FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Nel cuore dell’oscurità: l’incubo di Amityville Possession (1982)

    Nel cuore dell’oscurità: l’incubo di Amityville Possession (1982)

    Informazioni sul film

    Ecco alcune curiosità sul film “Amityville Possession” del 1982, diretto da Damiano Damiani:

    1. “Amityville Possession” è il terzo capitolo della serie di film basati sui tragici eventi che si sono verificati nella casa di Amityville, in Long Island, New York. È un sequel diretto del film del 1979 intitolato “Amityville Horror”.
    2. Il film è stato diretto da Damiano Damiani, un regista italiano noto per il suo lavoro nel genere thriller e horror. Damiani ha contribuito a creare un’atmosfera inquietante e angosciante nel film.
    3. “Amityville Possession” è stato prodotto dalla Dino De Laurentiis Cinematografica, una rinomata casa di produzione italiana che ha realizzato numerosi film di successo nel corso degli anni.
    4. Il cast del film includeva attori come James Olson, Burt Young, Rutanya Alda e Jack Magner, che hanno offerto interpretazioni convincenti dei personaggi coinvolti negli eventi soprannaturali della storia.
    5. Una delle curiosità più interessanti riguarda la casa di Amityville utilizzata nel film. Per rispettare la privacy dei proprietari della vera casa di Amityville, la produzione ha costruito una replica identica della casa per le riprese.
    6. “Amityville Possession” ha continuato ad alimentare l’interesse per la storia di Amityville, offrendo una visione unica degli eventi e dei fenomeni paranormali che si dice siano accaduti nella casa infestata.

    Amityville Possession (Amityville II: The Possession) è un film horror del 1982 diretto da Damiano Damiani, che funge da prequel al primo film, Amityville Horror, uscito nel 1979. La regia di Damiani ricevette particolari apprezzamenti soprattutto per la sequenza particolare in soggettiva del demonio stesso, durante il momento in cui si impossessa di Sonny. Per il ruolo di Anthony, il padre di Sonny, fu scelto l’attore italo-americano Burt Young, all’apice della sua carriera grazie al ruolo del cognato del pugile Rocky.

    Trama Amityville II: the possession

    La trama di “Amityville Possession” (Amityville II: The Possession), diretto da Damiano Damiani, ruota attorno alla storia della famiglia Montelli, una famiglia italo-americana che si trasferisce nella casa di 112 Ocean Avenue ad Amityville, Long Island. Dopo aver acquistato la casa, i Montelli iniziano a vivere una serie di eventi inquietanti e inspiegabili. La madre, Dolores, si rende conto per prima che qualcosa di sinistro si annida nella casa e cerca l’aiuto del sacerdote padre Adamsky. Tuttavia, prima che possa intervenire, il figlio maggiore, Sonny, viene posseduto da una presenza demoniaca. Il demone che ha preso possesso di Sonny inizia a influenzare il suo comportamento, portandolo ad avere un rapporto incestuoso con la sua stessa sorella. La situazione si intensifica ulteriormente quando Sonny impugna un fucile e massacra brutalmente il resto della sua famiglia.

    Sonny viene arrestato, ma a causa delle circostanze paranormali che circondano l’accaduto, il prete padre Adamsky decide di liberarlo dalla prigione con l’intento di esorcizzarlo. Tuttavia, durante il tentativo di portarlo in chiesa per l’esorcismo, Sonny scappa e torna nella casa infestata. Padre Adamsky lo segue e, in un disperato sforzo finale, riesce a liberare Sonny dal controllo del demone. Sonny viene portato via dalla polizia, mentre padre Adamsky, esausto e provato, si ritrova posseduto dal demone che prima lo aveva dominato.

    Di cosa parla il film

    Il film “Amityville Possession” esplora l’oscura presenza demoniaca che ha afflitto la famiglia Montelli e mette in luce gli sforzi di un prete per affrontare il male sovrannaturale. La trama si basa su eventi ispirati al vero caso di cronaca della famiglia DeFeo del 1974, che ha sconvolto la comunità di Amityville.

    Quali sono i tragici fatti di cronaca su cui si basa il film?

