Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Francesca: il thriller argentiano di  Luciano Onetti

    Francesca: il thriller argentiano di Luciano Onetti

    Un serial killer si aggira per la città prendendosi gioco della polizia, disseminando indizi relativi alla Divina Commedia di Dante Alighieri. Il tutto sembra ricollegarsi ad un caso irrisolto di quindici anni prima: la giovane figlia di un noto drammaturgo che scompare nel nulla.

    In breve. Un giallo anni 70 fuori tempo massimo (il film è del 2015), senza che ciò risulti stucchevole nè narcisistico. Archetipizzato su un modello di successo del passato (tra i film più noti c’è Profondo rosso), è tutt’altro che un mero esercizio di stile; al contrario, risulta accattivante per certe scelte fuori canone, sempre spiazzanti in positivo. Il retrò non disturba neanche il più accanito modernista: una vera e propria gemma del genere, per quanto destinata quasi esclusivamente a baviani o argentiani DOC. Da riscoprire.

    Scritto e diretto da Luciano Onetti e in collaborazione con Nicolas Onetti (nei titoli di testi gli Onetti abbondano, ed è facile perdere il conto), Francesca è un thriller appartenente alla corrente del revival anni 70, in particolare il giallo-thriller archetipizzato da Tenebre, senza dimenticare la tradizione del genere che risale, per dovere di cronaca, a quasi venti anni prima, e vede come primo antesignano Sei donne per l’assassino di Mario Bava.

    Di recente esperimenti analoghi sono stati realizzati, per intenderci, da film come Amer opppure (almeno in parte) The house of the devil: girati come si girava negli anni settanta, riproponendo visionarietà, personaggi, situazioni e stilemi tipici del genere – il più banale dei quali, presente in Francesca, è la onnipresente bottiglia di J&B, autentico sponsor non ufficiale dei film d’epoca.

    Sorprende – in certa misura – come un film del genere sia stato poco considerato dalla critica e dal pubblico: Davinotti gli assegna 2 stelle su 5, IMDB non arriva nemmeno alla sufficenza (poco meno di 6, al momento in cui scrivo), in tanti hanno un po’ snobbato la sua uscita (il film è disponibile su Prime Video, per la cronaca). Certo è che Francesca assume un ruolo tanto preciso da assurgere a genere a sè stante, tanto è significativo, coinvolgente ed impregnato di cinema di vecchia scuola, senza risultare troppo derivativo ed introducendo elementi di originalità non da poco. Onetti ha stile ma possiede anche quella personalità registica che gli consente, a ben vedere, di produrre un film del tutto autonomo, che sembra quasi un inedito del periodo riesumato per l’occasione. Il che non potrà che provocare il tripudio degli amanti di Dario Argento e Mario Bava, per quanto la perplessità lecita di questi revival afferisca al perchè sia stato fatto così e non, ad esempio, ambientato in tempi moderni (risposte brevi che mi viene in mente: perchè gli eccessi tecnologici di oggi risulterebbero banalizzanti nel risolvere certe situazioni, e perchè l’immaginario anni 70 resta inarrivabile).

    Sono trascorsi quindici anni dalla scomparsa di Francesca, figlia di un noto drammaturgo italiano: Vittorio Visconti, ridotto su una sedia a rotelle a causa dell’aggressione che ha portato al dramma familiare in questione. Nel frattempo, la moglie è caduta in depressione per la perdita dell’amata ragazza, e non sembra volersi più muovere dal letto. Un serial killer agisce per la città bersagliando varie vittime e mostrando un singolare filo conduttore negli omicidi: uccide quasi sempre con un punteruolo e poi, come firma del delitto (come tradizione pagana è solita raccontare) pone due monete sugli occhi della vittima. Ben presto la polizia scoprirà un legame con la storia misteriosa di cui sopra, svelando una verità sorprendente. Una verità conclusiva che possiede come autentica ispirazione – e si badi allo spoiler ineluttabile, per una volta – più di qualcosa della filosofia di fondo di film poco citati in questo ambito, e che a mio avviso restano primari: parlo di Vestito per uccidere e di Sleepaway Camp, anche per via della sessualità repressa di cui la killer è evidentemente imbevuto.

