BRIVIDI_ (84 articoli)

Recensioni dei migliori thriller usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Razzismo, horror e tema del doppio: “Noi – Us” (J. Peele, 2019)

    Razzismo, horror e tema del doppio: “Noi – Us” (J. Peele, 2019)

    La vacanza di una famiglia americana viene bruscamente interrotta dalla presenza di alcuni estranei: sembrerebbe la più classica home invasion, ma si tratta di veri e propri “gemelli cattivi“.

    In breve. Horror diretto e coinvolgente, privo degli eccessi che – in questi casi – li caratterizzano, interpretato e diretto con grande stile. Alla base del soggetto varie suggestioni tratte dal meglio del genere horror e slasher.

    Scritto e diretto da Jordan Peele (noto per l’esordio Scappa – Get Out, un horror satirico ispirato al primo Romero), Noi è un film dalle svariate suggestioni, dotato anche di una buona dose di equilibrio: a differenza della media dei casi, infatti, riesce a bilanciare diverse componenti, senza mai appesantire la visione. Si prende spunto dagli stereotipi classici da thriller/horror, che poi vengono declinate con modalità slasher (o multi-slasher, dato che ogni personaggio ha il proprio antagonista). Tanto che, prima di iniziare le riprese, Peele distribuì una lista di undici horror al cast, in modo da disporre di un linguaggio condiviso ed una serie di punti comuni di riferimento. Un focus che nel film si evidenzia con una certa lucidità, e che attraversa Gli uccelli, Lo squalo, Shining, Babadook, passando per It Follows, Martyrs, Il sesto senso, Lasciami entrare e così via.

    Il film è, come nella tradizione carpenteriana, ripreso da continui ed insistenti simbolismi, spesso di natura biblica (Geremia 11:11: Perciò, così parla il SIGNORE: “Ecco, io faccio venir su di loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò.”) ma anche spudoratamente cinefila: Jason, ad esempio, è uno dei giovani protagonisti ed è un chiaro riferimento al cult Venerdì 13 (molte scene sono girate su un lago), e anche la continua comparsa della t-shirt di Thriller di Michael Jackson sembra avere più di una motivazione simbolica.

    Se all’inizio Noi non evoca suggestioni coinvolgenti – e anzi rischia di sembrare stereotipato o “già visto” – basta attendere i primi twist della pellicola per cambiare radicalmente idea: l’horror di Peele non solo è ben realizzato, ma è anche caratterizzato da una gradevole venatura di humour nero (il regista è anche un comico ed un produttore, per inciso, e la sequenza dell’aggressione a due personaggi con dispositivo simil-Alexa a supporto è, in ogni senso, magistrale). Il sarcasmo, del resto, aiuta a superare un problema (o almeno, ciò che potrebbe rivelarsi tale per alcuni spettatori) che affligge questo sottogenere fin dalle prime uscite, ovvero l’abuso del senso di sospensione (il piano sequenza disperato, drammatico e interminabile in Funny Games) e la facile degenerazione in sequenze inutilmente exploitation o torture porn (una tentazione a cui pochi registi, trattando questo genere, hanno saputo resistere). Peele fa la differenza: non solo ribalta l’assunto narrativo, mostrando dei protagonisti afro-americani e relegando agli attori bianchi un ruolo secondario, ma riesce a bilanciare ogni componente dell’intreccio, senza abusare del comico (il che avrebbe reso ridicolo o poco credibile il risultato) nè eccedere nella violenza (che in Us ovviamente c’è, ma è sempre funzionale alla storia).