    La storia di Amityville è una vicenda controversa che ha inizio il 13 novembre 1974, quando a Long Island, New York, sei membri della famiglia DeFeo vengono trovati brutalmente assassinati nella loro casa di Amityville. Ronald “Butch” DeFeo Jr., il figlio maggiore, viene successivamente arrestato e condannato per i delitti. Sostiene di aver commesso gli omicidi sotto l’influenza di voci demoniache che lo avrebbero spinto a compiere l’atroce gesto.

    Un anno dopo, nel dicembre 1975, George e Kathy Lutz acquistano la casa di Amityville, nonostante la sua oscura reputazione legata agli omicidi precedenti. La coppia, insieme ai loro tre figli, si trasferisce nella casa sperando di iniziare una nuova vita. Tuttavia, affermano di essere stati testimoni di fenomeni paranormali disturbanti e inquietanti sin dal loro arrivo. I Lutz raccontano di strani rumori, presenze sinistre, malfunzionamenti elettrici, porte che si aprono e si chiudono da sole, e persino di aver visto figure spettrali. Affermano anche di essere stati soggetti a un aumento di tensione e conflitti familiari, presumibilmente causati dall’influenza maligna che sarebbe presente nella casa. Dopo soli 28 giorni, la famiglia Lutz decide di abbandonare la casa, affermando di non poter più sopportare l’oppressione e la paura costante. Questo evento segna l’inizio di un’ampia copertura mediatica e di un’attenzione internazionale verso la storia di Amityville.

    La vicenda diventa un fenomeno culturale e suscita un ampio dibattito sulla veridicità degli eventi riportati dalla famiglia Lutz. Ci sono coloro che credono fermamente alla presenza di forze paranormali nella casa di Amityville, mentre altri ritengono che sia stata una semplice invenzione o esagerazione dei Lutz per guadagnare notorietà e sfruttare il successo dei libri e dei film basati sulla loro storia. Dal 1977, la storia di Amityville è stata oggetto di numerosi libri, documentari e adattamenti cinematografici. Le opere hanno spesso narrato la vicenda in modo romanzato, aggiungendo elementi di horror e suspense per amplificare l’atmosfera spaventosa. Nonostante le controversie e il dibattito in corso sulla veridicità dei fatti, la storia di Amityville continua a essere un’icona del genere horror e un argomento affascinante per coloro che sono interessati all’occulto e al paranormale. Resta un mistero irrisolto, lasciando spazio a diverse interpretazioni e opinioni.

  • Angoscia è l’horror di Bigas Luna

    Angoscia è l’horror di Bigas Luna

    Una madre pazzoide condiziona il figlio mediante ipnosi e lo induce a cavare occhi alle persone; in realtà l’intera vicenda è solo un film che stanno vedendo delle persone dentro ad un cinema, le quali subiranno a loro volta un condizionamento subliminale …

    In breve. Piccola escursione thriller del regista de “Le età di Lulù” piuttosto singolare ed inaspettatamente truce, surreale e a tratti addirittura divertente. I piani della realtà si confondono abilmente senza diventare mai un mero esercizio stilistico: il film avvince e … coinvolge, è proprio il caso di dire, fino all’ultima meravigliosa scena.

