Salvatore

  • La nona configurazione è l’horror grottesco di William Peter Blatty (1980)

    La nona configurazione è l’horror grottesco di William Peter Blatty (1980)

    Un castello sperduto viene utilizzato dai militari per internare reduci dalla guerra in Vietnam affetti da vari squilibri mentali.

    In breve. L’ospedale di Fell è popolato da figure grottesche e tragicomiche, incapaci di metabolizzare il dolore per la guerra. Un affresco molto potente, quanto criptico in alcuni passaggi, con cui Blatty affronta il tema del senso della vita e del sacrificio.

    La nona configurazione è stato scritto e diretto dall’autore del romanzo da cui è nato il film “L’esorcista“, William Peter Blatty, ed ha vinto un Golden Globe nel 1981 come Miglior sceneggiatura. Secondo lo stesso William Peter Blatty, La nona configurazione fa parte di una vera e propria trilogia, che include L’esorcista (incentrato sull’esistenza del bene e del male) e Legion (da cui fu tratto il film L’esorcista III), che invece si focalizza sull’espiazione dal peccato originale e la punizione del male.

    Non è difficile immaginare, in quest’ottica, che La nona configurazione sia anch’esso pervaso da un forte misticismo, nonostante le apparenze facciano sospettare un lavoro delirante e semplicemente claustrofobico sulla schizofrenia. Il ruolo della religione nella lettura di Blatty, del resto, compare a chiare lettere fin dalla sequenza con il crocefisso posto nello spazio (sulla superficie lunare), quest’ultima allucinazione o sogno del protagonista (il colonnello Kane).  Una delle tante sequenze enigmatiche, complesse per lo spettatore ancora oggi, di cui il film è letteralmente cosparso – tanto più che la comprensibilità dell’opera è più abbordabile soltanto se si guarda la versione uncut, dato che l’edizione doppiata in italiano aveva inspiegabilmente saltato – e mai ridoppiato – alcune sequenze (il soldato impazzito che declama l’Amleto ad un gregge di pecore, altri due pazienti che sospettano la follia di Kane). Al suo fianco troviamo la figura di Billy Cutshaw, ex astronauta ed internato dopo aver rinunciato in extremis ad una missione nello spazio: la sua motivazione, come si scoprirà, è dovuta al senso di vuoto che avrebbe provato nel rimanere così lontano da altri esseri umani (“Ci ho provato, signore. Vede le stelle? Così free, lontane, e così sole. Oh, così sole. Tutto quello spazio, vuoto. E così lontano da casa. Ho girovagato attorno casa, orbita dopo orbita. A volte finisco per chiedermi come sarebbe se girassi in quel modo per sempre. E se arrivassi sulla Luna senza poter più tornare? Chiaro, ognuno di noi muore, ma ho paura di farlo da solo, così lontano da casa. E se non esistesse un Dio, saremmo davvero molto soli.“). Un personaggio profondamente umano, pertanto nonostante le apparenze psicotiche iniziali, dal comportamento in linea con presunte velleità artistiche e simbolo, probabilmente assieme a Kane, dell’umanità e della sua doppia faccia (Kane si rivelerà anche un feroce soldato, Billy troverà conferme il proprio pessimismo antropologico fino al simbolico twist finale; al tempo stesso Kane verrà presentato letteralmente come un Cristo morto per i nostri peccati).

    Di fatto l’introspezione psicologica sui protagonisti, il cui limite tra lucidità e follia è sempre labile – praticamente in ogni caso – rende il film affascinante quanto affetto da una forma di manicheismo di fondo: lo intuiamo sia dalle parole di Billy appena citate, che quando sentiamo le considerazioni misticheggianti di Kane (“Affinché la vita apparisse spontaneamente sulla terra, prima dovevano esserci centinaia di milioni di molecole proteiche della nona configurazione. Ma date le dimensioni del pianeta Terra, sapete quanto tempo ci sarebbe voluto perché solo una di queste molecole proteiche apparisse totalmente per caso? Circa dai 10 ai 240 miliardi di miliardi di anni. E lo trovo molto, molto più fantastico del semplice credere in Dio.“).

