MIGLIORI FILM_ (32 articoli)

Le pellicole più originali, controverse o imprevedibili che siano state girate.

  • Melancholia: il dramma della depressione secondo Von Trier

    Melancholia: il dramma della depressione secondo Von Trier

    Il pianeta Melancholia minaccia di avvicinarsi alla Terra; nel frattempo, Justine sta celebrando il proprio matrimonio…

    In breve. Incursione del regista nel genere apocalittico, ovviamente a modo proprio: si parte dal ricevimento del matrimonio della protagonista, e si prosegue la narrazione sui più cupi toni. Sullo sfondo, un pianeta che minaccia di andare in collisione e distruggere la Terra. Rientra nel genere del “più discusso che visto“, soprattutto per via delle dichiarazioni controverse di Von Trier che lo fecero espellere da Cannes.

    Un film ingiustamente sottovalutato per via della concomitanza con le dichiarazioni shockanti del regista a Cannes, che gli valsero l’espulsione dal festival; questo ha finito per mettere in ombra la sostanza del lavoro, per cui certa critica (ad esempio Maltese) è arrivata a farlo passare con disprezzo per apologia di nazismo, evitando accuratamente di menzionarne i meriti (la forza del personaggio protagonista, la narrazione apocalittica stravolta rispetto alla tradizione, il riferimento a Shakespeare), e dando un’immagine sostanzialmente fuorviante del tutto, maltrattato neanche fosse realmente aderente al cinema del Terzo Reich.

    Ovvio che le frasi del regista pro-nazismo (in risposta provocatoria ad una domanda sulle sue origini tedesche) sono state problematiche ed imbarazzanti, ma resta il fatto che i film vanno visti e vanno giudicati per quello che sono, non sulla scia di dichiarazioni di contorno – per quanto controverse (e poco chiarite in seguito) siano state. Il rischio, infatti, è quello di farsi strumentalizzare una virgola ed oscurare il restante 99%, caso tipico, peraltro, di molti degli artisti più meritevoli.

    Se è vero che il cinema di propaganda rappresentava realtà artefatte al fine di mantenere alto l’umore della folla, quest’opera di Von Trier fa l’esatto contrario: immerge senza pietà il pubblico negli spaventosi fantasmi della depressione, canalizzandoli come un pianeta portatore di distruzione. Un male che è risaputamente difficile da raccontare, e che il regista decide di accompagnare con l’esposizione, ben nota, della sua consueta filosofia nichilista: è questo a rendere forse “indigesto” questo Melancholia che, come valore assoluto, resta un film pregevole e di grande livello. Il regista decide di narrare la storia mediante discorsi prevalentemente indiretti, facendo affidamento sulla mimica della Dunst e su relazioni tra i personaggi sempre ambigue e bivalenti: può piacere o meno, ma dal punto di vista artistico la scelta è impeccabile.

    La narrazione lavoro molto sugli accenni, sui riferimenti detto/non detto, soprattutto attraverso l’interpretazione magistrale della protagonista, per cui il pianeta Melancholia, in inesorabile avvicinamento alla Terra (probabilmente ispirato al pianeta ipotetico Nibiru), diventa un simbolo puro di ineluttabile autodistruzione. Cosa ancora più significativa, il finale viene subito mostrato al pubblico, con la sequenza di Melancholia che ingloba il nostro pianeta e scatena l’Apocalisse, anticipando un finale che poteva essere clamoroso (ed obbligando il pubblico a concentrarsi sul resto del film). In quest’ottica, l’interesse di Justine per l’astronomia da un lato, e la cieca fiducia nella scienza del cognato dall’altro, assumono una valenza tragica e grottesca al tempo stesso, ed andrebbero letti esclusivamente in quest’ottica.