    Luna riesce, con questo film, a fare letteralmente il buono e il cattivo tempo, avendo l’idea geniale di innestare abilmente una doppia storia: da un lato un serial killer-infermiere che cava gli occhi delle sue vittime, dall’altro una sorta di suo infelice emulo, accomunato dal fatto di essere succube di una madre autoritaria e che si comporta come l’anti-eroe che ha visto sullo schermo decine di volte. “Angoscia” è interamente incentrato sulla reazione che il pubblico horror innesca nei confronti del cinema che si trova a vedere nelle sale: e infatti il primo cambio di prospettiva mostra le facce disgustate di alcuni giovani, di una coppia di adolescenti e di due adulti alla visione delle sadiche efferatezze del… film stesso! Un lavoro che perde gran parte del suo gusto se viene troppo raccontato (va visto, e solo dopo discusso) e che si incentra sulla meta-realtà così come – in tempi piuttosto recenti – solo Carpenter (penso ovviamente a “Il seme della follia”) ed in parte Argento (penso al sottovalutatissimo Opera) si erano spinti. Ovvero: figurare ed estremizzare a tal punto le paure del pubblico. fino ad arrivare a chiedersi se un film dell’orrore possa condizionarne il comportamento e generare N copycat. Roba che gli psicologi da salotto ci farebbero interi palinsesti TV a forza di masturbarsi, e che messi in scena da un regista di film erotici (a proposito di masturbazione) risaltano in un risultato insperabilmente positivo. Considerando il cammino stilistico avviato da Bigas Luna, uno che non ha certo seguito un percorso di cinema cerebrale o intellettuale che dir si voglia, sembra quasi un atto di accusa contro un certo modo di fare cinema. Ovviamente, e direi per fortuna, così non è, e lo vediamo dalla duplice ironia che caratterizza il finale, e dalla presenza di alcuni personaggi visibilmente contraddittori: su tutti, l’emulo dell’assassino, quello che nella “seconda realtà” continua a ripetere una frase “da film” – “fate come vi dico e nessuno si farà male” – salvo sparare all’impazzata nel mentre ed uccidere alla meno peggio. Per capire ancora meglio di che film si tratti, si consideri dunque l’incipit che ricorda i simil-snuff anni 70 che hanno terrorizzato generazioni su generazioni:

    Durante il film che state per vedere, sarete soggetti a messaggi subliminali e ad una leggera ipnosi: questo non vi provocherà alcun danno fisico o effetti duraturi, ma se per qualche motivo perderete il controllo o sentirete che la vostra mente sta lasciando il vostro corpo… lasciate immediatamente la sala! (la traduzione è mia, ndr).

    Ora non so quanto (e se) Luna creda sul serio a quello che ha fatto scrivere, ma sono pronto a scommettere che il tutto rientri in un piano ben preciso: creare horror di intrattenimento che non sia nè banalotto nè troppo sulfureo, bensì un giusto compromesso che lasci lo spettatore soddisfatto, senza banalizzarlo nè appensantirlo con simbolismi intellettuali che molti hanno voluto trovare per forza fino all’esagerazione. Del resto, vista la pignolerìa e l’esigenza di certo pubblico del terrore, era davvero difficile riuscire nell’impresa – e Bigas Luna, pur essendo fondamentalmente un regista di film erotici, ci è riuscito alla grande. Un ulteriore tocco di satira-parodica condita da humor nero, poi, è presente nella rappresentazione del rapporto tra il figlio nerd e la madre autoritaria, che globalmente non tutti hanno percepito dato che il film è quasi passato inosservato, salvo essere riesumato di recente da alcuni noti siti di recensioni horror.

    Angoscia” è un piccolo gioiello di terrore, surreale e realistico al tempo stesso, diretto con grande maestria ed abilità ed interpretato con lo spirito di uno slasher anni 80: semplicemente imperdibile, che altro aggiungere? E ora dite la verità: sentite già che la vostra mente sta lasciando il vostro corpo?

  • Ho camminato con uno zombie: ha ispirato George Romero, ed è invecchiato benissimo

    Ho camminato con uno zombie: ha ispirato George Romero, ed è invecchiato benissimo

    Un’infermiera si reca in una sperduta località delle Indie Occidentali per curare la moglie del signor Holland, affetta da un male misterioso: dopo qualche tempo escono fuori delle inquietanti storie legate ai riti voodoo del posto, che finiranno per legarsi all’intreccio principale.

    In breve. Un must per gli appassionati di horror: un film cult come pochi, e questo non solo perchè fornirà la materia prima su cui Romero baserà la propria poetica sugli zombi, ma soprattutto per via di innumerevoli suggestioni (a volte solo accennate) che fonderanno buona parte del cinema del terrore come lo conosciamo oggi. Capolavoro, da non perdere per nessuna ragione – nonostante l’età.

