MIGLIORI FILM_ (32 articoli)

Le pellicole più originali, controverse o imprevedibili che siano state girate.

  • Il lato oscuro dello sport (Netflix): recensione completa

    Il lato oscuro dello sport (Netflix): recensione completa

    Il lato oscuro dello sport: la serie tv Netflix che parla di Calciopoli

    Quando lo sport incontra cronaca nera: ecco di cosa parla Il lato oscuro dello sport, serie in 6 episodi che è possibile guardare sulla piattaforma Netflix.

    Molto intrigante questo nuovo prodotto targato Netflix che racconta sei episodi molto famosi, di altrettanti sport, in cui la cronaca più efferata è entrata a gamba tesa nelle vicende raccontate e nelle vite dei suoi protagonisti.

    Si parla dello scandalo del pattinaggio artistico di figura a Salt Lake City nel 2002, delle partite di basket universitario truccate da Arizona State, della superstar dell’Indycar Randy Lanier e il contrabbando di marjuana, delle frodi assicurative e un sicario a cavallo e della caduta in disgrazia del capitano di cricket Hansie Cronje in Sudafrica. Tra i sei racconti di sport spicca l’Italia con Calciopoli e Luciano Moggi.

    Nuovi siti scommesse e vecchi scandali italiani

    Quando parliamo di sport in Italia parliamo, anche, di bookmakers nuovi (e ne nascono sempre di nuovi ogni anno) soprattutto in tempo di pandemia. Sono, infatti, due anni che il mercato online ha spiccato il volo regalando, ad appassionati e non, nuove piattaforme su cui dilettarsi e scommettere.

    Ovviamente, visto che stiamo recensendo un prodotto televisivo che parla di scandali sportivi, non possiamo non pensare a quanti di noi siano rimasti scottati dalla vicenda Calciopoli nei primi anni 2000.

    Sono anni bellissimi per il calcio, anni in cui le squadre italiane dominano in Europa. La Juventus, poi, sembra una corazzata da guerra. Il suo direttore Luciano Moggi ha costruito una squadra fortissima che non ha rivali. Il punto di rottura avviene grazie a un’inchiesta del PM Raffaele Guariniello in cui si scopre che c’è una grossa rete di protezione verso il team e la dirigenza. Vengono coinvolti altri dirigenti, arbitri, alcune partite truccate e il calcioscommesse.

    Ecco, appunto, le scommesse. E sfido davvero chiunque a non credere, per un po’ di tempo, che fosse tutto un po’ truccato in favore dell’incolumità sportiva delle big del nostro campionato. C’è voluto un processo (sportivo e penale) che ha messo alla gogna i protagonisti per recuperare fiducia nei confronti dell’intero sistema.

    La Juventus, condannata in Serie B, ha vissuto il suo momento nero. Ma i campioni (almeno in parte) non abbandoneranno la nave che affonda. La squadra bianconera, infatti, si affiderà a Buffon, Del Piero e Trezeguet anche in B. Moggi, invece, scomparirà totalmente dal mondo del calcio di cui è stato “padre padrone” per più di 20 anni.

    Lo scandalo di Arizona State e gli altri episodi

    Mentre uno dei film più visti in questo periodo è Don’t look up non possiamo non aprire una parentesi sugli altri episodi presenti nella serie. Il primo racconta dello scandalo delle partite truccate nel campionato universitario di basket da Arizona State e il suo protagonista Hedake Smith (talentuosissimo point guard). Il miglior scorer di sempre scambiò il suo futuro nell’NBA per 20mila dollari e resta uno degli episodi più famosi e più controversi tra tutti.

    Il secondo episodio racconta del piccolo spacciatore Randy Lanier che, con gli introiti dello spaccio di marjuana, sponsorizza le sue gare in Indycar e nel frattempo porta il suo business in ambienti e situazioni insperate (rivelatesi poi completamente sbagliate).

    Il terzo è quello di cui abbiamo parlato (Calciopoli). Il quarto episodio racconta delle pressioni verso un giudice di pattinaggio che favorisce la Russia davanti al Canada alle Olimpiadi invernali del 2002.

    Il quinto episodio tocca il mondo dell’ippica con Tommy Burns che racconta con grande rimpianto dei giorni in cui era costretto ad ammazzare cavalli da competizione come parte di una truffa assicurativa che veniva elaborata dai ricchi proprietari.