    Melancholia simboleggia la più crudele depressione (la stessa vissuta in prima persona dal regista, all’epoca) nella figura controversa di Justine, sposa solo apparentemente felice, che senza una reale ragione si farà sopraffare da un malessere nichilista giusto il giorno del suo matrimonio. Lo stesso personaggio che, quasi incredibilmente, saprà mantenere la calma più assoluta pur consapevole della fine imminente, emulando così il comportamento tipico degli affetti da depressione. Personaggio di grande spessore, peraltro, poichè ispirato all’Ofelia di Shakespeare così come rappresentata nel dipinto di Millais (e che nel film possiamo vedere rievocata all’inizio). Non siamo ai livelli sublimi delle conflittualità espresse in Antichrist, per intenderci, e questo film soffre di qualche problema di ritmo (tutto, nello svolgimento, è rallentato fino all’inverosimile): perdonabile, tutto sommato, se si considera quale pregevole incursione – solita fotografia spettacolare, per inciso – di Von Trier nel genere apocalittico puro, passata purtroppo inosservata da molti, oltre che snobbata per via dei problemi sopra menzionati.

    Ho molta paura di quello schifo di pianeta.

    Quello schifo di pianeta? Quel meraviglioso pianeta vorrai dire. Prima era nero, adesso è blu, copre Antares…

  • The house of the devil: possessioni demoniache in salsa anni ’70

    The house of the devil: possessioni demoniache in salsa anni ’70

    In una notte di eclissi lunare del 1983, Samantha Hughes inizia a lavorare come babysitter per un misterioso individuo…

    In breve. Horror moderno in stile ottantiano, che non può fare a meno di richiamare infiniti epigoni del genere satanico in voga negli anni ’70 (L’esorcista, Chi sei?), lo stesso ciclicamente riveduto (e corretto) dal cinema hollywoodiano. West fa un buon lavoro (forse vagamente autoreferenziale), e riesce a svilupparlo in modo originale.

    Girato in soli 18 giorni, The house of the devil si basa su fatti realmente accaduti, senza mai citarli esplicitamente ed introducendo lo spettatore fin da subito in un clima prettamente anni 80: ce ne accorgiamo dalle prime note della colonna sonora (che evoca quasi un horror fulciano), dal tipo di inquadrature, dal modo di apparire degli attori così come dal walkman di Samantha, la protagonista di una storia semplice e – a suo modo – efficace. Studentessa da poco in affitto, si propone come babysitter rispondendo ad un annuncio trovato in strada: il contatto con l’interlocutore si rivela anomalo fin dall’inizio, ma l’apparenza da brav’uomo ed i modi garbati convincono la ragazza ad accettare il lavoro, peraltro per una cifra quadruplicata rispetto al normale. La situazione – troppo bella per essere vera, come le fa notare l’amica – degenera paurosamente verso conseguenze disastrose: girovagando per la casa, Samantha (ansiosa, squattrinata e sostanzialmente ingenua) si troverà coinvolta nei rituali di una insospettabile (?) setta satanica.

    Se la prima parte del film serve solo a creare i presupposti (vive di atmosfere tese e mai esplicitate, in altri termini, se non per un singolo colpo di scena – feroce quanto piuttosto “telefonato”), è solo nella seconda parte di The house of the devil (gli ultimi 20 minuti, che è dove si concentra il clou) che si scatena la componente prettamente horror. Componente che si scatena con una singola, eloquentissima inquadratura che svela d’un colpo la verità sulla storia, iniziando con una serie di flash ed una fila di individui incappucciati, pronti ad iniziare un rituale di sangue. Lo splatter e la tensione sono ben realizzati e la regia è solida, fino ad un finale (che finisce per ricordare quello, sulfureo, di The Omen) su cui il gusto personale credo finisca per farla da padrone. La ragazza dai lunghi capelli, in veste bianca e ricoperta di sangue, del resto, sembra una citazione (forse involontaria) dei fasti argentiani di Suspiria.