    Dopo averci suggestionato con una sequenza chiave, quasi onirica –  che sembra citare Il tunnel dell’orrore, siamo proiettati in una dimensione nuova: una famigliola in vacanza in preda ai consueti alti e bassi (Adelaide, la madre, è la ragazzina dell’episodio visto all’inizio, ed è tormentata da un trauma infantile: si era persa in un labirinto di specchi deformanti, ha smesso di parlare ed è convinta di aver incontrario una propria gemella). Il tormento viene brutalmente interrotto da un problema nuovo: quattro estranei, sinistri e perfettamente immobili, si sono posizionati di notte all’esterno della loro casa, minacciando di entrarvi. Qui il riferimento più evidente sembra essere a film come You’re the next, ma bisognerebbe citare, come minimo, anche l’attitudine dei ragazzi di Funny Games. L’atmosfera diventa più rarefatta e sinistra, l’aggressività degli estranei sembra poco giustificabile ma, soprattutto, notiamo una particolare ritualità nei loro gesti. Proprio in questa teatralità mimica, in effetti, che caratterizzerà i villain con una particolarissima forma di coreografia, risiede uno dei punti di forza del film di Peele, unita alla particolare forma di disfonia di cui soffre il “doppio” del personaggio interpretato da Lupita Nyong.

    Una famiglia contro i rispettivi “gemelli cattivi”: un’idea semplice, funzionale quanto originale nelle conseguenze. Se l’impianto generale potrebbe essere tratto da un episodio de Ai confini della realtà (e in effetti esiste un episodio di una serie di fantascienza anni ’60, Lost in Space, dal nome The anti matter man, il quale racconta del viaggio dei due protagonisti in un mondo parallelo, in cui dovranno fronteggiare i rispettivi doppelgänger), concettualmente Peele si ispira anche all’horror alla Romero, in un modo che diventerà particolarmente evidente nella seconda metà del film. E se la sua conoscenza del genere (e relativa attitudine) è autentica, originale e più che degna di nota, bisognerebbe citare almeno un ulteriore film che potrebbe averlo ispirato, ovvero il cult Doppia immagine nello spazio – Doppelganger.

    Se il film riprende e rielabora i più classici stereotipi del genere, quindi, va anche specificato che lo svolgimento della trama si basa anche sul mito della caverna, di cui scrisse Platone nell’opera filosofica La repubblica. Insomma quello di Peele è un horror autoriale, compatto e credibile, sostanzialmente privo di difetti e con tanto di doppio finale: una piccola perla di cui il genere, ad oggi, sembra avere un bisogno vitale.

  • Cani arrabbiati: il cult di Bava che terrorizza ancora oggi

    Cani arrabbiati: il cult di Bava che terrorizza ancora oggi

    Una rapina finita male è l’inizio di un road movie da incubo: uno dei migliori cult del cinema estremo all’italiana.

    In breve: cinismo, claustrofobia, personaggi molto caratterizzati e finalone a sorpresa costituiscono i quattro ingredienti di “Cani arrabbiati” di Mario Bava. Per chi volesse vedere i film più controversi è un vero e proprio must, più solido come narrazione rispetto a troppi successori/imitatori.

    Partendo dal titolo del film, e pensando al fatto che è stato inedito per anni, ristampato in versione edulcorata nel finale solo anni fa, viene subito da pensare che si tratta dell’essenza della “metà oscura” di Mario Bava. Il regista ha infatti diretto prevalentemente horror, ma è stato artefice in uno dei suoi momenti più ispirati dello slasher-movie per eccellenza Reazione a catena. In breve è stato un terrorista dei generi come Fulci, e Cani arrabbiati è l’esposizione alla luce solare di tutti gli archetipi di crudeltà umana, dove non esiste speranza di salvezza e a trionfare sono la violenza ed il mero interesse economico. Il tutto usando il linguaggio della violenza e dell’exploitation, raramente a livelli tanto lucidi quanto insostenibili.

    Si tratta di un thriller atipico, per il fatto che è ambientato quasi interamente nello spazio ristretto di una macchina, nella quale tre criminali prendono in ostaggio un uomo, una donna ed un bambino che hanno la sola colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. I tre cattivi della storia (“Dottore”, “Trentadue” e “Bisturi”) non sono che degli avidi psicopatici che uccidono senza rimorso, in nome di uno sgangherato ed imprescindibile “mors tua, vita mea”: al tempo stesso dimostrano di possedere un lato prettamente umano, che spiazza ed inchioda lo spettatore alla poltrona fino all’ultima scena.