    Non che il film sia un esercizio di stile da scuola del cinema, peraltro: Francesca propone qualche variazione sul tema considerevole, ad esempio l’identità del killer – che sembra banale, ma in realtà non lo è; il doppio finale alla Dario Argento (anche questa volta c’è di mezzo l’amore verso i figli spinto all’estremo), l’omicidio a sorpresa dopo i titoli di coda, il che vìola la regola generale che il climax di questi film debba essere continuo, o che almeno il finale sia tranquillizzante o stabilizzante. Di fatto, anche quell’inserto post titoli di coda da alcuni criticato, è meno gratuito di quello che potrebbe sembrare, dato che predilige la continuità del Male su quella narrativa, un po’ sulla falsariga del primo Halloween di John Carpenter.

    Ed è proprio a certi vecchi, epici ed immarcescibili archetipi di thriller all’italiana e non solo (citiamo a campione, non potendo fare altrimenti: Profondo rosso, Tenebre, Shock, A Venezia un dicembre rosso shocking, Chi l’ha vista morire); modelli assimilati, visti, annotati e rielaborati dalla regia, a livello sia narrativo che di stile visuale. Ed il risultato, per il suo sotto-genere, rasenta il capolavoro. Non mancano nemmeno le musiche alla Goblin, composte  dal regista stesso in totale mood carpenteriano (regia e musiche affidati alla stessa persona). Non mancano poi i traumi infantili irrisolti, i personaggi dal passato non raccontabile, la presenza del personaggio poliziesco che viene un po’ per volta ridimensionato, sopraffatto dalla banalità del male e, anche qui, contravvenendo alla regola non scritta per cui, in questi film, anche se il bene non vince sempre, quantomeno alla fine spiega come sono andate le cose. In Francesca non esiste alcun finale falsamente consolatorio, e al contrario si rincorre un effetto di shock sullo spettatore che esibisce un feroce irrazionalismo.

    La regia di Onetti è infaticabilmente settantiana, quasi da sembrare ossessivo-compulsiva nel senso buono del termine, tanto è ricca di allusioni allucinatorie, primi piani su guanti, occhi, mani, pori della pelle, attizzatoi, magnetofoni e pianoforti: il regista cura la direzione della fotografia ed è pesantemente influenzato dall’estetica argentiana esaltata da Profondo rosso, primariamente. Il vero difetto di Francesca, a ben vedere, potrebbe forse essere ricondotto ad una eccessiva referenzialità, per quanto la presenza di elementi narrativi originali, fuori canone anche per l’epoca, eviti almeno in parte accuse di questo tipo. Per convincersene basterebbe  pensare al serial killer dall’identità sessualmente ambigua, che si vede quasi da subito chiaramente (e che poi non è chi sembra), che si ispira all’Inferno dantesco (il canto terzo, per la precisione: quello che narra delle porte dell’inferno), possiede un passato oscuro ed esprime una marcata sessualità repressa. Senza contare la maestria registica, al limite del talentuoso, con cui i suoi delitti sono mostrati, con qualche eccesso violento e insistito ma sempre con un sostanziale equilibrio. Oggetti di casa quali l’attizzatoio ed il ferro da stiro diventano feroci armi del delitto, in una spaventosa rilettura d’epoca dai colori psichedelici, tanto accesi da sembrare incandescenti.

    Mamma, ho voglia di giocare con te. Mamma, ho voglia di giocare con te. Mamma, ho voglia di giocare con te…

    In Francesca il flusso di coscienza guida una sceneggiatura dai tratti chiari e sempre distinguibili, che non si fa fatica a seguire e che raccontano di una killer, almeno in apparenza, dall’aria avvenente, di cui intravediamo anche le fantasie sessuali e che sembra essere l’incarnazione sadica di una ragazzina scomparsa: ragazzina che non esita, nella prima sequenza, a martoriare la carcassa di un uccellino, per poi trapassare – in una traumatizzante sequenza iniziale – l’occhio del fratellino ancora in fasce. L’occhio sarà anche, in successive sequenze del film, la parafilia primaria o ossessione prediletta del killer, e rappresenta molto più di quanto una visione superficiale possa suggerire.

    La killer in cappotto rosso, gonna nera e guanti in pelle sembra essere guidata da intenti moralistici, ed in questo potrebbe ricordare l’archetipo argentiano ben noto che poi, a ben vedere, quasi mai era ciò che l’apparenza poteva suggerire. In questo caso, per inciso, non si fa eccezione: il finale di Francesca sorprende quanto i migliori lavori argentiani, sia per come viene costruito e fuorvìa anche lo spettatore con più esperienza, sia per la violazione di una ulteriore convenzionale regola non scritta: l’ultimo omicidio e rivelazione avviene quando l’ispettore chiede spiegazioni, ed è la narrazione a rendere esplicito cosa sia realmente successo. Glii echi familiari perversi dovuti ad un’educazione repressiva sono più che evidenti, in un vero e proprio rehash della narrazione che ha reso Profondo rosso famoso in tutto il mondo, film da cui si ereditano le parafilie, le ossessioni e le immagini in primo piano: quella di un bambolotto prima impiccato a un albero e poi cullato dentro a una carrozzina, a testimoniare la natura sadica di una piccola killer fin dall’età adolescenziale.