    Se i presupposti per parlare di buon film ci sono tutti, non si può fare a meno di osservare come si tratti di un film del 2009, ricostruito nelle atmosfere ed ambientazioni con precisione chirurgica da Ti West, che sfoggia così un’ottima prova. Nonostante l’appartenenza agli anni ’80 possa sembrare forzosa (o addirittura un difetto) da parte di qualcuno del pubblico, ciò sembra avere un suo perchè. Del resto, il 1983 non è semplicemente un orpello da sfoggiare senza motivo, ma fa parte integrante della storia, la contestualizza; questo a mio avviso rende questo film – approcciato in modo quasi “documentaristico” all’epoca – una vera piccola perla dell’horror più o meno recente. Ambientandolo al giorno d’oggi, tra cellulari e connessioni ad internet, difficilmente avrebbe ottenuto lo stesso effetto. Del resto, a dirla tutta, non si può fare a meno di osservare che quei presupposti iniziali – in cui succede poco, in effetti – sono forse tirati troppo per le lunghe.

    Come accennato all’inizio, infatti, il film si basa su fatti reali, o meglio su quanto dichiarato dalla didascalia iniziale: “Durante gli anni ’80, piu’ del 70% degli adulti americani credeva nell’esistenza di culti satanici illegali; un ulteriore 30% individuò negli insabbiamenti da parte del governo l’insufficienza di prove in merito“. Come a dire: anche se non è vero, e se non ci sono mai state prove (i processi da panico del satanismo si conclusero tutti con assoluzioni), la paura rimane irrazionalmente legata alle menti di certuni. Nelle intenzioni di Ti West (che ha interamente scritto, diretto e montato questo film) propongono una riflessione seria ed uno uno spaccato d’epoca: certo romanzato, raccontato come horror, ma pur sempre legato alla cronaca. Poco conta, comunque, che Samantha abbia realmente vissuto o meno l’esperienza raccontata, perchè lo spirito continua da Non aprite quella porta.

    Girato volutamente in 16mm (formato must degli anni 80) al fine di conferire maggiore realismo all’ambientazione, sembra voler compostamente emulare i thriller / horror dell’epoca, tanto che venne anche commercializzato come combo VHS/DVD (non in Italia, a quanto pare). I frequenti primi piani alternati, quasi sempre senza zoom, sui volti dei personaggi, non fanno che richiamare questa sensazione vintage, che non risulta mai realmente fastidiosa – tanto che il film potrebbe essere stato realizzato tranquillamente all’epoca. Per il resto, de gustibus.

  • Non puoi non aver visto “Jeepers Creepers”

    Non puoi non aver visto “Jeepers Creepers”

    Due fratelli in viaggio su una strada semi-deserta incontrano uno strano individuo che traffica un paio di sacchi all’interno di uno scarico: la curiosità, in questi casi, è una pessima idea…

    In breve. Horror lineare e ben costruito che possiede, oltre ad una serie di pregi, quello della brevità. Uno dei ultimi vagiti di cinema del terrore basato puramente sui modelli anni ottanta, che bilancia alla perfezione “commercialità” e spirito underground: da non perdere.

    Da tempo sono dell’idea che realizzare bene un horror imponga una profonda conoscenza di molte altre pellicole: in alternativa, per quanto non sia l’unico aspetto da tenere in considerazione, il rischio di degenerare nel ridicolo involontario è serissimo. Appare subito evidente che Salva – regista di questo primo episodio del demone creeper – conosca bene il cinema, e lo si nota quando omaggia due cult come Duel e The hitcher (Jeepers Creepers inizia, mutatis mutandis, allo stesso modo della pellicola di Harmon). Citare i film preferiti è solitamente gradevole per il pubblico del cinema di genere, tanto da diventare un espediente di cui, negli ultimi, molte persone sono diventate pienamente consapevoli grazie alle parole di Tarantino. Roba da film anni 80/90, espedienti citazionisti a cui poteva ricorrere Tobe Hooper all’apice del proprio splendore ma che, già nel 2001, sembravano appartenere ad un cinema horror “fuori moda”. Con un pubblico sempre più difficile da intrattenere e spaventare, infatti, oltre che sempre più viziato dai consueti giochetti narrativi capaci di fare sbadigliare invece che sussultare, ci voleva un discreto coraggio che qui, a mio parere, non è mancato.