    Ed in quella lotta all’ultimo sangue per “tutto o niente”, che ricorda vagamente il discorso di Giulio Sacchi in “Milano odia…”, risiede il significato di questo Bava nichilista e profondamente pessimista. A cominciare dall’inaspettato e pazzesco finale, in cui si scopre un velo di Maya che mostra una realtà inaspettata, forse ancora meno sostenibile del racconto in sè. Il che significa, in altri termini, l’impossibilità di catalogare i comportamenti per divisioni preconcette tra bene e male, oltre a rappresentare il prezzo da pagare per sopravvivere, che è spesso – per assurdo – moralmente inaccettabile. Ognuno lotta per se stesso, e lo sforzo finisce beffardamente per non essere quasi mai correlato all’effetto finale che provoca.

    Tra gli attori, da ricordare Riccardo Cucciolla in una delle sue migliori interpretazioni, e Don Backy che interpreta il crudele “Bisturi”, le cui confusioni mentali vengono bizzarramente (e in modo geniale) rese da una pallina di flipper che rimbalza mediante un frenetico montaggio. Claustrofobia su pellicola senza contaminazioni, se non quelle suggerite dalla strada – e parlare solo di road-movie appare quantomeno limitativo. Realizzato nel 1974, in realtà non uscì all’epoca (la casa di produzione fallì), e soltanto anni fa è stato recuperato con il titolo Semaforo rosso e riproposto in DVD; ad oggi, è un titolo piuttosto agevole da reperire (RaroVideo). Probabilmente le tematiche trattate, unite al lugubre pessimismo sull’uomo che accompagna il film, non furono incentivi alla pubblicazione e diffusione dell’opera, rimasta semi-sconosciuta per molto, troppo tempo.

    Le musiche sono di Stelvio Cipriani, uno dei più grandi musicisti di cinema anni 70 ed autore di numerose altre colonne sonore (Incubo sulla città contaminata, La morte cammina con i tacchi alti e lo stesso Reazione a catena).

  • Sinister: la creatura di Derrickson in bilico tra serial killer e sovrannaturale

    Sinister: la creatura di Derrickson in bilico tra serial killer e sovrannaturale

    Ellison è uno scrittore in crisi: il suo libro “Kentucky Blood” è stato un best seller, ma attualmente vive nel dimenticatoio, e sta cercando l’ispirazione per un nuovo lavoro. Tacitamente memore del Jack Torrance di Shining, si stabilisce con la famiglia all’interno di una casa in cui, come vediamo dall’inizio, sono avvenuti degli orrendi omicidi. Il ritrovamento di una serie di filmini in formato Super 8 introduce ad un terrificante “filo” che sembra ricondursi ad un killer seriale.

    In breve. Horror a tinte sovrannaturali che affascina per via della possibile spiegazione razionale che lo accompagna: per quanto il ritmo possa latitare in certi momenti, certamente un buon film con finale neanche troppo “telefonato”.

    “Innegabilmente spaventoso”, “prevedibile”, “spaventoso ma artificioso”: queste alcune delle controverse reazioni della critica alla prima visione del film: un lavoro diretto e sceneggiato da Derrickson che non delude le aspettative.  Sviluppando uno degli archetipi più classici del cinema del terrore e thriller – una situazione parzialmente ordinaria che degenera, più una serie di segreti ben nascosti nella storia – il regista ci propone in particolare un Ethan Hawke in gran forma, credibile ed immedesimato nella parte. Chi ha girato il filmato della morte della famiglia? Per quale ragione non è stato ripreso uno dei componenti? Perchè è stato realizzato il tutto? Sono queste le domande che angosciano il protagonista, coadiuvato dalle interpretazioni intense e coinvolgenti dei propri familiari. Alla base di questo singolare thriller contaminatissimo con l’horror, vi è di fatto una situazione di conflitto legata alla tensione che trasmette il protagonista per via del lavoro che svolge (scrivere romanzi incentrati su fatti reali di cronaca nera).