    Film storicamente fondamentale per il genere horror, tratto da un soggetto di Inez Wallace e considerato all’epoca della sua uscita – ed un po’ superficialmente – “un’opaca e disgustosa esagerazione di un concetto di vita malsano ed anormale” (New York Times); successivamente venne riabilitato per la sua innegabile intelligenza, eccezionalità ed eleganza, fino a diventare un esempio di quello che molti considerano il primo “zombi-movie” della storia. Questo sia per le tematiche sviluppate – il Morto che si vorrebbe far tornare in vita per Amore, un vero classico – che per via della presenza di Darby Jones nei panni di Carre-Four, l’inquietante “walker” dagli occhi vitrei nonchè Guardiano del luogo in cui avvengono i rituali oscuri dell’isola. “I walked with a zombie” è uno dei film di culto che hanno dato vita, di fatto, a quasi tutti – oserei scrivere – gli stereotipi legati all’immaginario cinematografico dei morti viventi, definendone caratteristiche (ad esclusione del cannibalismo, in questa sede), camminata, comportamento e origine prettamente tribale. Non si pensi per questo ad uno “Zombi” ante-litteram perchè, piuttosto, il risultato si avvicina più facilmente all’immaginario dell’orrore a 360*, specie quello che associa il dramma umano – tipicamente una storia d’amore – al terrore materiale verso la morte (oltre alla diffidenza verso le tradizioni locali). Un’accoppiata, Amore/Morte, che sarà esaltata all’ennesima potenza dal gotico di Mario Bava (giusto per citare uno dei più famosi), e che risulta essere da sempre alla base di qualsiasi letteratura horror di qualità. “Ho camminato con uno zombie“, pur non rappresentando – per ovvie ragioni – morti viventi che cercano di azzannare esseri umani armati di fucili, sorprende grandemente per il suo essere “avanti” – è uscito nel 1943! – e per lo sviluppo delle tematiche lugubri contenute al suo interno: la cosa diventa davvero interessante per via di alcune situazioni che, in qualche modo, rappresentano probabilmente una “prima volta” sulla schermo, e tutto questo nella declinazione originaria (la stessa che Fulci avrebbe onorato nel suo Zombi 2) che lega il “morto che cammina” al voodoo.

    Mi pare interessante estrapolare quello che ci viene suggerito dalla pellicola sul tema specifico – gli zombie – per cui lo propongo per esteso di seguito. Questa archetipica storia di morti viventi, di fatto, sembra trarre origine dal martirio di San Sebastiano, che ne rappresenta probabilmente la chiave di lettura più importante: già qui il pubblico più attento avrà sollevato qualche sopracciglio, dato che si tratta del soggetto ritratto – molti anni dopo – nell’affresco della chiesa de “La casa dalle finestre che ridono” (1976). Una rappresentazione di sofferenza senza scampo, senza speranza e senza redenzione (sembra quasi di essere in un disco dei Cannibal Corpse, ricordavo ironicamente in qualche occasione), tanto che spinge la gente del posto – ci viene raccontato – a piangere durante la nascita di un bambino, ed a trasformare in festa i funerali. Tornando al film, all’interno dell’isola di San Sebastian – nelle Indie Occidentali – esiste un antico castello occupato inizialmente dagli spagnoli, che successivamente divenne proprietà della famiglia Holland; quest’ultima fu anche la prima a portare degli schiavi all’interno dell’isola. Nei pressi del cancello di ingresso, inoltre, si presenta l’inquietante “Tormentato“, un “uomo senza età”, una statua con delle frecce conficcate nel corpo ed un’espressione perennemente sofferente: a sua volta questa immagine evoca la polena della nave su cui la povera gente veniva deportata, e possiede un significato simbolico alquanto evidente.