    Jeepers Creepers si fonda su una storia semplice quanto solida (anche se non originalissima), non corre il rischio di cadere nel ridicolo auto-compiacimento perchè, a ben vedere, preme subito il pedale dell’acceleratore, evita il superfluo ed ci introduce alla storia di due fratelli che, come si vedrà, avranno a che fare con un inquietante creeper, un demone inventato dalla sceneggiatura – un po’ come accade per un suo omologo nel recente Sinister – che si risveglia ogni ventitreesima primavera, e che necessita di sostituire i propri organi con quelli delle vittime. Jeepers Creepers è un buon film, realizzato con stile e buona presa sul pubblico, e questo nonostante abbia qualche pecca come originalità, e nonostante certe situazioni rischino di risultare “telefonate”. Tutto questo livello di relativa fluidità della storia, che sa essere anche ironica a tratti senza mai sconfinare nella demenza alla Peter Jackson, va parzialmente in controtendenza rispetto a pellicole di quel periodo molto più seriose, complesse o paranoiche (The experiment, Non ho sonno, Session 9).

    Come detto la dinamica di “Jeepers Creepers” appare dichiaratamente ottantiana, con i suoi personaggi principali caratterizzati come i tipici adolescenti comuni nei quali è facile identificarsi, con una minaccia proveniente dall’esterno, l’ineluttabilità fatalista del caso a farla da padrone per lo sviluppo delle circostanze, e soprattutto – direi – la figura di un eccellente villain che sarebbe diventato protagonista di una saga (per quanto esile essa possa essere). Al tempo stesso, pero’, non mancano elementi che evitano di rendere il film anacronistico, come l’attualizzazione dei ritmi ed un sostanziale rifiuto di imitare  passivamente tempi, luoghi e topoi del cinema orrorifico di venti anni prima. “Jeepers Creepers” è forse uno degli ultimi sussulti degni di nota di un cinema horror quasi fumettistico, che ti ricorda perennemente che ti trovi dentro ad una provincia americana e che quello è soltanto un film, una pellicola cosparsa di babau che, dopo pochi anni, sarebbero stati sostituiti dalla foga morbosa ed ultra-realistica del torture porn. Per la cronaca Jeepers Creepers (maccheronicamente “cose che strisciano sulle camionette“, cosa che il demone fa lanciandosi sulla strada a velocità folle in cerca di vittime) evoca il titolo di un brano di Armstrong e viene utilizzato come espressione gergale.

    “Mangia polmoni per poter respirare, ed occhi… per poter vedere… e credo che abbia mangiato troppi cuori per potersi fermare.”

  • Vestito per uccidere è la storia di un uomo imprigionato nel corpo di una donna

    Vestito per uccidere è la storia di un uomo imprigionato nel corpo di una donna

    Un killer uccide una donna dentro un ascensore: unica testimone del delitto, una prostituta che si trovava casualmente sul posto…

    In breve. Ottimo thriller di De Palma ispiratissimo ai lavori di Dario Argento, ma a questi livelli è quasi impossibile capire “chi” si sia ispirato a “cosa”: la trilogia argentiana era già uscita da un pezzo, Tenebre sarebbe venuto fuori solo due anni dopo. Un film, per toni e contenuti, decisamente iconico degli anni 80, uno dei migliori del genere.

    Sul finire degli anni 70 Brian De Palma scrisse una sceneggiatura basata su “Cruising” (che significa “trovare partner sessuali casualmente“), un articolo del giornalista Gerald Walker incentrato sulla figura di un serial killer che sceglieva vittime omosessuali. Non riuscendone ad ottenere i diritti, lo script passò al regista William Friedkin che lo diresse nello stesso anno proprio con quel titolo, mentre alcune influenze di quella storia finirono in “Vestito per uccidere“.

    Thriller forte, dai toni erotici marcati (anche se visto oggi, probabilmente, non fa lo stesso effetto) e caratterizzato da una vena tipicamente argentiana: ci sono il killer in impermeabile, il testimone chiave minacciato, il poliziotto-macchietta, l’assassinio in ascensore. Molto di questo film è chiaramente ispirato a Profondo Rosso (uscito cinque anni prima), con la differenza che i suoi toni sono molto più incentrati sulla componente erotica e sulle sue ambiguità, piuttosto che sull’atmosfera malsana. Molteplici riferimenti della storia, e a livello stilistico, rimandano al Fulci de Una lucertola con la pelle di donna, ma anche a Perchè quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? di Carmineo.