    Non dovrebbe essere una novità, quest’ultima, dato che le posizioni di Blatty in tema di fede sono esplicite fin dai tempi de L’esorcista (un buon horror di culto, senza dubbio, per quanto anch’esso vittima di manicheismo e di un messaggio propagandistico in favore della fede a prescindere, per certi versi non troppo progressista). Non è mai chiarito cosa possa essere, in effetti, la nona configurazione, per cui ogni spiegazione rischia di apparire parziale e viene lasciata all’immaginazione dello spettatore. Appare comunque sbagliato avere un atteggiamento eccessivamente riduzionista o anti-idealistico nei confronti di questo film, che rimane interpretato splendidamente e molto solido narrativamente – per quanto lo script rischi di sembrare un po’ didascalico in certi passaggi (il tema del soldato stravolto dal trauma, del resto, è stato affrontato in modo più incisivo in film come La morte dietro la porta).

    L’atteggiamento nei confronti del sovrannaturale, per molti versi, è anche analogo a quello espresso da John Carpenter ne Il signore del male, con la differenza fondamentale che quel film usa la fisica quantistica come strumento di propagazione dello stesso e, soprattutto, svela l’arcano in chiave antropologicamente pessimista quanto materialista (è l’Uomo, in quel film, ad essere l’unica causa del male). Nel film di Blatty l’occhio della camera si pone invece in maniera onirica e distaccata rispetto a tutti i protagonisti, e si limita ad accumularne il dolore universale per proporre una riflessione puramente teologica.

    Dall’aria impettita e dallo sguardo fisso – da freddo osservatore, Kane rivelerà una personalità doppia, tanto che (da semplice psichiatra quale dovrebbe essere) si troverà sempre più coinvolto in una para-seduta che, paradossalmente, riguarderà se stesso, sempre più da vicino. L’interpretazione di Stacy Keach è stata in questa sede magistrale, e deriva dall’impostazione da teatro dell’assurdo dell’intero film, alquanto criptico in alcuni passaggi e giocato su toni grotteschi giustificabili, almeno in parte, dal clima di follia che finisce per permeare l’opera. Del resto alcuni riferimenti all’opera di Shakespeare (Amleto) sono ripetuti in più occasioni, almeno fino al primo twist nella trama che rivela la reale natura del protagonista e l’orribile antefatto che l’ha portato lì (la decapitazione accidentale di un ragazzino vietnamita, fatto occultato dai militari in seguito). Il suo personaggio, pertanto, cerca la redenzione provando a curare dei pazienti affetti da un male molto simile – il trauma di una guerra – figurando, probabilmente solo nella sua mente, di avere gli strumenti per poterlo fare.

    La nona configurazione venne curiosamente finanziato grazie alla Pepsico, nota per la nota bevanda analcolica (la Pepsi, eterna rivale della Coca-Cola); ci fu anche una diatriba piuttosto accesa su dove girare il film, che i finanziatori pretendevano di realizzare a Budapest, senza avere l’assenso del regista / autore della sceneggiatura. Il compromesso trovato fu memorabile, e solo parzialmente visibile: si limitò semplicemente a riprendere (per alcuni brevi istanti) un distributore di bevande con il marchio Pepsi sopra.

  • Winnie the Pooh, Sangue e Miele: un horror stranamente sensato

    Winnie the Pooh, Sangue e Miele: un horror stranamente sensato

    Detta senza mezze misure, Winnie the Pooh: Sangue e Miele è una cafonata cosmica. Meglio: non poteva essere diversamente. Sulle prime sembra volersi palesemente divertire (in chiave splatter) su uno dei miti dell’infanzia di chiunque, fregiandosi di cinismo e riprese calcolate come nella migliore tradizione slasher horror. Poi ti viene il sospetto che ci sia dell’altro, qualcosa da dire, qualcosa da raccontare in modo originale. Forse c’è, forse no. Vederlo per intero è l’unico modo per capirlo. Perchè se l’impianto del film è pensato per risultare allegramente sgradevole, è soprattutto quel finale ad essere nerissimo, cupo, senza speranza e (cosa non da poco) senza alcun rispetto della struttura narrativa precedentemente imposta. Contenti voi, contenti tutti, e questa è.