    L’ultimo episodio è quello che getta ombre sull’idolo sudafricano di cricket Cronje che, attraverso alcune intercettazioni della polizia indiana, viene scoperto truccare incontri per migliaia di dollari. Nonostante sia stato bandito dallo sport a vita è ancora considerato uno dei migliori giocatori africani. La sua morte, avvenuta in un incidente aereo nel 2002, ha causato non poche polemiche in patria. Alcuni giornali hanno sostenuto, infatti, che il giocatore sia stato vittima di un’azione criminale da parte di alcuni sindacati di scommesse sul cricket sudafricano. Ovviamente queste accuse non sono mai state considerate reali, ma solo delle teorie complottistiche.

  • Arancia meccanica: dalla rieducazione all’oblio

    Arancia meccanica: dalla rieducazione all’oblio

    Alex DeLarge è un giovane londinese che trascorre le giornate tra risse e stupri, accompagnato da una banda di degenerati degni compari: arrestato, viene sottoposto ad un esperimento di rieducazione (“la cura Ludovico”, fortemente promossa da un candidato ministro) dagli esiti imprevedibili.

    In breve. Il saggio di ultra-violenza cinematografica per eccellenza: senza dubbio tra i migliori film di sempre.

    Considerato ai primi posti nella classifica dei più controversi film mai girati (secondo posto, l’Entertainment Weekly nel 2006), rientra in numerose classifiche, tra cui quella di essere al 70° posto come miglior film in assoluto. In realtà “Arancia Meccanica” dovrebbe rientrare tra i primi dieci di diritto: l’arte cinematografica di Stanley Kubrick, virtuoso regista stra-citato quando discusso e impossibile da imitare, si esprime infatti in una delle sue migliori creazioni.

    Arancia meccanica – noto con vari titoli a seconda degli stati: The Orange From Hell, Paklena Pomorandza, Paklena Naranca, Paklena Masina, Machine from hell, tutti titoli che evocano “Un’arancia ad orologeria” che doveva far riferimento, nelle intenzioni dell’autore Anthony Burgess, ad un essere umano trasformato in una macchina – racconta una storia realistica in un’Inghilterra distopica. Lo fa sfruttando una singolare reinvenzione del linguaggio, in una propria, inequivocabile dimensione, aderente al romanzo da cui è tratto e riletta in grande stile. Ciò avviene a partire dai presupposti scenografici, che immaginano un’ambientazione bizzarra (attuale quanto futuristica, diremmo: ci sono libri e vinili, ma si capirà di non essere nel 1971), tra colori sgargianti e tecnologie vintage, per focalizzare una storia di “ordinario degrado”, come tante ne potremmo sentire in cronaca – che diventa successivamente grottesco puro. Nel farlo, Kubrick si affida ad un linguaggio puramente rivoluzionario, sfruttando il cinema per esprimere le contraddizioni dei metodi autoritari di educazione e, al tempo stesso, mostrando altrettante perplessità su quelli più aperti in voga in quegli anni. Se da un lato potremmo quindi intravedere le derive del cinema poliziottesco (che rappresentava sempre più spesso eroi comuni che giustiziano da soli i delinquenti, soddisfando la sete di sangue di certo pubblico reazionario), Arancia Meccanica si pone in una posizione sostanzialmente contrapposta, tutt’altro che ideologica o “per partito preso”.

    Arancia meccanica vive in un clima strano, un’Inghilterra straniante e distopica, fatta di colori vivaci e luce diffusa: un possibile parallelismo di ambiente potrebbe ricondursi a ciò che avviene in certa letteratura cyberpunk. Il futuro (perchè è qui che si colloca la storia di Alex) non è fatto da tecnologie alettanti o astronavi nello spazio, bensì da paure urbane, violenza gratuita, alienazione, droghe e sesso violento. Componente sessuale, qui, funzionale e caratterizzante (al netto di polemiche moralistiche, sostanzialmente inutili), in grado di perdere qualsiasi attrattività per lo spettatore, diventando mera esibizione di vuoto, spettacolarizzazione cruda e brutale. Qualsiasi esagerazione visuale, del resto, fa vedere da cosa parta Alex, fino a definire una parabola su cosa diventerà: questo sembra essere il punto. In questa narrazione la grandezza di Kubrick si declina anche nel non lanciare alcun esplicito messaggio moralistico o di monito, come faceva ad esempio tantissima exploitation (da questo film molte scene sono state ispirate o imitate, spesso con risultati e filosofie ben diverse), bensì nel mettere lo spettatore di fronte ad un paradosso (senza uscita?): laddove la rieducazione del selvaggio Alex sembri doverosa o necessaria, improvvisamente il ragazzo è diventato un’ameba incapace di difendersi, vittima di un feroce contrappasso nonchè strumentalizzato a fini politici.