    La figura dell’assassino, un “uomo imprigionato nel corpo di una donna“, è una sorta di Norman Bates in forma più esasperata, anch’esso decisamente iconico. Il suo modus operandi prevede semplicemente l’uso di un rasoio, lo stesso che avremmo rivisto infinite volte nel seguito, quantomeno fino alle fantasiose trovate di Saw. A livello stilistico De Palma si ispira ad Hitchcock, specie in certe sequenze “virtuosistiche”: quella in ascensore (col suo indimenticabile gioco di riflessi nello specchio), la sequenza finale nella penombra (mix perfetto di erotismo e tensione), ma soprattutto quella dei due amanti occasionali al museo Metropolitan di New York, che dura ben 9 minuti. Dopo interminabili silenzi, il tutto culmina in un sesso che in Vestito per uccidere perde qualsiasi valenza liberatoria: è puro nichilismo. Il killer, in questo senso, è una sorta di giustiziere-moralista che, come si vedrà, vive per primo dei pesanti conflitti di personalità.

    La narrazione di “Vestito per uccidere” intriga nella sua semplicità: De Palma dirige un ottimo giallo (diremmo quasi all’italiana, se non fosse per l’ambientazione puramente U.S.A.) rinunciando a profili psicologici troppo complessi, dettagli rivelatori improbabili e finali ridicoli. Questo serve a mantenere credibile il livello della storia senza stroncarne l’efficacia e, soprattutto, senza esagerare con l’exploitation: l’unica sequenza davvero brutale, in effetti, è proprio l’assassinio di quella che sembrava la protagonista, mentre resta anche impressa una megalopoli spaventosa nella sua indifferenza (una rappresentazione che ricorda, per certi versi, quella vista in vari polizieschi tipo Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo).

    De Palma, regista ed autore del soggetto, crea di fatto l’equivalente di un thriller erotico all’italiana, un esperimento che riesce e lascia il segno ancora oggi. In “Vestito per uccidere” si respira un’atmosfera puramente ottantiana a cominciare dagli interpreti scelti: un dottore ambiguo, un poliziotto sbrigativo, una prostituta che si rivelerà la vera chiave di volta. In particolare è quest’ultima (interpretata da Nancy Allen, all’epoca moglie del regista) a caratterizzare “Vestito per uccidere” dal punto di vista narrativo e visuale: lontana duecento miglia dalla parte mascolina che l’ha resa più celebre (era l’agente Anne Lewis di Robocop), qui sprigiona la propria sensualità con classe e sicurezza. La “strana coppia” che il suo personaggio crea con il figlio adolescente di Kate Miller, nerd della prima ora deciso a scovare l’identità dell’assassino, rimane impressa nella memoria dello spettatore e colpisce per la sua carica di umanità.

    Come già nei film più espliciti di Argento, anche De Palma venne accusato di aver calcato troppo la mano (più che sulla violenza, ridotta all’essenziale) su sessismo ed erotismo: del resto il film si apre (e si chiude) in un’atmosfera onirica che, probabilmente, non è stata capita da molti. Una sorta di incubo erotico diventato di culto a cui Fulci ed Argento, a dirla tutta, erano già arrivati quasi dieci anni prima. “Vestito per uccidere” è uno dei migliori thriller del periodo a livello mainstream, e merita una visione ancora oggi.

     

  • The house: tre episodi a tema domestico (e domotico), su Netflix

    The house: tre episodi a tema domestico (e domotico), su Netflix

    Una famiglia povera quanto manipolabile. Un early adopter delle nuove tecnologie decisamente stressato. Una padrona di casa ossessionata da ristrutturazioni che non farà mai. Elemento narrativo comune, naturalmente: l’abitazione.

    In breve. Episodi animati con una singolare e vividissima tecnica di stop motion, mossa sui toni della dark comedy (ma anche del cinema sociale), con ispirati spunti satirici sulla società di oggi. Divertente e gradevole, con episodi ben bilanciati.