    C’è sicuramente l’auto-indulgenza tipica di certo horror, c’è pure l’orgoglio di aver prodotto un film del genere senza alcun tipo di condizionamento artistico, sia pur a costo di averlo forse troppo frammentato in micro-episodi che sanno molto di accozzaglia di centinaia di trailer diversi. D’altro canto Winnie the Pooh: Sangue e Miele rimane una cafonata consapevole, dato che sfrutta coerentemente gli stilemi del genere – gliene va dato atto, sono gli stessi stilemi modello La casa: perchè mai continuino a funzionare, tutto sommato, film in cui dei giovani fanno cose irragionevoli (per non dire peggio), rimane un mistero. Un mistero del tipo: perchè andare da soli in un bosco oppure, come avviene all’inizio di questo lavoro, perchè la moglie di Cristopher Robin accetta bonariamente di recarsi nel bosco a vedere gli animaletti dell’infanzia? Qualcuno, al suo posto, avrebbe chiesto il divorzio.

    Eppure, strano a dirsi, al netto di certe ventate di realismo (che non fanno bene all’horror in generale), e per quanto sia alienante esserne consapevoli, fin dall’inizio della pomposa campagna di marketing di questo horror di Rhys Frake-Waterfield possiamo dire che il film sostanzialmente funziona, fa il proprio dovere, risponde alle aspettative di chi va a vederlo (bontà sua). Ovvio, poi non funziona più di una qualsiasi opera di Rob Zombi nè più di un qualsiasi Non aprite quella porta: ma funziona.

    Funzionicchia, se proprio volessimo essere critici: è girato discretamente, ma è completamente senza intreccio, senza filo logico, più interessato a shockare che ad altro, senza contare i non sequitur a granularità minima e vari momenti in cui (come in parte della filmografia di Zombi, significativamente) non si capisce bene cosa stia succedendo. I dialoghi del film, per larga parte, sembrano estratti dai fake trailer di Rodriguez-Tarantino, privati di quell’aura ironica che li rendeva quantomeno divertenti. Qui si ride pure, anche solo di riflesso e per nervosismo, e ci si sente quasi in imbarazzo nel farlo.

    “Non sembra umano, Logan. Non sembra nemmeno un orso!

    Mmm, non mi piace questo tipo.

    È il tuo giorno sfortunato, amico. (colpisce Winnie The Pooh, che resta in piedi) Sei un duro, devo ammetterlo!”

    Per gran parte della storia le suggestione che arrivano sullo schermo sono zeppe di sangue e violenza esplicita, a ben vedere non diverse da quelle di un qualsiasi Venerdì 13 o analoghi, gli stessi film con alternanza di senso di colpa / vendetta di cui abbiamo perso il conto in questi anni. Da sempre sospesi nel desiderio di capire, mentre ne scrivevamo, se davvero valesse la pena parlarne o meno. E mi viene in mente quello che ho sentito dire a Dario Argento dentro a un cinema di Roma, qualche giorno fa: che (parafrasando) i mostri non sono mai solo mostri, ma sono espressioni delle profondità d’animo.

    https://twitter.com/sarbathory/status/1719423421149311361

    Perchè dietro un horror non c’è mai solo l’orrore, effettivamente, e lo sappiamo (dovremmo saperlo). È una tentazione concettuale in cui molti sono caduti, in passato, a cominciare dal celebre studio di genere di Carol J. Clover (Men, women and chainsaws), che rispondeva alle accuse di non sense e misoginia mosse a gran parte degli slasher anni 70. Altri tempi, decisamente. Perchè all’epoca quell’orrore si rivolgeva a persone ordinarie che il più delle volte non capivano neanche troppo di rivoluzione culturale, Sessantotto e via dicendo, oggi si rivolge ad una platea che crea meme direttamente in sala e che è abituata a sputare sentenze sui social. Qui non si potrà proporre una raffinata analisi sociologica (anche se Winnie The Pooh in chiave horror è il mito dell’infanzia perduta che si rivolta contro di noi e la nostra presunta adultità). No, non varrà la pena farlo perchè già ne abbiamo letto abbastanza, o perchè no, davvero, l’horror su Winnie The Pooh non l’avrebbe girato manco Peter Jackson o Sam Raimi da giovanissimi per scommessa. Il che magari è un merito, e non ce ne siamo ancora accorti.