    Come nota finale, il film è una produzione italo-argentina recitata in italiano, per cui non è stato proposto un doppiaggio: gli attori sono caratterizzati da una curiosa inflessione italo-argentina.

  • Le regole della casa del sidro racconta tematiche sociali nell’America rurale negli anni Quaranta

    Le regole della casa del sidro racconta tematiche sociali nell’America rurale negli anni Quaranta

    “Le regole della casa del sidro” (titolo originale: “The Cider House Rules”) è un film del 1999 diretto da Lasse Hallström, basato sull’omonimo romanzo scritto da John Irving nel 1985. Il film è una dramedy che affronta temi complessi come l’aborto, l’identità personale e il senso di famiglia. Il film è stato elogiato per le interpretazioni del cast, in particolare di Michael Caine e Tobey Maguire, e per la sua trattazione sensibile di questioni etiche complesse. Il film è stato nominato a diversi premi, tra cui sette candidature agli Oscar, vincendo due per Migliore Attore Non Protagonista (Michael Caine) e Migliore Sceneggiatura Non Originale. È un lavoro che affronta temi delicati con profondità e compassione, suscitando riflessioni sulle scelte morali e sulla complessità delle relazioni umane.

    Sinossi del film

    La storia è ambientata in un orfanotrofio chiamato St. Cloud’s nella zona rurale del Maine, negli Stati Uniti, durante la seconda guerra mondiale. Il protagonista, Homer Wells (interpretato da Tobey Maguire), è un giovane che è cresciuto nell’orfanotrofio e ha sviluppato una relazione molto stretta con il dottor Wilbur Larch (interpretato da Michael Caine), che gestisce l’istituzione e compie aborti illegali per le donne incinte.

    La trama si sviluppa quando Homer inizia a sentire il desiderio di esplorare il mondo al di fuori dell’orfanotrofio e scoprire la vita al di là di ciò che ha sempre conosciuto. Lascia l’orfanotrofio e inizia una serie di avventure che lo portano in un frutteto di mele, la “casa del sidro“, dove incontra una famiglia di lavoratori migranti, inclusa la giovane Candy Kendall (interpretata da Charlize Theron) e suo padre Wally (interpretato da Paul Rudd). Homer si innamora di Candy, ma la relazione si complica a causa degli sviluppi che coinvolgono Wally e l’intensa influenza di Homer sulle decisioni personali dei membri della comunità. Il sidro, per inciso, è una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione del succo di mele. Le mele vengono pressate per estrarre il loro succo, che contiene zuccheri naturali. Questo succo viene quindi lasciato fermentare grazie all’azione dei lieviti, i quali trasformano gli zuccheri in alcol e anidride carbonica. Il risultato finale è il sidro.

    Il film affronta in modo attento temi morali e sociali, compresi l’aborto, il diritto di scelta e il concetto di famiglia. Esplora anche la crescita personale di Homer mentre cerca di trovare il proprio posto nel mondo, bilanciando il suo senso di responsabilità verso l’orfanotrofio con il desiderio di una vita autonoma.

    10 curiosità su Le regole della casa del sidro

    1. Adattamento del romanzo: Il film è tratto dal romanzo omonimo scritto da John Irving nel 1985. L’autore stesso ha partecipato alla stesura della sceneggiatura.
    2. Ruolo di Tobey Maguire: Tobey Maguire, l’attore che interpreta il protagonista Homer Wells, ha dichiarato che questo è stato uno dei suoi ruoli preferiti e più significativi nella sua carriera.
    3. Ruolo di Michael Caine: L’interpretazione di Michael Caine nel ruolo del dottor Wilbur Larch gli ha fruttato l’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista nel 2000.
    4. Luoghi di ripresa: Il film è stato girato principalmente in Vermont, Stati Uniti. Il paesaggio rurale ha contribuito a creare l’atmosfera del film.
    5. Titolo originale: Il titolo originale del film, “The Cider House Rules“, deriva dal nome dell’orfanotrofio in cui si svolge gran parte della trama.
    6. Colonna sonora di Rachel Portman: La colonna sonora del film è stata composta da Rachel Portman ed è stata molto apprezzata per il suo contributo emotivo alla storia.
    7. Influenza del regista: Lasse Hallström, il regista del film, è noto per la sua abilità nel dirigere storie umane e sentimentali. Ha anche diretto altri film di successo come “Chocolat” e “La mia vita a Garden State“.
    8. Tempo di sviluppo: Il film è stato in sviluppo per molti anni prima di essere realizzato. L’adattamento cinematografico del romanzo è stato un processo complesso che ha coinvolto vari registi e sceneggiatori.
    9. Differenze tra il libro e il film: Come spesso accade nelle trasposizioni cinematografiche, il film semplifica alcune parti della trama del libro e apporta alcune modifiche ai personaggi e agli eventi.
    10. Messaggi sociali: Il film affronta temi sociali importanti, tra cui l’aborto e la lotta per l’autonomia individuale nella società. La storia solleva questioni etiche che stimolano la riflessione e la discussione.