    Enda Walsh, irlandese classe 1967, scrittore e regista noto per Hunger e, verrebbe da dire, da oggi soprattutto per questo The house, da lui stesso interamente concepito. Un lavoro articolato come una serie antologica di animazione, caratterizzato da tre episodi ambientati in tre epoche diverse (un passato simil-ottocentesco, un presente tecnologizzato e – probabilmente – un futuro apocalittico di inondazioni). Un esempio di cartone animato in stop motion pensato per un pubblico adulto, e che – con le opportune accortezze e avvisaglie educative del caso – anche dei ragazzi potrebbero guardare senza troppi patemi. C’è tanto da scrivere su The house (cosa che faremo), ma volendo sintetizzare i tre episodi potremmo vederli come tre narrazioni parallele sul dramma della perfettibilità, l’ossessione che accomuna tanti di noi a crearsi vite, ambienti e relazioni “perfette”, impeccabili, prive di sbavature, lussuose, asettiche. Tendenza che viene seguita da molti a cominciare dalle proprie abitazioni, dove un granello di polvere non è mai il benvenuto, dove si entra solo con le ciabattine e dove il mood rupofobico è crescente, qualche che sia la ragione (e forse addirittura a prescindere dalla pandemia).

    Avviso – Per esigenze di trattazione, i seguenti capitoli potrebbero contenere spoiler, quindi suggerisco di leggere solo dopo aver visto il film .

    Primo episodio

    Argomenti trattati: conflitto generazionale, dramma familiare, vita confortevole vs spartana

    Ci troviamo nella casa di una famigliola di umile condizione, con due figlie piccole, afflitta da problemi economici e con un padre alcolizzato (oltre che dalle fattezze che richiamano, sia pur vagamente, E. A. Poe). Un giorno in cui l’uomo si è allontanato da casa per stare un po’ da solo, incrocia una misteriosa carrozza in cui un anziano signore, che si scoprirà essere un architetto, parla con lui senza che il pubblico senta ciò che si dicono. Si capirà poco dopo: l’architetto ha proposta al protagonista di cambiare casa, andando a stare in una tutta nuova e progettata sul momento all’unica condizione di firmare un contratto ed abbandonare per sempre la vecchia.

    Moglie e marito accettano, la casa viene fatta in tempo record e si tratta di una villa gigantesca che entusiasma i due adulti: le piccole non sembrano troppo d’accordo, e anzi nutrono una crescente curiosità-ostilità per la nuova casa e per le stranezze che la caratterizzano. Tanto per dirne una, sembra che l’architetto sia un po’ bislacco, e stia ancora facendo delle modifiche all’architettura, alterando addirittura la posizione delle scale e creando autentici paradossi spaziali nella casa, in cui le due bambine finiranno per perdersi. Come in Shining, la casa è popolata da presenza grottesche che occupano alcune stanze (e fissano in modo inquietante i nuovi inquilini). Non solo: come nell’opera king-kubrickiana la casa esercita un influsso straniante sugli adulti, che non solo diventano più severi e distaccati verso le figlie, ma si vestiranno da signori per adeguarsi all’eleganza della stessa, lavorando incessantemente ad accedere un camino difettoso e cucire a maglia una lunghissima coperta. La situazione culminerà in un fuoco purificatore da cui, ovviamente, solo alcuni avranno salva la vita, nella speranza di provare a ricostruire in futuro (forse) basandoci su valori meno speculativi. Un episodio dai toni gotici che ricorda, per certi versi, le prime opere animate di Tim Burton (chi ricorda Frankenweenie e Vincent, ad esempio?),  del cui sottogenere gotico rappresenta un buon excursus. Rimane qualche perplessità sul finale, significativo quanto non propriamente allegro e forse, per certi versi, troppo melodrammatico – soprattutto se si guarda The house come un cartone animato per bambini (cosa che non è): ma anche qui, come dire, basta saperlo dall’inizio.

