’individuo. La propaganda non è solo un mezzo, ma un fine: eliminare ogni possibilità di dissenso, sabotare alla radice l’autonomia di pensiero, che è il primo motore del cambiamento radicale. L’anarchismo, che rifiuta ogni forma di autorità imposta, si oppone alla cristallizzazione descritta da Ellul proprio perché ne riconosce l‘essenza mortifera: cementare l’immaginazione, ridurre l’umano a ingranaggio, spogliare l’esistenza della sua componente più ribelle, il pensiero critico. Nel mondo descritto dalla propaganda, non c’è spazio per l’utopia, per il sogno di una società senza gerarchie e confini. La propaganda costruisce una gabbia invisibile in cui il potere si autoalimenta, soffocando la voce dell’individuo e relegandolo al ruolo di spettatore passivo di una realtà predeterminata.

    Di Jan van Boeckel, ReRun Productions - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=44342274
    Di Jan van Boeckel, ReRun Productions – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=44342274