    Spiegazione del finale (contiene spoiler)

    Il finale del film “Le regole della casa del sidro” è aperto e ricco di significati, lasciando spazio a interpretazioni personali da parte degli spettatori. Attenzione: Spoiler sul finale a seguire.

    Nel finale, Homer Wells fa una scelta che riflette la sua crescita personale e la sua comprensione della complessità della vita. Dopo essere tornato all’orfanotrofio e aver incontrato il dottor Wilbur Larch, Homer decide di prendere una decisione indipendente riguardo al suo futuro. Decide di rimanere con i bambini rimasti all’orfanotrofio e di prendersi cura di loro.

    Questo finale rappresenta il culmine del viaggio interiore di Homer. Fin dall’inizio del film, Homer ha cercato di trovare il suo posto nel mondo e di definire il suo senso di appartenenza. L’orfanotrofio è stato per lui un punto di riferimento costante, e il dottor Larch è stato una figura paterna. Tuttavia, con l’esperienza nella “casa del sidro” e le sfide che ha affrontato, Homer ha maturato una prospettiva più ampia sulla vita.

    La sua decisione di restare all’orfanotrofio rappresenta la sua accettazione di responsabilità e la sua volontà di creare una famiglia alternativa per quei bambini che sono stati abbandonati o non hanno un luogo dove chiamare casa. Questo è anche un modo per Homer di continuare il lavoro del dottor Larch, che aveva dedicato la sua vita a prendersi cura di chi aveva bisogno.

    Il finale suggerisce che il concetto di famiglia può essere costruito in modi diversi e che l’idea di “casa” può essere più profonda di un semplice luogo fisico. Homer ha finalmente trovato un significato nella sua vita, abbracciando il ruolo di guida e protettore per i bambini dell’orfanotrofio.

    In sostanza, il finale del film esplora temi di identità personale, scelte morali, responsabilità e il concetto di famiglia, offrendo agli spettatori una riflessione sul percorso di crescita e auto-scoperta del protagonista.

    Cast del film

    Ecco il cast principale del film “Le regole della casa del sidro” (1999):

    • Tobey Maguire nel ruolo di Homer Wells
    • Michael Caine nel ruolo del dottor Wilbur Larch
    • Charlize Theron nel ruolo di Candy Kendall
    • Paul Rudd nel ruolo di Wally Worthington
    • Delroy Lindo nel ruolo di Mr. Rose
    • Jane Alexander nel ruolo di Nurse Edna
    • Kathy Baker nel ruolo di Nellie Worthington
    • Erykah Badu nel ruolo di Rose Rose
    • Kieran Culkin nel ruolo di Buster
    • Heavy D nel ruolo di Peaches
    • Kate Nelligan nel ruolo di Olive Worthington
    • Paz de la Huerta nel ruolo di Mary Agnes
    • J.K. Simmons nel ruolo di Ray Kendall
  • Strange Days: gli strani giorni già immaginati a metà anni 90

    Strange Days: gli strani giorni già immaginati a metà anni 90

    Il film è ambientato nel Capodanno del 1999: l’alba del nuovo millennio viene proposta in una prospettiva completamente distopica. Nella New York del degrado e della repressione poliziesca, infatti, si arriva a spacciare le vite altrui in forma di filmati che è possibile iniettarsi direttamente nel cervello. In questo modo si attua una sorta di gigantesco file-sharing delle esperienze umane, fenomeno illegale ed aspramente combattuto dalle autorità. Lenny Nero è un ex poliziotto, licenziato con disonore, che pratica per sopravvivere la diffusione di questo tipo di materiale, e ne abusa egli stesso. Un giorno un’amica gli recapita un singolare wire-trip clip

    In breve. Un quasi-cyberpunk intenso e dai toni romantici, caratterizzato da una sceneggiatura molto intensa e con interpretazioni sempre all’altezza. Peccato, in definitiva, perchè in alcuni punti – tipo nell’approfondimento delle relazioni tra i personaggi – si perde in momenti mielosi che fanno quasi passare la voglia.