    Resta il fatto che un film traumatizzante del genere non può che essere figlio dei tempi dissacranti, privi di eroi, conformisti, cinici e violenti in cui ci troviamo a vivere nostro malgrado. Non è uscito negli anni Ottanta dei satanic panic, non è uscito nei Settanta delle sette ambigue e manipolatrici, nè nei Novanta dell’uso disinvolto di droghe: è uscito oggi, in tempi feroci e a loro modo traumatici, in cui poco o nulla importa del piano simbolico e tutto si sposta sul piano visivo, emozionale, shockante, jump scare. Tempi in cui la paura non è più metafora o metonimia, ma vira sul gusto di shockare fine a se stesso, e tanto basta. Come un bambino viziato e troppo cresciuto, di quelli che si divertono a distruggere i propri giocattoli, rinnegando il passato e cancellando il futuro. Figlio dei tempi, per l’appunto.

    Di OswaldLR - DVD, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=6296170
    Di OswaldLR – DVD, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=6296170

    Con un qualcosa in più, o in meno (dipende dai punti di vista), o con il vincolo di dover per forza di cose accettare quel punto di vista dissacrante, grottesco (e spesso sostanzialmente gratuito) con cui Winnie The Pooh, da orsetto innocuo e spensierato possa diventare un serial killer feroce, addirittura creativo nelle soluzioni che riesce a trovare per uccidere, a cominciare da quella con cui miete una delle prime vittime (usando un gigantesco tritacarne).

    Il film, peraltro, è zeppo di citazioni più o meno esplicite al mondo dell’horror classico, a cominciare dalle soluzioni omicide originali tipo Freddy Krueger a finire agli assassini simbolici, cruenti e creativi di Venerdì 13, Halloween e così via. Ma anche qui: non sembra esserci abbastanza sostanza per poter proporre un qualche paragone degno, che non vada per la consueta celebrazione auto-indulgente dei classici da parte di cineasti incalliti, che forse oggi è un po’ superata dai tempi.

    Che cosa mi vuoi fare? Perchè stai facendo tutto questo? Lasciala andare: hai ucciso troppe persone, Pooh. C’è ancora del buono in te.

    Winnie the Pooh horror, signore e signori. Winnie, con quel tuo ghigno assente, a metà tra l’espressione inquietante di Michael Myers (stalker mostruoso che puniva il desiderio sessuale e i suoi annessi) e quella ontologicamente incazzata di Jason Voorhees (figlio abbandonato da una madre poco presente e oppressiva), si esplica col suo evidente richiamo simbolico al mondo dell’infanzia violata, al fatto che viviamo in uno dei periodi più polarizzati e orrorifici di sempre, al fatto che se davvero non ci è rimasto nemmeno Winnie The Pooh a tranquillizzarci e non mandarci in overthinking, è davvero il caso (forse) di cambiare registro. E mentre ce ne capacitiamo l’ennesimo villain è sempre lì, pronto a punire una nuova giovinezza inconsapevole, vanitosa e traumatizzata, sia pure a costo di farci più ridere che spaventare. Ma anche qui: il riso indotto da certe scene cruente (o improbabili) di Winnie the Pooh: Sangue e Miele è il riflesso di un tabù che non sappiamo accettare, che forse mai accetteremo, e che (se fosse il caso di specificarlo) difficilmente piacerà ai fan “nudi e puri” del cartone originale.

    “È stato Pimpi, quel sadico, si è divertito a torturarmi. Non c’è un motivo. E io non me ne andrò di qui finchè lui non sarà morto. Vieni qui Pimpi, porco schifoso!”

    Per quanto la critica abbia tendenzialmente massacrato questo titolo, è impossibile non riconoscerne qualche merito, in fondo. Non è un horror autoriale, ovviamente, e ci mancherebbe pure. Non c’è l’approfondimento psicologico degno di nota, o forse ce n’è solo un accenno vago: una delle universitarie protagoniste è reduce da un percorso di terapia dopo essere stata assaltata da uno stalker. Questo in fondo è  solo un horror slasher come miriadi ne sono usciti in passato, con l’idea originale di dissacrare un innocente cartone per bambini ed urlare al pubblico di averlo fatto.