    La figura di Bughuul, demone mangiatore di bambini (riferito nel film come Mr. Boogie, “l’uomo nero”), viaggia attraverso il tempo e lo spazio alla ricerca di giovani vittime di cui nutrirsi. Figura senza dubbio affascinante la sua, perchè rielabora curiosamente la figura del villain – come potrebbe esserlo Nightmare, Smiley o Jason – e ne arrichisce i connotati, inserendovi elementi di pseudo-tradizione babilonese. Questo è uno degli elementi di forza di una storia che, in “Sinister“, probabilmente qualcuno potrebbe trovare prevedibile ma che, di fatto, non lo è neanche troppo, specie se si considera il sulfureo (e nerissimo) finale. La quasi totalità dell’intreccio di “Sinister“, dal canto suo, si fonda sulla contrapposizione amore/odio instauratosi tra Ellison – che suggerisce una morbosa ricerca della verità, anche a costo di superare ogni limite – e Tracy, che invece simboleggia la coesione della famiglia, e più in generale l’importanza della sfera emotiva. Di fatto questo tipo di contrapposizione riesce, seppur con qualche piccola forzatura, a far emergere un film di buon ritmo e livello, capace di appassionare anche lo spettatore più smaliziato. Certamente non mancano riferimenti e citazioni più o meno spudorate: a parte un parziale parallelismo con Shining, svariati elementi di “Sinister” richiamano The ring, una certa tradizione horror nipponica legata ai demoni che tornano ciclicamente (Ringu, Noroi, Izo), le atmosfere di Them e, in buona parte, quelle snuff-orrorifiche di REC.

    Per questa ragione piacerà senza dubbio a chi è amante di questo genere di scenari, per quanto la struttura stessa del film riesca ad aprirsi ai gusti di più di un tipo di pubblico, anche quello meno avvezzo – come il sottoscritto – alle pellicole incentrate su eventi sovrannaturali.

  • Memento: trama, produzione, spiegazione del film

    Memento: trama, produzione, spiegazione del film

    Titolo: Memento
    Regia: Christopher Nolan
    Cast principale: Guy Pearce, Carrie-Anne Moss, Joe Pantoliano

    “Memento” è un thriller psicologico del 2000 scritto e diretto da Christopher Nolan. La trama segue Leonard Shelby (interpretato da Guy Pearce), un uomo che soffre di perdita di memoria a breve termine a causa di un trauma cerebrale subito durante un’aggressione in cui sua moglie è stata violentata e uccisa. Leonard non riesce a formare nuovi ricordi a lungo termine e vive con l’incapacità di conservare nuove esperienze. La sua ricerca di vendetta è guidata da una serie di tatuaggi, polaroid e annotazioni che si fa sul corpo per ricordare gli eventi importanti. La storia è narrata in ordine cronologico inverso, in modo che gli spettatori vivano l’esperienza di Leonard e della sua confusione.

    Produzione

    “Memento” è stato prodotto con un budget relativamente basso di circa 5 milioni di dollari. Christopher Nolan ha adattato la sceneggiatura da un racconto del fratello Jonathan Nolan intitolato “Memento Mori”. Il film è noto per la sua struttura narrativa non lineare, che è diventata un marchio di fabbrica del regista.

    Stile

    “Memento” è stato scritto e diretto da Christopher Nolan ed è uscito nel 2000. Il film presenta uno stile visivo distintivo, con sequenze in bianco e nero che scorrono in ordine cronologico inverso, alternate a sequenze a colori in ordine cronologico normale. Questa scelta dovrebbe, nelle intenzioni registiche, aiutare il pubblico a entrare nella mente confusa di Leonard e a sperimentare la sua lotta per capire ciò che sta accadendo.  Nolan ha lavorato a stretto contatto con suo fratello, Jonathan Nolan, per sviluppare la storia e la struttura narrativa uniche del film. La produzione di “Memento” è stata notevolmente interessante e ha contribuito a definire il suo stile originalissimo, praticamente unicum per l’epoca.