    Senza bisogno di scomodare Blade Runner – tutta un’altra faccenda, per la verità – e senza voler sparlare di una delle più prolifiche e creative registe statunitensi (Kathryn Bigelow, artefice del popolarissimo Point Break e dell’horror Il buio si avvicina), direi che Strange Days deve parte della sua fama ad una storia che “odora” molto di Philip Dick, e che potrebbe ricordare A scanner darkly. Certamente i presupposti sono micidiali: l’idea dello spaccio di esperienza altrui in prima persona è qualcosa di davvero molto interessante, che fa riflettere di rimando – tanto per rimanere sul banale – sulla spersonalizzazione che soffriamo nel quotidiano. Questo, di fatto, diventa un solido pretesto perchè queste allucinazioni, molto ben rese, possano fare da contorno ad una curiosa poetica in chiave cyberpunk. La chiave di lettura, come si scoprirà, sta nel misterioso clip che viene rivelato soltanto alla fine, e che mostra uno spaccato di triste realtà che potrebbe, di fatto, provocare una vera e propria Apocalisse.

    Grande merito, quindi, a James Cameron, davvero molto abile nel costruire lo script, e noto per essere stato il regista dei due Terminator (1984 e 1991), di Titanic (1997) e di Avatar (2009 – il che appare come un crescendo di delirio, a suo modo). Dal canto loro gli interpreti se la cavano egregiamente, a parte forse Juliette Lewis che sembra quasi imprigionata nelle caratteristiche del personaggio di Natural Born Killers, esprimendosi così in modo fiacco e poco convincente. A parte questo, potremmo dire che Strange Days inizia bene, prosegue meglio e finisce per annacquarsi, come un ottimo whisky mescolato con acqua di rubinetto, seguendo molti (troppi) dei dettami che l’industria hollywoodiana impone da decenni. Senza bisogno che li citi tutti: favorire l’identificazione del pubblico coi “Buoni”, rendere odiosi i “Cattivi”, rendere lineare la trama, sorprendere in modo piuttosto prevedibile e far trasparire una visione forzatamente ottimistica sull’amore che-viene-e-che-va.

    Molto dell’ accento viene posto, oltre che sui risvolti sociali (cittadino vs. polizia), sul romanticismo della vicenda, e la cosa potrebbe quasi risultare gradevole a qualcuno (beato lui): ma è un’arma a doppio taglio, un trucchetto per tenere viva l’attenzione, quasi come se qualcuno avesse deciso di cambiare i toni più o meno nell’ultima mezz’ora di film. Attenzione che poi, probabilmente intrigati dai mille dettagli della storia, finiamo per perdere del tutto, per orientarci su un volemose-bbene che dovrebbe rendere tutti felici. Ecco, l’ho detto: la nota stonata di Strange Days, al di là dal fascino magnetico di Angela Bassett (quasi tarantiniana nella sua interpretazione) e della bravura di Ralph Fiennes sta proprio nella colossale forzatura favolistica degli ultimi fotogrammi. Lo stesso effetto sgradevole che mi procurò il finale di AI – Intelligenza Artificiale, e chi lo ha visto dovrebbe intuire a cosa mi riferisco. Una cosa su cui non riesco a darmi pace, proprio perchè il concept di Strange Days è realmente esplosivo.

    Mi consolo comunque, solo parzialmente, ironizzando su certe battute, un po’ come faceva Nanni Moretti (“hai mai ZIGOVIAGGIATO? mmm, un cervello vergine“; ma l’originale era “hai mai filo-viaggiato“), e non posso esimermi dall’esprimere un’ulteriore critica sull’eccessiva lunghezza del film: certamente incalzante fino alla fine, ma quelle due ore sono interminabili. Mai davvero ruvido, graffiante e oscuro come l’ambientazione e l’attitudine imporrebbero: quindi, perlomeno, non si scomodino confronti con il capolavoro di Ridley Scott.

    Non certo da buttare, sia chiaro, anzi d’obbligo per molti spettatori assuefatti alle storielline facili: ma tanti altri possono tranquillamente fare a meno di guardarlo.