    Diventa automatico, per inciso, cogliere il fortissimo legame tra la letterale resurrezione di cadaveri e l’ampliamento dello sfruttamento di braccia lavoratrici, ovvero allo scopo di moltiplicare la manodopera (sfruttandola, come ha ribadito in più occasioni George Romero). La moglie di Holland, tornando all’intreccio, è gravemente ammalata: per colpa di una misteriosa febbre tropicale vive in uno stato catatonico, percepisce poco o nulla del mondo attorno a sè, e riesce ad eseguire soltanto i compiti più elementari. Anch’essa, quindi, subisce un martirio dovuto a forze oscure esterne: una figura, quest’ultima, grandemente archetipica – e questo non tanto perchè sia una zombi (di fatto non sembra esserlo, tra l’altro il suo aspetto esteriore si mantiene impeccabile), quanto perchè pone le basi per lo sviluppo del dramma: da un lato Miss Cornell finisce per innamorarsi del marito di lei, dall’altra il fratellastro di lui desidera ardentemente la malata, e farebbe proprio di tutto per (ri)averla vicino a sè. Questo doppio conflitto rende la storia accattivante e propone una rappresentazione del “morto vivente” duplice: da un lato la catatonica che vive una non-morte senza riuscire più ad interagire coi vivi, dall’altra un undead dal passo cadenzato che presenta le principali caratteristiche che tutti conosciamo: occhi gelidi, camminata al rallentatore e mancanza di volontà propria. Tutto questo spinge l’inizialmente scettica infermiera di Ottawa a recarsi presso un antichissimo villaggio in cui si pratica il voodoo, attraversando i campi di cotone oltre i quali arcaici riti hanno ancora vita, senza considerare che presto la povera malata dovrà pagarne le conseguenze.

    Durante il film, tra l’altro, il medico che segue la paziente arriva a concepire una terapia di shock insulinico, ovvero una specie di elettroshock per provare a riportare in vita la “morta” (ed in questo, nonostante sia solo un accenno, non può che venire in mente il lovecraftiano mad scientist di Re-Animator). Subito dopo è la volta del prete voodoo, che viene esplicitamente eletto come una sorta di “medico migliore”, e per ottenere la felicità dell’uomo amato l’infermiera protagonista vorrà spingersi fino in fondo: la stessa dinamica che finirà per muovere, per citare ancora Pupi Avati, il protagonista di Zeder. L’amore impossibile, ed il suo legame con la morte, si stabiliscono come stereotipo con questo capolavoro del terrore: la summa rende “Ho camminato con uno zombie” un’opera profondissima ed ispiratrice di molteplici pellicole, dotata di una poetica sensibile – e questo è possibile avvertirlo sia nella tragica conclusione che nella moralisticheggiante voce fuori campo che commenta la vicenda. Non un tributo totalmente rivolto agli zombi-movie “puri”, quindi (che avranno tempo e modo di svilupparsi), quanto ad un cinema di terrore e dramma che ancora oggi resta vivido come faro indiscusso del genere.

    …esseri strani, spaventosi, ed anche un po’ buffi

  • Il giorno della bestia: la satira inconfondibile di De La Iglesìa

    Il giorno della bestia: la satira inconfondibile di De La Iglesìa

    Padre Ángel Berriartúa, insegnante di teologia, scopre l’esistenza di un criptogramma all’interno dell’Apocalisse di Giovanni, relativo alla data esatta della fine del mondo (25 dicembre 1995); per entrare rapidamente in contatto con il Male, contatta il commesso di un negozio di dischi heavy metal ed un improbabile mago…

    In breve. L’originalità non manca e la regia è di gran classe, per una storia frammista di elementi satirici e (solo vagamente) horror. Piacerà a chi apprezza il regista, e le commistioni di generi: da riscoprire ancora oggi.

    Considerato uno dei migliori film di Álex de la Iglesia, El dia de la bestia (Il giorno della bestia, un titolo che volutamente evoca film sulla scia di The house of the devil, ma poi si rivela tutt’altro) è uscito in Italia con l’improbabile tagline “la prima commedia satanica”, una scelta probabilmente poco azzeccata che ha rischiato di metterne i ombra i meriti (almeno in parte contenutistici, ed in fatto di originalità) e di farlo passare per quello che non è (un b-movie come tanti).  Si racconta delle vicende, in chiave assurda e spesso visibilmente satirica, di un prete che cerca ad ogni costo (e goffamente) di fare cattive azioni al fine di entrare in contatto col maligno: ha infatti scoperto che l’Apocalisse è imminente. Nelle intenzioni del regista, “Il giorno della bestia” nasce dall’immagine di un uomo colto quanto semplice ed indifeso costretto, per necessità o vocazione, a compiere gesti orribili per redimersi, entrando a contatto con quel mondo che dal chiuso delle sue stanze in precedenza non poteva conoscere.