    Il soggetto del libro fu assegnato (nell’ordine) a Mick Jagger dei Rolling Stones, a Ken Russell, a Tinto Brass e finalmente a Stanley Kubrick, che si prese l’incarico di girarlo vedendo in Malcom McDowell l’unico possibile interprete del protagonista. Ne risulta un film emblematico, solidissimo nel suo concepimento, a sottolineare un’idea precisa di cinema kubrickiano, perfezionista fino all’estremo: Kubrick non solo girò ogni scena numerose volte (incluse quelle più obiettivamente difficili da gestire per gli attori), ma fece anche distruggere dal proprio assistente tutto il girato non utilizzato. Non solo: temendo che i cinema che proiettavano il film lo manipolassero prima della proiezione, si accontentò di un budget di poco più di 2 milioni di dollari (un budget da b-movie, per l’epoca) pur di mantenere il controllo sul materiale, curando personalmente le campagne pubblicitarie del film, il trailer e (pare) mandando, poco prima delle proiezioni, nuove copie integrali ai principali cinema, in modo da assicurarsi che il film fosse sempre proiettato per intero.

    Sembra incredibile a pensarci oggi, ma Arancia Meccanica venne girato con un budget ridicolo rispetto alla grandiosità che sarebbe riuscito ad evocare, diventando un’icona pop, di genere, di cinema impegnato e quant’altro, ed è questo un ulteriore motivo di pregio per una delle pellicole più autenticamente distopiche mai realizzate. Un film determinato da una selezione di riprese ossessive, dove nulla è lasciato al caso, e da gesti meccanici, coreografici (Alex che danza nelle scene più violente, così come è in grado di diventare mansueto e farsi coccolare dalle autorità, è uno spettacolo ineguagliabile): in una parola perfetti proprio perchè provati e ripetuti fino all’inverosimile. Basti pensare (senza entrare nei dettagli) che solo il finale venne ripreso ben 74 volte, prima di pervenire alla versione definitiva.

    Arancia meccanica è quel tipo di pellicola autoriale controversa, lontana dalla tradizione di genere ma che, in parte, al cinema più popolare strizza l’occhio: è un film per cui è impossibile dire se sia drammatico, distopico, grottesco o che altro, che viene arricchito da elementi aggregabili che sarebbero diventati codificatissimi sotto-generi. Il racconto di ordinario degrado urbano, il cinema decadente, un certo tipo di recitazione straniante e ostentata – le spiazzanti home invasion, l’infame tradizione del revenge movie, sono tutti elementi richiamati nel film con gradazioni differenti.

    Un personaggio, quello di Alex, emblema del ragazzo difficile in cui è impossibile immedesimarsi, dall’innata crudeltà esaltata da un carattere passionale (stupratore e aggressivo, quanto amante del “Sommo Ludovico Van” Beethoven), per cui alla fine si proveranno sentimenti contrastanti. Le sequenze sembrano avvenire in luoghi caratterizzati da un mix bilanciato di grandiosità e complessità (il teatro abbandonato, le statue di Allen Jones del Korova Milk Bar, il centro di rieducazione che non è che una profondissima sala cinematografica), a finire dal modo di parlare dei personaggi, che evocano quello del libro di Burgess con il loro strano e suggestivo modo di esprimersi (il “nadsat”, un mix di slang russo ed inglese) e di chiamare le cose (il “latte più” alla mescalina). Del resto, è proprio il linguaggio a condannare Alex, in quanto la segnalazione alla polizia della sua presenza viene presa sul serio per “quello strano modo di parlare”.

    Vale la pena di raccontare, peraltro, ciò che accadde durante e dopo la famosa scena dello stupro, accompagnata in modo straniante da “Singing in the rain“: la cosa venne improvvisata sul set dopo 4 giorni di prove, e l’idea era quella di non banalizzarla o renderla troppo convenzionale. Kubrick fu talmente entusiasta del ciak definitivo da essere disposto a pagare 10,000 dollari per ottenere i diritti sul brano. Ma non solo: in seguito pare che Gene Kelly (protagonista del film Cantando sotto la pioggia, 1952) abbia evitato il povero McDowell durante una festa, dicendosi disgustato dall’uso che l’attore aveva fatto di quella canzone sognante e ottimista.