  • The Rocky Horror Picture Show: guida pratica per chi non ne sa ancora nulla

    The Rocky Horror Picture Show: guida pratica per chi non ne sa ancora nulla

    Brad Majors confessa il suo amore a Janet Weiss, e poco dopo partono per far visita al Dr. Everett Scott, il loro ex-insegnante di scienze; un temporale improvviso ed uno pneumatico forato li costringe a dirigersi verso un vecchio castello…

    In breve. Musical cinematografico divertente, splendidamente diretto ed interpretato, ovviamente fuori dalle righe; concepito come gigantesco tributo al mondo dei b-movie, mai passato di moda fino ad oggi.

    I’ve done a lot, God knows I’ve tried
    To find the truth, I’ve even lied
    But all I know is down inside I’m bleeding.
    And Super Heroes come to feast
    To taste the flesh not yet deceased
    And all I know is still the beast is feeding.
    And crawling on the planet’s face
    Some insects called the human race
    Lost in time, lost in space… And meaning

    Diretto da Jim Sharman due anni dopo il debutto del musical, si tratta di uno dei più popolari cult del genere, tratto da una sceneggiatura del regista stesso e di Richard O’ Brian (che recita nel panni del maggiordomo-alieno Riff Raff), capace da un lato di tributare il mondo dei b-movie e, dall’altro, di presentarsi in maniera autenticamente trasgressiva, divertente e fuori dagli schemi, quantomeno per l’epoca in cui uscì.

    L’intreccio del Rocky Horror Picture Show è noto: una coppia della provincia americana, casta e inibita, si imbatte casualmente nello spettrale castello del bizzarro Dr. Frank-N-Furter, carismatico scienziato in reggicalze che vuole costruirsi un amante perfetto artificiale. Al di là di questo (e dei suoi successivi ed imprevedibili sviluppi) è interessante analizzare nel film la presenza di due componenti: quella puramente ludico-sessuale che, naturalmente, trasuda da ogni poro, alternando momenti spassosi ad altri, come la prima comparsa di Frank-n-Furter, che sono rimasti scolpiti nell’immaginario collettivo, ed una seconda più seria (mai troppo, se non nel tragico e secondo alcuni enigmatico finale), che si ricollega in più parti ad una delle opere d’arte più celebri degli anni ’30 in America.

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    Mi riferisco naturalmente ad American Gothic“, il dipinto del 1930 realizzato dall’artista statunitense Grant Wood, che viene periodicamente parodizzato all’interno del film, e questo fin dal primo istante in cui compare la coppia Richard O’Brien / Patricia Quinn.

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    Poco prima del Time Warp, la danza rock’n roll che simboleggia il film più di qualsiasi altro brano, alle spalle di Riff Raff è possibile vedere il dipinto in questione.

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    Con nomi del calibro di Susan Sarandon (che pare non accettò di recitare nuda, come le era stato richiesto, durante l’autoesplicativa Touch me, Touch me), Barry Bostwick, Tim Curry (che vestirà 15 anni dopo i panni dell’inquietante Pennywise the Dancing Clown, nella trasposizione cinematografica del romanzo IT di Stephen King), Patricia Quinn (comparsa anche nel recente Le streghe di Salem sempre di Rob Zombi) e gli altri protagonisti del cast del Royal Court Theatre, il Rocky Horror Picture Show è diventato uno dei midnight movie per eccellenza, amato incondizionatamente da generazioni di fan. Guardarlo ad Halloween, ad esempio, è un rituale impossibile da mancare per qualsiasi appassionato, e la fama del Rocky Horror Picture Show ha avuto continue conferme, tanto da essere riproposto più volte al cinema, in TV ed ovviamente nella movimentatissima versione teatrale The Rocky Horror Show. Il Museum Lichtspiele (Monaco di Baviera) ha riproposto il film settimanalmente dal 1977, offrendo al pubblico uno speciale RHPS-Kit per consentire una opportuna partecipazione del pubblico: quest’ultimo conteneva un biscotto, del riso, un fischietto, una candela ed ovviamente le istruzioni cartacee per eseguire il Time Warp.