    La chiave di lettura del film – accenni di horror ed un registro quasi esclusivamente grottesco, a cominciare dai componenti della famiglia del commesso – è in qualche modo duplice: da un lato, la storia di eroi improbabili (il prete ed il commesso del negozio di dischi heavy metal, in primis) che viene sfruttata ad ogni occasione per svelare gli altarini (maghi truffatori e conferenzieri ciarlatani, in ottica scettico-satirica). Dall’altro, pero’, esiste una componente ambigua che spinge i protagonisti – oltre al pubblico stesso – a credere realmente alla storia della venuta dell’Anticristo sulla terra, e non alle allucinazioni di due personaggi sotto LSD (che sembrerebbe la spiegazione, se vogliamo, realistica della storia, di per sè piuttosto assurda). Andando alla ricerca nientemeno che dell’Anticristo sulla Terra, i nostri eroi – tra cui il mago truffaldino che decide di aggregarsi alla missione in un secondo momento – arriveranno a sgominare una banda di criminali che effettua spedizioni punitive per le strade di Madrid.

    Le intenzioni di de la Iglesia sono chiaramente satiriche, e non perde occasione per dimostrarlo – durante la ricerca dell’Anticristo, “il cielo che ti invia il segnale che stavi aspettando“, per il prete, è soltanto la pubblicità di una TV satellitare. Al tempo stesso il regista, assolutamente padrone dei propri mezzi e qui al suo secondo film, mostra una grande conoscenza del cinema horror e non perde occasione per citare cult di ogni tipo, sfruttando addirittura le dinamiche del genere satanico (The Omen) declinandolo in senso quasi scanzonato, a tratti, e lasciando un’ambiguità di fondo sul senso reale della storia e sul vero nemico che i protagonisti stanno combattendo. Il contesto finisce per prestarsi ad una esplicita riflessione contro i meccanismi cinici della TV pubblica, sempre pronta a prestare ascolto al sensazionalismo e riportando spesso e volentieri notizie tanto false quanto clamorose (in questo De La Iglesia appare quasi profetico rispetto a certa TV spazzatura in ambito pseudo-sovrannaturale che abbiamo conosciuto in questi anni anche in Italia).

    Non mancano dettagli spassosi come il primo incontro tra prete e metallaro alla ricerca delle tre band Napalm Dez, Iron Meiden (sic) e naturalmente Hace de Cè (AC/DC). Da riscoprire con una certa curiosità, per chi non l’avesse ancora fatto.

  • Giù le mani dai gatti: tra internet, snuff e non-raccontabile

    Giù le mani dai gatti: tra internet, snuff e non-raccontabile

    Tutti amano i gatti, soprattutto su internet. Il gattino è l’emblema della condivisione media dell’utente, in omaggio alla cosiddetta Regola zero: i gatti non si toccano, in nessun caso.

    La storia di Don’t f**k with cats o Giù le mani dai gatti! , mini-serie Netflix in tre puntate, crea fin da subito un clima accattivante: una vera e propria caccia all’uomo incentrata sulla figura di uno Youtuber che posta l’infame video “1 boy 2 kittens“, cancellato e ripostato più volte sulla piattaforma. In questo video un ragazzo con un cappuccio in testa chiude due gattini dentro un sacchetto di plastica e li uccide per soffocamento togliendo l’aria con l’aspirapolvere: tecnicamente si tratta di un vero e proprio snuff movie, per quanto le vittime fossero animali e non persone. Cosa peraltro non esatta, perchè il protagonista di cui tratta il documentario smentisce l’idea che gli snuff non esistano, dato che arrivà a mettere online il sito di un reale omicidio ai danni di un ragazzo cinese. In questo ambito, peraltro, Giù le mani dai gatti! è anche atipico rispetto alle lungaggini delle serie medie, dato che si articola in soli tre episodi auto-conclusivi.