    Dopo una prima porzione di film incentrata su nefandezze di ogni genere, Alex – tradito dai compagni che diventeranno i suoi futuri aguzzini – diventa il detenuto 655321, alienato ed oppresso dall’autorità, sottoposto ad un durissimo regime carcerario ed alle prediche della religione e dell’autorità militare. Da qui scaturisce un ipocrita interesse per i testi sacri (che poi non è che immedesimazione in cruenti e dissoluti centurioni), ma soprattutto per la Cura Ludovico: un brain-wash a tutti gli effetti, che passa per la sottoposizione incessante ad immagini violente, allo scopo di purificarsi. A questo punto è la svolta: Alex è disposto a svendersi ed adeguarsi ai canoni imposti dalla società (“essere buono“, per lui, è un modo come un altro per essere di nuovo libero), ma non considera cosa comporti essere privato della possibilità di scegliere (“quando un uomo non ha scelta, cessa di essere un uomo“). Così si offre – dal suo punto di vista, furbescamente – alla cura, il che lo porterà alla libertà quanto alla progressiva rovina. Una volta fuori, c’è un mondo che non aspetta altro se non potersi vendicare delle sue malefatte.

    La Cura Ludovico è forse l’emblema del cinema politico tacciato di estremizzare e brutalizzare la visione: nel vedere Alex sottoporsi a filmati violenti, qualsiasi appassionato di cinema (soprattutto se estremo o borderline) troverà un appagante parallelismo. In fondo la visione di ogni film, specie tra i più controversi, non è che una “cura Ludovico” per provare a purificarci, al netto delle strumentalizzazioni e del comportamento che la visione potrebbe indurre. In questo, Arancia Meccanica si erge semplicemente come capolavoro assoluto.

  • The Green Inferno: l’horror più politico di Eli Roth

    The Green Inferno: l’horror più politico di Eli Roth

    Un gruppo di attivisti parte per il Perù, al fine di fermare le ruspe di una società che vuole radere al suolo parte della foresta e proteggere la tribù del posto: l’azione sembra riuscire, ma l’imprevisto è in agguato…

    In breve. Horror ispirato e di buona fattura. Da Eli Roth normalmente escono fuori film che si apprezzano di più se si conoscono le fonti di ispirazione classiche: diversamente, passa un’idea di “cosa” poco conto, ed in questo particolare contesto, dato il richiamo ad un sottogenere come quello cannibalico, non può che essere così. The Green Inferno merita appieno la visione, e non è banale nel suo concepimento nonostante qualche apparenza contraria, e soprattutto per il finale.

    The Green Inferno di Eli Roth ha segnato il ritorno al cinema del regista americano, noto ai più per il primo Hostel (2005), un fake trailer di Grindhouse (2007) ed il meno noto (ma non trascurabile) Cabin Fever (2002). The Green Inferno è uscito nelle sale due anni dopo la sua uscita, per inciso, per via di vari problemi distribuitivi.

    The Green Inferno è un horror, più precisamente appartiene ad un sottogenere molto ben delineato negli anni ’70: la tradizione cannibal (Deodato ne fu un po’ il padre fondatore), e Roth modernizza e rielabora quegli stessi canoni, sia a livello narrativo che concettuale, al netto di qualche “licenza poetica” niente male. Di fatto, la violenza dei cannibal è vivida, realistica, fuori norma rispetto a quello che si vede anche nell’horror più truce e scorretto: in certi momenti, qui, sembra di assistere ad un documentario in HD per quanto è esplicito, per quanto manchino gli eccessi snuff (sugli animali) che hanno reso celebre, nel bene o nel male, altre pellicole del genere in passato.

    Nonostante questi presupposti inquietanti, The Green Inferno riesce a non essere troppo pesante, tantomeno fuori luogo (il rischio era altissimo, data la particolare venatura del sottogenere di riferimento) o privo di ritmo (come a volte accadeva anche nei cult del passato). Lo sbadiglio è prevenuto dal nuovo, onnipresente, colpo di scena, e questo è già importante di suo. Roth non delude, Lorenza Izzo (Justine) fornisce una buona interpretazione, c’è in generale un’accattivante (per quanto vagamente stereotipata) caratterizzazione dei personaggi. Non manca un certo tocco grottesco (che molti hanno frainteso come trash) che caratterizza tutta la filmografia del regista di Hostel. Intuizione molto attuale, ed in linea con l’oggi, peraltro, il riferimento drammatico alla pratica dell’infibulazione, e la presenza di una vegana dichiarata tra gli attivisti, il che creerà un bel po’ di “dilemmi morali” (dato che si parla di cannibalismo).