    Nell’immaginario di Sharman, bravo a dipingere magistralmente la storia e ad alimentarla in un turbine di riferimenti culturali americani – a cominciare dal celebre American Gothic – a finire alle figure archetipiche della sci-fiction classica, dai mostri ai vampiri passando per scienziati nazisti in incognito ed alieni armati di raggi laser, espressione (gli ultimi due in particolare) di una società sempre più repressiva nei confronti della libertà sessuale e della disinibizione. Il brano simbolo dell’opera rimane probabilmente Don’t dream it, be it, un monito ai personaggi (ed al pubblico che assiste, ovviamente) a liberare il proprio io e a non limitarsi di sognare la propria liberazione sessuale, ma anche viverla nel modo più appagante ed incurante del perbenismo dominante: simbolo di questa trasformazione sarà proprio la trasformazione di Brad e Janet, iniziati entrambi al sesso dal conturbante Frank-N-Furter, creatore di un novello frankstein dal fisico scultoreo, e che intende utilizzare come giocattolo sessuale. Sembra poca cosa se raccontata a parole, ma la carica erotica e spassosa del film resta intatta dopo tanti anni, e sembra quasi voler omaggiare la celebre massima di Woody Allen “il sesso è stata la cosa più divertente che ho fatto senza ridere“.

    Probabilmente è questa una delle chiavi di lettura più importanti del Rocky Horror cinematografico, capace di coniugare ironia e serietà senza mai scadere nel serioso o, peggio, nel gratuito: questo, al di là degli imperdibili giochi pirotecnici sulla scena, degli arrangiamenti scenici magistrali, della regia perfetta e dei continui doppi sensi di cui è pervaso il film, molti dei quali smarriti nell’approssimativa traduzione italiana: tanto per fare un esempio, Riff Raff accoglie i due protagonisti alludendo all’essere “wet” – tradotto un po’ alla buona come fradicia a causa della pioggia. L’allusione è (era) piuttosto esplicita, e la donna mostra di averla colta, anche con un certo risentimento. Ovviamente non esiste una versione doppiata del Rocky Horror (la versione italiana è sottotitolata), e verrebbe da pensare che sia un piccolo miracolo che a nessuno sia mai saltato in mente di farne una.

    Numerose le ulteriori curiosità su questo film: la locandina dell’epoca riporta un riferimento parodico al film Lo squalo (Jaws, cioè fauci, letteralmente), e recita: “The Rocky Horror Picture Show – a different set of jaws” (più o meno “qualcosa di diverso da Lo squalo“, con riferimento ironico ad uno dei film più in voga all’epoca). Al di là degli innumerevoli e raffinati riferimenti di genere, il Rocky Horror cinematografico è molto fedele allo spirito da horror puro, con i suoi riferimenti alla cinematografia gotica: le cronache dell’epoca riportano che in molte scene l’espediente utilizzato era quello di non dire agli attori cosa sarebbe successo in seguito, al fine di accentuare la loro reazione spontanea. Ad esempio, pare che la scena della cena con “sorpresa” finale sotto il tavolo (una scena che Rob Zombi citerà in chiave più seria nel suo recente 31) gli attori che interpretano i due fidanzati non fossero a conoscenza di quello che li aspettava, per cui la loro reazione sarebbe autentica.

     

    Come ogni cult che si rispetti, dal film è stato tratto anche un poco noto videogame – oggi retrogame – per Apple II, Amstrad CPC, Commodore 64/128 e ZX Spectrum – prodotto dalla CRL Group, defunta azienda inglese di software che produsse molti altri giochi a tema horror (fonte delle immagini: mobygames.com).

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    Nel finale, inoltre, non appena i due fratelli alieni svelano la propria vera identità, l’opera viene riproposta in versione futuristica, dove il forcone (che simboleggia l’essenza del redneck americano e, per estensione, del bigottismo provinciale che si oppone ferocemente alla “decadence” della trasgressione) diventa un laser letale, utilizzato per eliminare sia il dottore che la sua muscolosa bionda creatura Rocky. Il finale del Rocky Horror denota una componente tragica (e per certi versi ermetica), che sembra evocare la caducità dell’esistenza solo in favore di rafforzare il senso di edonismo ed gusto per la sana trasgressione che pervade l’opera.

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    In definitiva, l’eredita di questo musicalcult anni settanta è arrivata, a quanto pare, intatta fino ad oggi, per costituire uno dei più celebri musical al mondo, oltre che – naturalmente – uno dei più longevi.

    (informazioni sul film tratte da imdb.com, screenshot tratti da flickr.com/photos/seeing_i)

  • Baskin: l’horror splatter surrealista che non dimenticherete facilmente

    Baskin: l’horror splatter surrealista che non dimenticherete facilmente

    Un gruppo di poliziotti riceve una chiamata di emergenza per recarsi in un edificio abbandonato: troveranno ad attenderli un gruppo di efferati individui.

    In breve. Incubo surreale per un gruppo di poliziotti, costretti a fronteggiare un nemico apparentemente invincibile e, forse, la propria coscienza. Soprattutto per appassionati di horror senza remore, con livello di gore abbastanza alto.