    Ecco alcuni punti chiave sulla produzione del film:

    1. Struttura narrativa non lineare: Una delle caratteristiche più distintive di “Memento” è la sua struttura narrativa non lineare. La storia è presentata in due sequenze separate: una in bianco e nero che avanza cronologicamente e l’altra a colori che va all’indietro nel tempo. Questa struttura riflette la prospettiva del protagonista, Leonard, che soffre di amnesia anterograda, rendendo la trama confusa e frammentata.
    2. Finanziamento indipendente: Il film è stato prodotto con un budget relativamente modesto di circa 9 milioni di dollari. Il finanziamento è stato ottenuto da diverse fonti, tra cui un consorzio di investitori indipendenti e la Newmarket Films.
    3. Cast e personaggi: Il film ha visto la partecipazione di attori come Guy Pearce (nel ruolo di Leonard), Carrie-Anne Moss, e Joe Pantoliano. Ciascuno di questi attori ha svolto un ruolo significativo nel tessere la trama intricata del film.
    4. Lavoro sul set: Christopher Nolan e il suo team creativo hanno lavorato in modo diligente per creare l’atmosfera giusta per il film. La fotografia in bianco e nero per la sequenza in avanti e a colori per quella all’indietro è stata una scelta stilistica chiave. La trama si svolge in vari luoghi, spesso degradati e urbani, per creare un’atmosfera di confusione e sospetto.
    5. Critiche positive: “Memento” è stato acclamato dalla critica per la sua narrazione innovativa e complessa, oltre che per le performance degli attori. Il film ha guadagnato una seguace base di fan grazie alla sua sfida alle convenzioni narrative tradizionali.

    La produzione di “Memento” ha contribuito a definire lo stile e la firma distintiva di Christopher Nolan come regista, portando all’attenzione del pubblico la sua abilità di creare trame complesse e coinvolgenti.

    Sinossi

    Leonard cerca di scoprire l’identità dell’aggressore che ha ucciso sua moglie e ha causato la sua condizione. Durante il suo viaggio, incontra Natalie (Carrie-Anne Moss) e Teddy (Joe Pantoliano), due persone che sembrano aiutarlo, ma la fiducia di Leonard viene spesso messa in discussione. La trama svela lentamente le connessioni tra i personaggi e il modo in cui Leonard è stato manipolato.

    Curiosità

    • “Memento” è diventato un film di culto grazie alla sua trama unica e alla struttura narrativa innovativa.
    • Il film affronta temi complessi come la memoria, l’identità e la percezione della realtà.

    Spiegazione dettagliata finale (Spoiler)

    Alla fine del film, si scopre che la realtà non è come sembra. Teddy rivela a Leonard che in realtà è stato lui a uccidere sua moglie, ma Leonard ha creato una narrazione fittizia in cui insegue un criminale chiamato “John G.” per dare un senso alla sua vita. Teddy ha manipolato Leonard per i suoi scopi personali, sfruttando la sua incapacità di formare nuovi ricordi. Leonard ha manipolato la sua stessa percezione della realtà, creando una serie di indizi falsi e bugie per guidare la sua ricerca vendicativa.

    Il film sfida lo spettatore a mettersi nei panni di Leonard e a cercare di separare la verità dalle menzogne. La sequenza finale, in cui Leonard decide di mentire a se stesso creando una nuova verità da inseguire, mette in luce la fragilità della memoria e l’illusione della percezione. La struttura narrativa a due fili, che scorrono in direzioni opposte, rappresenta la dualità tra la realtà oggettiva e la percezione soggettiva.