    Credits: imdb.com

    Qualsiasi cosa ciò possa significare, in effetti, e con le stesse riserve che abbiamo espresso nel giudicare altri horror analoghi (ce ne sono pure troppi, su questa falsariga) a volte pure di buon livello, ma anche eccessivamente autoindulgenti e compiaciuti di ciò che mostravano. Eppure qui – al netto di tamarrate assortite, soprattutto perchè decontestualizzate – la sostanza si affaccia, a volte, sia pur in modo destrutturato e quasi privo di trama, con ragazzi dai mille problemi e con grottesche (e consuete per il genere) tendenze suicide, mentre Pimpi e Winnie si aggirano nel film ad uccidere gente un po’ a casaccio.

    Credits: imdb.com

    La parte migliore del film, del resta, rimane quella realizzata tipo cartone animato dei minuti iniziali, dotata di una sua solenne dignità e maestria: Cristopher Robin ha smesso di giocare con Winnie e gli altri, è cresciuto, è andato al college, ha scoperto la sessualità, adesso ha una moglie, una vita adulta, un lavoro, e non può più pensare agli animaletti della sua infanzia con cui tante esperienze aveva condiviso. Se facciamo morire la dimensione immaginaria del gioco, in altri termini, siamo destinati a pagarne le conseguenze, mediante la simbolica rivolta dei giocattori dell’infanzia che, a ben vedere, conosciamo almeno dai tempi dell’iconico La bambola assassina. Gli animaletti diventano animalazzi (cit. Simpson) sempre più feroci, regrediti allo stato brado e dediti al cannibalismo per vendetta. Soprattutto, odiano Cristopher Robin, il quale li ha, dal loro punto di vista, abbandonati nel bosco, dove hanno assistito loro malgrado alla morte di uno di loro e dovuto cavarsela da soli.

    Estremo paradosso, Winnie the Pooh: Sangue e Miele non è affatto il vero Winnie the Pooh, se non attraverso richiami ai personaggi (Tigro è stato escluso per motivi di copyright, a quanto pare), e non può fare a meno di Winnie the Pooh originale, perchè in fondo se non ci fossero lui e il buon Pimpi, questo sarebbe l’ennesimo slasher anonimo di cui tra un mese non ricorderemmo neanche il titolo. E allora, forse, vale la pena dare una possibilità al film, sia pure con riserva e con l’idea di essersi tolti la strana curiosità di vederlo.

    Ammesso che, ovviamente, vi aggradi realmente l’idea di assistere a questa insana trasformazione, cosa tutt’altro che ovvia.

  • Il rosso segno della follia: Mario Bava sovverte i canoni del genere

    Il rosso segno della follia: Mario Bava sovverte i canoni del genere

    Il responsabile di un atelier di moda, apparentemente elegante e rispettabile (John Harrington), è in realtà un folle serial killer che uccide a colpi di mannaia le proprie vittime…

    In due parole. Un giallo all’italiana condito di elementi gotico-sovrannaturali, che riesce a colpire lo spettatore pur sovvertendo uno dei cardini del genere (l’assassino viene rivelato dopo neanche due minuti). Una buona dose di humor nero ed il tocco di classe del grande regista completano il quadro.

    Qualcuno sta camminando in punta di piedi nel mio cervello...”

    Un’accetta per la luna di miele” – circolato anche con il titolo italiano “Il rosso segno della follia” rappresenta una sorta di studio d’atmosfera sul giallo nostrano, che nel periodo sarà estremamente prolifico ed efficace. Tuttavia qui, a differenza dei grandi cult in cui l’assassino viene rivelato solo alla fine – quando non negli ultimi fotogrammi – Bava si prende il lusso (a ragion veduta) di divagare sul tema, mostrando la vicenda dal punto di vista del responsabile dei delitti, soggettivizzando a tal punto l’intreccio che, ad esempio, il meccanismo per provare ad incastrarlo è ignoto fino alla fine a lui come a noi. Numerose – e di rilievo – quindi le differenze rispetto ai classici del genere, ed è questo che – a conti fatti – rende di grande interesse la pellicola ancora oggi: John Harrington è dichiaratamente un maniaco, un po’ come un Henry ante-litteram, solo un po’ più avvolto in una poetica prettamente gotica, oltre che da ossessioni infantili (il carillon) che sono alla base dei suoi comportamenti.