    Coproduzione turca e americana e girato in sole 28 notti, Baskin è un buon horror recente dal ritmo incalzante e con una certa dose di surrealismo, che poi si traduce in sogni (o allucinazioni) che vive uno dei protagonisti (neanche a dirlo, quello con cui buona parte del pubblico tenderà ad identificarsi). Un thriller a sorpresa con presupposti da mistery movie puro, con tanto di poliziotti in atmosfera pulp decisamente umanizzati e, per certi versi, non esenti da difetti – tanto da evocare i più celebri anti-eroi di John Carpenter, regista certamente influente su questo lavoro a cominciare dal compromesso, più che riuscito, tra atmosfere oniriche, elementi simbolici (le rane) e splatter. Film che, per inciso, è tratto da un corto omonimo dello stesso regista, che viene qui sviluppato per esteso con integrazioni e modifiche dove necessario (nel corto, ad esempio, il Padre è una Madre).

    C’è da dire che il film non potrà passare indifferente agli occhi del pubblico, o quantomeno al cospetto di quello orientato sugli horror con elementi apparentemente sconnessi e, in certi caso, a dispetto della causalità degli eventi raccontati. A questi personaggi così umani quanto brutali, come vedremo, il destino sembra aver riservato uno dei più crudeli avversari da dover fronteggiare, caratterizzato dalla figura del Padre (ispirato, a quanto pare, al Colonel Kurtz di Apocalypse Now) e dei suoi deformi adepti: il Padre, peraltro, è anche l’unico personaggio in grado di dare un indizio concreto sul senso del film.

    Sembra che il tutto ruoti sulle efferatezze di una crudele setta, che esplica il proprio culto attraverso sanguinolenti rituali, e fa assumere ad ogni atto, in modo forse non troppo esplicito, un significato di espiazione da qualche peccato commesso in passato. Senso che, al netto delle mie (come di altrui) speculazioni, ogni spettatore dovrà saper trovare, soprattutto per il finale sui generis che chiarisce alcuni punti della trama e fornisce quello che in linguaggio urban viene definito mindfuck: un elemento, quello onirico e spazio-temporale in particolare, che ridefinisce l’ambiente e le circostanze, chiarendo ed forse razionalizzandone certi aspetti. Questa è forse la cosa che ho apprezzato di più a caldo, anche se per esperienza so che si tratta di un aspetto soggettivo che non tutti coglieranno. Che poi molti non abbiano tempo, voglia e volontà di coglierli è altra storia, peraltro ben nota per tutti gli horror surrealisti di cui sono a conoscenza, ma di questa chiusura imprevedibile ed efficace va ampiamente dato atto al regista.

    In un’intervista a Fangoria a riguardo, il Evrenol ha indicato Descent e Frontiers come sue principali ispirazioni per questo film: chi ne ha visto almeno uno, a questo punto, potrà farsi un’idea coerente di ciò che vedrà. Avrei aggiunto – parere personale, of course, dato che non ho la pretesa di saperne di più del regista – anche Hellraiser alla lista delle influenze, sia per le atmosfere cupe che per i continui viaggi tra sogno, dimensioni e realtà e sia, forse soprattutto, per la figura del padre, che non avrebbe certo sfigurato come cenobita. Non approfondisco il discorso per evitare spoiler involontari, ma per completare la lista di analogie ci sarebbe da citare il sottovalutato Shadow di Zampaglione, che certe intuizioni e simbolismi li aveva (ri)proposti già anni prima.

    Non mancano in Baskin (secondo Nocturno il titolo potrebbe fare riferimento alle parole repressione o coercizione) i punti di contatto con altri film horror, e sarebbe impossibile – quantomeno a livello di impianto narrativo – non citare anche il recente 31 di Rob Zombi, molto simile nella situazione quanto meno grottesco e, se possibile, più sinistro. Molto probabile che Zombi abbia potuto ispirarsi almeno in qualcosa per questo singolare lavoro per il suo ultimo film: del resto il cinema di genere è (anche) un gioco di rielaborazioni. Al di là dell’impianto narrativo, la situazione sa apparentemente di già visto, per quanto l’attenzione resti sempre viva: questo soprattutto perchè i protagonisti sono dei poliziotti, e non i classici giovinastri in cerca di avventure e dal destino segnato. Ciò a mio avviso tende a proporre chiavi di lettura molto varie, forse al di là della classica redenzione e catarsi legata ad analoghe “discese all’inferno”: abbastanza, insomma, per dire che si tratta di un buon film.