    Roth sembra avere le idee chiare sul tipo di film da girare, mostrando di conoscerne appieno i canoni; parte da Cannibal Holocaust (1980) e lo ristruttura con elementi politici (la critica alla politica militante in certe accezioni è sostanziale), ambientandolo ai giorni d’oggi e inserendo idee fresche e innovative.

    Per farlo, ha avuto bisogno di recarsi nella foresta amazzonica, e non solo: per risolvere il problema di far recitare degli indigeni che non avevano idea di cosa volesse dire farlo – e prima che venga un colpo a qualcuno, è bene specificare che non esiste alcuna tribù cannibale da quelle parti – gli ha proposto (suggerisce IMDB) la visione proprio della celebre pellicola di Deodato, in modo che avessero idea di che cosa avrebbero dovuto fare. Un modo originale che è risultato tremendamente efficace, soprattutto per i due “capi” (l’indigeno truccato della copertina, e naturalmente l’inquietante sciamana), mentre in più occasioni l’orda cannibale sembra evocare quella dei feroci non-morti di Romero e compagnia (vi risparmio i parallelismi ovvi del caso). Tra l’altro, un curioso aneddoto racconta della tribù che vive realmente da quelle parti, la quale a fine riprese avrebbe offerto un bambino di due anni come “regalo d’addio” alla troupe, se servisse dirlo, non accettato.

    Del resto – e questo è sfuggito clamorosamente, secondo me, a molti recensori – Roth non vuole osannare banalmente la tribù come espressione del “buono” e l’uomo occidentale come “cattivo”: anzi, si guarda bene dal farlo. Forse sarebbe bene liberarsi delle contrapposizioni da social network, o da analoghe polarizzazioni, perchè The Green Inferno è ricco di sfumature non scontate e poco marketizzabili. Mescola le carte proprio per togliere qualsiasi punto di riferimento, al fine di esprimere la medesima disillusione che guidò Deodato nel suo film misto 16/32 mm, circa 35 anni fa. Al posto dei giornalisti a caccia di scoop facili, stavolta, c’è la pluri-osannata informazione del “popolo del web”, il citizien journalism (forse più in voga negli USA che da noi), il totem del pensiero progressista; ma anche strumento improprio, il web, con cui si diffondono messe in scena e bufale da parte di personaggi senza scrupoli.

    Gli attivisti che usano cellulari connessi ad internet come “armi”, suggerisce il regista (che ha anche scritto il soggetto), finiscono per specchiare tristemente una propria auto-referenziale vanità, con la quale si limitano a lavarsi la coscienza mediante slogan politici o indossando magliette del proprio guru. Il ritratto degli attivisti, volutamente imbarazzante per certi versi, serve a mostrare allo spettatore da dove arrivino le vittime, al fine di massimizzare il contrasto con la seconda parte del film.

    Da un alto, quindi, abbiamo degli attivisti intenzionati a fermare la devastazione delle ruspe, animati da ottime intenzioni (che saranno in massima parte deluse): dall’altro i cannibali, che mostrano poca o nessuna comprensione per i propri “liberatori” i quali, a quel punto, non avranno modo di far capire la propria buonafede. Eli Roth ci tiene a mostrare le massime efferatezze, lo fa con lo stile e la credibilità visiva che conosciamo, e realizza essenzialmente un film molto politico (alla Romero o Carpenter, per intenderci), più politico anche di Cannibal Holocaust (che certo non scherzava, per l’epoca), in cui – mutatis mutandis  – ne fuoriescono disillusione e nichilismo.

    Gli indigeni, ripresi per la prima volta in una pellicola, ben figurano in un film del genere, ed in numerose sequenze sono suggestivi e spaventosi come poche volte (o da troppo tempo) si era visto al cinema. Molte sequenze sembrano prese pari-pari da Cannibal Ferox e dal pluri-citato Cannibal Holocaust, addirittura la fisionomia e le azioni di certi attori evocano quelle dei precedenti interpreti e situazioni.