    In sostanza, “Memento” mette in discussione la natura della verità e la costruzione della realtà attraverso la lente di una mente gravemente compromessa. La storia di Leonard è un’esplorazione profonda e disturbante della memoria e dell’identità umana.

    Monologo finale del film

    Devo credere in un mondo fuori dalla mia mente, devo convincermi che le mie azioni hanno ancora un senso, anche se non riesco a ricordarle. Devo convincermi che, anche se chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci… allora sono convinto o no che il mondo continua ad esserci? …c’è ancora? Sì. Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi siamo, io non sono diverso… Allora, a che punto ero?

    Il monologo tratto dal film “Memento” di Christopher Nolan riflette profonde dinamiche psicologiche, inclusa la questione dell’identità, della realtà soggettiva e della ricerca di senso. In termini psicoanalitici, questo monologo potrebbe essere interpretato attraverso il concetto di inconscio, le difese psicologiche e la ricerca di coerenza e continuità.

    1. Inconscio e memoria: La psicoanalisi suggerisce che parte delle nostre motivazioni e desideri sono nascosti nell’inconscio. Il protagonista del film, Leonard, soffre di una rara forma di amnesia che gli impedisce di creare nuovi ricordi a lungo termine. Questa condizione può essere vista come una rappresentazione dell’inconscio che influenza profondamente il suo comportamento. Leonard lotta per afferrare la realtà a causa della sua incapacità di formare nuove memorie e di integrarle nel suo io cosciente.
    2. Difese psicologiche: Nel monologo, il personaggio esprime la necessità di credere in un mondo esterno che abbia un senso, nonostante la sua amnesia. Questa potrebbe essere una forma di “negazione” o “razionalizzazione”, meccanismi di difesa attraverso i quali la mente cerca di ridurre l’ansia nascondendo o modificando la realtà. Leonard sembra cercare di creare un senso di continuità e stabilità, nonostante le sfide della sua condizione.
    3. Ricerca di coerenza e identità: Il monologo riflette anche la lotta di Leonard per mantenere un senso di identità e continuità. L’identità personale è spesso legata alla memoria e alla storia personale. Leonard si aggrappa ai pochi ricordi che ha, come i tatuaggi che elencano i dettagli importanti della sua ricerca di vendetta. Questo può essere interpretato come un tentativo di preservare un senso di sé coerente e individuale, anche quando la sua capacità di ricordare è compromessa.
    4. Crisi della realtà soggettiva: La domanda ricorrente di Leonard sull’esistenza continua del mondo suggerisce una lotta con la percezione della realtà soggettiva. La sua incapacità di creare nuove memorie lo costringe a dipendere fortemente dai suoi ricordi passati, ma allo stesso tempo si trova spesso in situazioni in cui non può confermare o negare la veridicità delle informazioni che gli vengono presentate. Questa ambiguità contribuisce alla sua costante confusione sulla realtà.

    In sintesi, il monologo del protagonista riflette una complessa interazione tra l’inconscio, le difese psicologiche, la ricerca di identità e la percezione distorta della realtà. La trama del film, che è strutturata in modo non lineare e sfocia nell’ambiguità, enfatizza ulteriormente la sfida di Leonard nel trovare un senso coerente nel caos delle sue esperienze amnesiche.

  • Il cigno nero: cast, trama, spiegazione del film

    Il cigno nero: cast, trama, spiegazione del film

    Cast e Produzione

    “Il Cigno Nero” è un film psicologico-thriller del 2010 diretto da Darren Aronofsky. Il cast principale include Natalie Portman nel ruolo di Nina Sayers, Vincent Cassel nel ruolo di Thomas Leroy, Mila Kunis nel ruolo di Lily, e Barbara Hershey nel ruolo di Erica Sayers.