    Secondo episodio

    Argomenti trattati: la casa come status symbol, nevrosi cittadine, devoluzione, entomofobia, rupofobia

    Il secondo episodio è l’autentico gioiello di The house: anzichè i pelosi e oscuri pupazzetti del primo, abbiamo, questa volta, dei topi antropomorfi come protagonisti. Uno in particolare, forse uno startupper oppure (stando a IMDB) un programmatore, sta cercando disperatamente un finanziamento per la propria società, passando le giornate al telefono a prendere contatti. Al tempo stesso vorrebbe vendere la propria casa, che cura compulsivamente in ogni dettaglio e si sforza di mantenere più che pulita, soprattutto disinfestandola dagli insetti che la assaltano (forse ciò avviene solo nella sua immaginazione, viene il dubbio).

    L’entomofobia non è nemmeno l’unica ossessione del protagonista, la cui antipatia verso blatte e simili va di pari passo, a ben vedere, con quella che proviamo da pubblico verso un topo umanoide pelosetto, vestito come un uomo e che cerca grottescamente di imitarne i tic, le manìe, le nevrosi. Il topolino, infatti, dorme in una cantina desolante e priva di mobilio, illuminata solo dalla luce del proprio smartphone ed il tutto, probabilmente, per non rovinare il lussuoso appartamento in vendita. La domotica scintillante che sfoggia, pertanto, non è per lui autentica fonte di comfort, ma solo un qualcosa da ostentare in presenza di ospiti.

    Lo snodo della storia avviene quando alcuni personaggi (due sorci goffi e ridicolmente vestiti da esseri umani) si mostrano interessati all’acquisto, e si installano letteralmente a casa sua prima ancora di averla comprato, creando una situazione ridicola e paradossale. Situazione che un po’ ricorda certi sketch da teatro dell’assurdo dei Monty Python, ma anche, verrebbe da scrivere, film come Madre! di Aronofsky, dove il tema della home invasion era stato ben sviscerato in modo non dissimile da questo, sia pure (in quel caso) con qualche velleità troppo densa, auto-riferita o etero-riferita che fosse.

    Il secondo episodio di The House è davvero straordinario, sia nella definizione spassosa della nevrosi del protagonista (che, ad esempio, sembra essere riuscito addirittura a sbagliare numero ogni volta che telefonava all’amata compagna) che nel finale, un vero e proprio twist che riporta la dimensione narrativa a quella di comunissimi topi o ratti, in grado di devastare l’appartamento e riducendo, suo malgrado, il protagonista ad un animaletto puramente istintuale, tutt’altro che evoluto. Un dramma grottesco che, in questo caso, non poteva che culminare nella devoluzione della razza-topo (e forse, per induzione, di quella umana).

    Terzo episodio

    Argomenti trattati: attaccamento domestico, resistenza e ostilità al cambiamento

    La scelta dei gatti come animali antropomorfi sembra dettata, in questo frangente, dal fatto che sono animali idrofobi (questo per motivi puramente evolutivi, per inciso). Ne vediamo una in particolare: una padrona di casa ossessionata dalle modifiche migliorative alla casa che affitta e che, nella sua idea, dovrebbero renderla degna di essere ricordata e di albergare le esperienze più indimenticabili. Cosa che difficilmente sembra poter avvenire: siamo in un probabile futuro prossimo in cui le inondazioni sono periodiche e frequenti, e la protagonista mostra paradossalmente più attaccamento alle mura domestiche che ai due inquilini, entrambi morosi da diversi mesi (un gatto in grado solo di disegnare, e una gatta hippie a cui presto si avvicenderà un compagno “guru”). In questo caso se il tema portante dell’episodio è chiaramente l’irrealizzabilità del “progetto” (ed il fatto che troppi non riescano a immaginare alcun “cambio di rotta” anche in situazioni estreme), il focus narrativo è molto abile a rendere inizialmente antipatici i due inquilini, che poi saranno quelli a conquistare le simpatie del pubblico, al contrario della padrona che sembra all’inizio l’unica ragionevole.

    Cosa ancora più interessante (e stando a IMDB), questa è solo la prima stagione, The House non finisce qui: si attendono notizie su ulteriori episodi che potrebbero, plausibilmente, vedere la luce a stretto giro.