    Si vorrebbe quindi far passare una certa critica ai movimenti no global, accusati di scarsa efficacia, di fare politica solo per capriccio o senso di colpa, e di accettare un idealismo cieco, quando non del tutto opportunista (le figure dell’indecisa Justine e dell’ambiguo Alejandro, paragonabile all’idolatrato Cuervo Jones di Fuga da Los Angeles, la dicono lunga in merito). Le medesime figure di attivisti, il cui “capo” mostrerà solo in seguito la propria natura, saranno vittime designate della tribù, in una sorta di vendetta rituale vera e propria. Il messaggio è quasi ovvio: devastiamo il mondo con la presunta civiltà, ci affidiamo a parti politiche ipocrite ed anticonformiste solo di facciata, la natura ce la farà pagare.

    Dipende dallo spettatore, a quel punto: se apprezzate escursioni ideologiche del genere, tanto di cappello – amerete quasi certamente The Green Inferno, criticandone al più una certa estetica che non è vintage e, a confronto col passato, non sempre spaventa come dovrebbe (è molto relativo, mi rendo conto: per parecchi di noi, l’idea dei cannibali è da relegare alle vignette dei giornalini). Se non digerite questo tipo di horror brutali con tanto concetto dietro, vi conviene restare lontani, lontanissimi dalle sale (e dai DVD che usciranno), perchè alla fine prevarrebbero le solite critiche di “pesantezza”, nonchè la discussione eterna se un horror abbia o meno gli strumenti semantici (parolone) per mandare messaggi del genere (risposta breve: li ha sempre avuti, ma questo mi permetto di pensarlo personalmente).

    Non abbiamo bisogno di parlare di questo, in fondo: abbiamo bisogno di buoni horror, e secondo me Roth ne ha fatto uno niente male.

  • Sinister: la creatura di Derrickson in bilico tra serial killer e sovrannaturale

    Sinister: la creatura di Derrickson in bilico tra serial killer e sovrannaturale

    Ellison è uno scrittore in crisi: il suo libro “Kentucky Blood” è stato un best seller, ma attualmente vive nel dimenticatoio, e sta cercando l’ispirazione per un nuovo lavoro. Tacitamente memore del Jack Torrance di Shining, si stabilisce con la famiglia all’interno di una casa in cui, come vediamo dall’inizio, sono avvenuti degli orrendi omicidi. Il ritrovamento di una serie di filmini in formato Super 8 introduce ad un terrificante “filo” che sembra ricondursi ad un killer seriale.

    In breve. Horror a tinte sovrannaturali che affascina per via della possibile spiegazione razionale che lo accompagna: per quanto il ritmo possa latitare in certi momenti, certamente un buon film con finale neanche troppo “telefonato”.

    “Innegabilmente spaventoso”, “prevedibile”, “spaventoso ma artificioso”: queste alcune delle controverse reazioni della critica alla prima visione del film: un lavoro diretto e sceneggiato da Derrickson che non delude le aspettative.  Sviluppando uno degli archetipi più classici del cinema del terrore e thriller – una situazione parzialmente ordinaria che degenera, più una serie di segreti ben nascosti nella storia – il regista ci propone in particolare un Ethan Hawke in gran forma, credibile ed immedesimato nella parte. Chi ha girato il filmato della morte della famiglia? Per quale ragione non è stato ripreso uno dei componenti? Perchè è stato realizzato il tutto? Sono queste le domande che angosciano il protagonista, coadiuvato dalle interpretazioni intense e coinvolgenti dei propri familiari. Alla base di questo singolare thriller contaminatissimo con l’horror, vi è di fatto una situazione di conflitto legata alla tensione che trasmette il protagonista per via del lavoro che svolge (scrivere romanzi incentrati su fatti reali di cronaca nera).

    La figura di Bughuul, demone mangiatore di bambini (riferito nel film come Mr. Boogie, “l’uomo nero”), viaggia attraverso il tempo e lo spazio alla ricerca di giovani vittime di cui nutrirsi. Figura senza dubbio affascinante la sua, perchè rielabora curiosamente la figura del villain – come potrebbe esserlo Nightmare, Smiley o Jason – e ne arrichisce i connotati, inserendovi elementi di pseudo-tradizione babilonese. Questo è uno degli elementi di forza di una storia che, in “Sinister“, probabilmente qualcuno potrebbe trovare prevedibile ma che, di fatto, non lo è neanche troppo, specie se si considera il sulfureo (e nerissimo) finale. La quasi totalità dell’intreccio di “Sinister“, dal canto suo, si fonda sulla contrapposizione amore/odio instauratosi tra Ellison – che suggerisce una morbosa ricerca della verità, anche a costo di superare ogni limite – e Tracy, che invece simboleggia la coesione della famiglia, e più in generale l’importanza della sfera emotiva. Di fatto questo tipo di contrapposizione riesce, seppur con qualche piccola forzatura, a far emergere un film di buon ritmo e livello, capace di appassionare anche lo spettatore più smaliziato. Certamente non mancano riferimenti e citazioni più o meno spudorate: a parte un parziale parallelismo con Shining, svariati elementi di “Sinister” richiamano The ring, una certa tradizione horror nipponica legata ai demoni che tornano ciclicamente (Ringu, Noroi, Izo), le atmosfere di Them e, in buona parte, quelle snuff-orrorifiche di REC.