    Storia

    La trama ruota attorno a Nina, una ballerina ambiziosa che ottiene l’opportunità di interpretare il doppio ruolo di Odette e Odile nel balletto “Il Lago dei Cigni”. Mentre cerca di abbracciare l’aspetto oscuro del personaggio di Odile, Nina inizia a lottare con la sua salute mentale. La pressione, la competizione con Lily e la dominanza autoritaria di Thomas conducono gradualmente Nina verso una spirale di allucinazioni e paranoia. Il confine tra realtà e fantasia diventa sempre più sfumato, portando alla disintegrazione della sua psiche.

    Stile registico

    Darren Aronofsky è noto per le sue opere caratterizzate da tematiche psicologiche profonde e visivamente intense. In “Il Cigno Nero”, utilizza la tecnica di montaggio veloce, la fotografia oscura e gli effetti speciali per creare un senso di instabilità e tensione. La telecamera spesso segue da vicino il punto di vista di Nina, immergendoci nelle sue emozioni tumultuose.

    Sinossi

    Nina Sayers è una ballerina ambiziosa che ottiene il ruolo principale in “Il Lago dei Cigni”. Mentre si immerge nel doppio ruolo di Odette e Odile, inizia a sperimentare allucinazioni e una crescente paranoia. La competizione con la ballerina Lily e la dominanza autoritaria di Thomas la spingono verso una spirale di instabilità mentale. Le sue allucinazioni la portano a creare un alter ego oscuro che la spinge oltre i suoi limiti. Alla fine, Nina si esibisce magnificamente nel ruolo, ma nel suo tentativo di incarnare il cigno nero, arriva a auto-infliggersi una ferita fatale. Muore sul palco, realizzando finalmente la perfezione artistica e sacrificando la sua stessa vita nel processo.

    In conclusione, “Il Cigno Nero” esplora i temi della lotta interiore, dell’auto-sacrificio per l’arte e della ricerca della perfezione. La psiche complessa di Nina e la sua discesa nell’oscurità sono raffigurate attraverso elementi visivi intensi e una narrazione avvincente, creando un’esperienza cinematografica affascinante e disturbante allo stesso tempo.

    Curiosità

    • Natalie Portman vinse l’Oscar per la Migliore Attrice Protagonista per la sua interpretazione di Nina.
    • La preparazione di Natalie Portman per il ruolo richiese un addestramento intensivo nella danza classica.

    Spiegazione del finale (con SPOILER alert)

    La narrazione di “Il Cigno Nero” rappresenta la lotta di Nina con la sua dualità interiore. Odette e Odile, i due cigni nel balletto, incarnano la sua lotta tra l’innocenza e l’oscurità. Lily rappresenta l’aspetto oscuro di Nina che desidera emergere. Le allucinazioni e le ferite auto-inflitte riflettono il conflitto tra la perfezione artistica e l’autodistruzione. L’evento culminante del film è la performance finale, in cui Nina danza con straordinaria passione. La scelta di danzare in modo così travolgente è un’emanazione del suo alter ego oscuro, Odile, ma anche un espediente per liberarsi dalle restrizioni della sua personalità repressa. La sua morte sul palco rappresenta il raggiungimento della perfezione artistica e personale, ma a costo della sua vita.

    Interpretazione alternativa del finale

    Un utente Reddit ha proposto un’interpretazione alternativa del finale nel 2017:

    L’idea è che Nina non si sia davvero pugnalata e non sia morta dissanguata, ma che questo sia solo una metafora che rappresenta il fatto che ha ucciso il cigno bianco – che rappresenta l’innocenza e la fragilità – a livello interiore, e che così facendo abbia smarrito completamente se stessa. La morte del personaggio sarebbe quindi, in questa fan theory, completamente onirica o avvenuta solo a livello inconscio. Cosa provata da un ulteriore dettaglio: nella scena finale, quando tutti si congratulano con lei, la ferita non viene notata immediatamente, e questo potrebbe in qualche modo dimostrare la natura allucinatorio-onirica della sequenza, cosa peraltro non nuova nel resto del film.

    Immagine di copertina: Di Utente:Bart ryker – http://www.hd-trailers.net/, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=3087501