    In questa sede, pero’, il contrasto più evidente risiede proprio nel doppio livello di popolarità del killer: adorato online dai fan che lo conoscono come modello, quanto odiato da chi lo conosceva come killer di gattini. Non solo: dall’aria sexy e vanitosa, infido e imprevedibile, fu in grado di creare oltre 50 account finti su Facebook, realizzati diabolicamente con fotomontaggi della sua faccia, utilizzando semplicemente foto prese a caso da internet. Abile a far credere di fare la bella vita per alimentare l’odio della rete e, implicitamente, mostrarne i limiti e l’attitudine “di pancia” e giustizialista. La sua identità venne scoperta molto tempo dopo: il macellaio di Montreal, così come fu reso noto dai media, venne condannato per l’omicidio di Lin Jun, con tanto di video dell’omicidio postato online su un terrificante sito di snuff movie.

    La persona in questione, realmente esistente (la storia della serie, di sole tre puntate, è vera) è Luka Magnotta, viene identificata secondo il racconto della serie sull’analisi del video, a cominciare dalla coperta utilizzata a finire dalla conformazione delle sigarette inquadrata nel video. La serie non si limita a focalizzarsi sulla figura del killer, ma insiste sul clima che – grazie alla potenza dei gruppi Facebook – si diletta alla ricerca della persona in questione, abile a disseminare indizi con account fake e a prendersi gioco delle persone. Peraltro la caccia sfrutta la tecnologia in modo intelligente, dalla ricerca inversa delle immagini all’uso di dati EXIF ed alla scomposizione del video in fotogrammi: Un clima in cui le persone sui social riempiono di insulti ed aggrediscono verbalmente il killer, anche qualora non si tratti del vero responsabile ed evidenziandone il classico meccanismo di ocloclazia, o giustizia sommaria, tipico di queste dinamiche.

    Non solo: la mini-serie insinua (e poi smantella) il sospetto che Luka non fosse solo, al momento dei crimini, visto che (ad esempio) nel video del gattino divorato da un boa si vedono quattro mani e non semplicemente due. Luka, una volta catturato, parla confusamente di una figura oscura, Manny, che lo avrebbe condizionato. L’interpretazione del caso, in questa veste, sarebbe ancora più spaventosa: Manny Lopez sarebbe stato apparentemente un cliente di Luka, violento, prepotente e con tendenze sadiche – in grado di architettare, sia a distanza che in loco, le varie efferatezze commesse. I vari video diffusi su internet, secondo una dinamica complottista piuttosto tipica del web, non sarebbero null’altro se non autentici snuff postati in rete. Una macabra ed irreale suggestione, in realtà, dato che il caso chiarì ufficialmente che ci fu solo un regista, e la dinamica dell’omicidio ripreso, per inciso, ricalca in parte quella della scena cult di Basic Instinct col punteruolo. Manny Vasquez era, per inciso, uno dei personaggi più importanti del film.

    Che il protagonista fosse solo un mitomane appare del resto abbastanza riduttivo, visto che si trattò di un vero serial killer, abilissimo a disseminare falsi indizi e, come se non bastasse, piuttosto appassionato di cinema. Come se non bastasse, esiste anche un ulteriore dettaglio grottesco in tutta questa vicenda: l’omicida è anche autore di un tutorial sul blog DigitalJournal, dal titolo “Come sparire completamente e non essere mai trovati“, attualmente ancora online e ricco di dettagli in merito.

    Non sai mai chi c’è dall’altra parte del monitor: questo il messaggio di fondo della serie, a prescindere dalla gravità di quanto avvenuto che, alla prova dei fatti, portò al linciaggio online di un utente che aveva ripostato il video, affetto da depressione e senza aver mai commesso alcun vero omicidio. Il protagonista della vicenda, aspirante modello, noto per essere il primo serial killer che diffondeva i video delle proprie gesta sui social media, venne finalmente catturato a Berlino mentre leggeva notizie sul suo caso in un internet cafè: venne condannato per omicidio di primo grado e ritenuto responsabile di omicidio su persone e animali.

    Don’t F**k With Cats è una produzione Netflix del 2019, diretta da Mark Lewis e girata nello stile documentaristico classico del caso (altri esempi sulla stessa falsariga: The great Hack e Rapita alla luce del sole), assolutamente da vedere.