    Per questa ragione piacerà senza dubbio a chi è amante di questo genere di scenari, per quanto la struttura stessa del film riesca ad aprirsi ai gusti di più di un tipo di pubblico, anche quello meno avvezzo – come il sottoscritto – alle pellicole incentrate su eventi sovrannaturali.

  • Morituris: il film di Raffaele Picchio è stato uno dei più massacrati dalla censura di ogni tempo (purtroppo)

    Morituris: il film di Raffaele Picchio è stato uno dei più massacrati dalla censura di ogni tempo (purtroppo)

    Tre giovani e due donne si recano in macchina ad un rave: questo è quanto fanno credere…

    In breve. Un film crudo e terrificante, un saggio magistrale di decadenza come non se ne vedevano da anni: censurato in Italia con poco giustificabili toni inquisitori, ed ingiustamente maltrattato da chi non ha saputo neanche vederlo, è uno slasher quasi revenge movie che gioca a decostruire il genere, meritevole di rispetto e di una riscoperta. Un vortice di nichilismo, realismo e ferocia umana, ispirato parecchio al primo Wes Craven.

    Abbiamo trascorso anni della nostra vita da recensori a farci affascinare, deprimere o esaltare da prodotti cinematografici al limite dell’amatoriale, spesso qualitativamente non eccelsi, con l’etichetta cult appiccicata a volte meritatamente, altre a casaccio. Abbiamo sofferto nel vedere certe produzioni, soprattutto quando le idee non mancavano, provando a salvare il salvabile – e stroncando ove e quando necessario lo stroncabile (difetti di recitazione e buchi narrativi, in primis). Abbiamo trascorsi serate tra amici e conoscenti a raccontare quante sorprese sappia riservare il cinema di genere, sentendoci fare “spallucce” un numero innominabile di volte. Di una cosa, pero’, potete stare certi: il cinema di genere exploitation non sarà più quello di prima, per voi, dopo aver visto questa opera prima di Raffaele Picchio. Morituris è libero da qualsiasi carattere di amatorialità e mostra che, una volta nelle sale, ogni film può possedere pari dignità: peccato che questo film non abbia avuto questa opportunità, visto che è stato bloccato dalla censura italiana e ne è stata vietata la proiezione in qualsiasi cinema (festival esclusi).

    Un film sporco, violento e destinato a lasciare il segno sullo spettatore, prendendo abbastanza evidentemente ispirazione dal primo Wes Craven (quello del cult L’ultima casa a sinistra), ma andrebbero citati anche L’ultimo treno della notte di Aldo Lado ed il torbido Cani arrabbiati di Mario Bava. Picchio non ama scherzare col cinema, in tutti i sensi: se da un lato infatti mostra una certa maestria nel riprendere (considerando che moltissime scene sono girate al buio), dall’altro evita di virare sui toni da cine-fumetto che tendono, in questi casi, ad ammorbidire il contesto mediante le solite abusate dicotomie Buoni/Cattivi o Indiani/Cow-Boys. Morituris è un horror slasher in cui non devi parteggiare per nessuno, non puoi farlo perchè è un prodotto talmente atipico ed originale da non consentirtelo. Il risultato, certo, potrà sembrare visivamente eccessivo ad alcuni, ma a ben vedere l’insistere sulla violenza (e le accuse di misoginia conseguenti) è un ingrediente necessario, parte dell’intreccio stesso (e della decadenza che condanna), necessario per generare un climax di tensione che giunge all’estremo nella (parecchio emblematica) scena finale.

    La tagline del film è “il male ha la meglio“, ed è così. Non volevamo fare una commedia horror, bensì una metafora surreale di ciò che, realisticamente, producono le azioni malvagie. Quando una bomba nucleare esplode, muoiono tutti (R. Picchio)

    Girato con spirito antropologicamente pessimista (la tagline del film non poteva che essere “evil prevails”) Picchio mostra non solo di conoscere “tarantinamente” il cinema di genere – ed in particolare l’exploitation – ma anche di saperlo rielaborare, usando bene i mezzi a sua disposizione ed esplicitando l’orrore in modo sorprendentemente equilibrato. Nonostante la violenza sia spesso ben visibile (e questo ovviamente, non lo rende un film da guardare “a cena coi parenti“: del resto, quale horror di qualità lo è?), si gioca sapientemente sul “non visto” e sugli sguardi malati (oltre che sulle perversioni) dei protagonisti: no violence for free, at all, per usare le parole del regista stesso, perchè tutto ciò che si mostra è necessario al contesto. Il quadro che ne esce è notevole: non solo i carnefici subiscono un violento contrappasso (che non dovrebbe essere una novità), ma anche le vittime non sono risparmiate da un culto della vendetta assoluto ed al di sopra di tutto, e che si propaga evidentemente da millenni.

    Vagamente ispirato al massacro del Circeo (il terribile fatto di cronaca nera avvenuto nel settembre 1975), Morituris si avvenutra in una storia di violenza girata con taglio quasi documentaristico, cupo e molto realistico, con tre giovani romani che adescano, con la scusa di un rave, due ragazze.  Dopo averle ferocemente violentate, scopriranno un Male assoluto (un gruppo di feroci gladiatori non morti) in grado di colpire con una cattiveria ben più grande della loro.

    Si ibridano nel film due componenti principali: da un lato la exploitation più cruda, dall’altro (abbastanza curiosamente per il contesto) l’horror a tinte sovrannaturali: il risultato di questo intelligente mix è uno slasher efficace, realistico quanto legato alla teatralità mitologica dei gladiatori dell’Antica Roma, ed alla rivolta di Spartaco in particolare. La scelta di attenuare l’elemento revenge dalla storia – che comunque, a suo modo, è presente quanto abbreviato dalle circostanze – è spiazziante, almeno quanto la citatissima sequenza dello stupro con le forbici (tensione allo stato puro). Al tempo stesso, Picchio riesce a non appesantire il contesto, che resta ovviamente più nero della notte ma che mostra qualche accenno di un sentire più vario, dagli aggressori che non capiscono il latino fino all’avviso finale, che ricorda agli spettatori che nessun animale è stato maltrattato in questo film (solo vedendo la scena del topolino, altra sequenza spoilerata senza pietà dal vituperato “popolo del web“, si può afferrare l’ironia).

    Al tempo stesso, al netto delle sproporzionate polemiche da parte di chi aveva stabilito non potesse andare nelle sale (c’è una Commissione Censura che lo ha fatto) Picchio e Perrone sono stati inequivocabili sul messaggio sottinteso (i personaggi non si chiamano mai per nome, perchè rappresentano archetipi universali di umanità; per non parlare del sulfureo in memory of mankind visibile sui titoli di coda), ma non c’è dubbio nemmeno sul contesto narrativo (i protagonisti sono three young, rich-upper class, fascist roman guys pick up two Italian girls), sulla caratterizzazione dei personaggi (la loro doppiezza è inquietante quanto realistica), ed infine sul genere, che è un thriller-slasher a tinte fosche girato quasi come uno snuff (molte riprese in movimento, ma nessun effetto “mal di mare” ed altrettanta perizia nel riprendere e nessuna inutile pornografia della violenza, per inciso).

    Non vi è alcuna speranza di redenzione o di vendetta in Morituris, il che è probabilmente sottinteso nel nome stesso del film: forse è questo, più di tutti, a rendere il film destabilizzante quanto preda di polemiche feroci, spesso da parte di webeti e a volte inappropriate. Certo, probabilmente il film non è perfetto, ma è pur sempre un’opera prima, non presenta momenti di calo, è ben recitato (e questo è un punto a favore considerevole), ma credo in tutta franchezza che farlo passare per uno snuff di bassa lega (come anche testate horror normalmente competenti e sempre sul pezzo hanno fatto) sia fuori luogo quanto profondamente ingiusto. Guardatelo con l’idea di assistere ad uno spettacolo estremo, certo, ma anche ricco di qualità e di idee, ed ovviamente preparatevi a soffrire (nel senso migliore del termine).

    Morituris si trova in DVD su Amazon (la versione che ho linkato è la francese uncut in lingua italiana di 90 minuti, della Elephant Films), mentre quella tagliata ne dura solo 83, ed è uscita per la Sinister Film.

    Nota: le parole del regista sono tratte da una interessante intervista al sito Bloody Disgusting.