    Dopo aver visto il film sarà impossibile, del resto, non riportare alla mente quel Profondo rosso che tanto deve, come tutto il cinema di Argento alla fine, proprio al maestro Mario Bava; e questo naturalmente fa parte del gioco di ispirazioni, citazioni e ricordi visivi che hanno fatto il cinema di genere tutto, il quale da sempre vive di rielaborazioni continue (peraltro non sempre apertamente tributate). “Il rosso segno della follia“, senza eccedere in gore e sangue, anzi calibrando con efficacia il ritmo di una storia costruita su personaggi ben studiati e magnetici (ad esempio Dagmar Lassander, affascinante quanto sicura di sè), rappresenta forse uno dei migliori – e meno noti – film di Mario Bava.

  • Il demonio: il film anni 60 di Brunello Rondi sulla possessione

    Il demonio: il film anni 60 di Brunello Rondi sulla possessione

    Lucania: Purificazione (nomen omen) è posseduta da un amore non corrisposto per un compaesano, già promesso da tempo ad un’altra donna. I suoi comportamenti troppo passionali la porteranno ad essere vista con diffidenza, fino a subire veri e propri abusi…

    In breve. Un piccolo gioiello del cinema “demoniaco”, ricco di sfumature e dettagli antropologici, arrivato sugli schermi molto prima che il genere prendesse una piega monotematica (e spesso, purtroppo, alla pura ricerca di effettacci). Un film girato con piglio documentaristico, privo di eccessi ed apprezzabilissimo ancora oggi.

    Il demonio è un film del 1963 atipico, oltre che in anticipo sui tempi: è uno dei primissimi esempi di cinema con riferimenti demoniaci espliciti, genere che prese definitivamente piede solo con “L’esorcista” e “The omen“. Vale la pena di ricordare, fin da subito, la notizia di cronaca a cui Friedkin sembra essersi ispirato: un quattordicenne che, si racconta, venne liberato dal demonio mediante un esorcismo (“a 14-year-old Mount Rainier boy has been freed by a Catholic priest of possession by the devil, Catholic sources reported yesterday” raccontava il Washington Post nel 1949).

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    In questo lavoro di Rondi, ambientato nella Lucania più oscura e bigotta che si possa immaginare, emerge la bellezza sfregiata di Purificazione (Purì o Purif, in molte parti del film) contrapposta ai paesani rozzi, quale singolare simbolo dell’emarginazione del diverso. Una donna sola con la colpa di essere innamorata di un uomo già promesso, e di essere processata per questo dalla folla inferocita che mai, del resto, è entrata in empatia con lei.

    A differenza di altri film incentrati sul sovrannaturale, sulla propaganda religiosa o sullo splatter in quanto tale, emerge piuttosto la medesima, potente, critica sociale che potremmo esprimere oggi leggendo l’articolo, un po’ ingenuo, appena citato. Articolo che spiega, tra l’altro, la mia generale diffidenza nei confronti di questo sottogenere di horror, che cade (spesso, non sempre per fortuna) nell’errore di sembrare veicolato a messaggi catechizzanti – per non dire peggio. Errore che, a mio avviso, “Il demonio” non commette affatto, visto che il regista è particolarmente attento a ciò che mostra.

    Se questi presupposti ne fanno un film più “politico” (e più significativo) di altri banali e ripetitivi epigoni del genere, numerosi sono i riferimenti etnologici che lo rendono significativo. La cerimonia per scacciare la pioggia, ad esempio, oppure la celebrazione di un antico matrimonio o, più in generale, un curioso mix di religione e superstizione che il registra mostra nel dettaglio. Il lavoro si basa, del resto, sulle ricerche del professor De Martino dell’Università di Cagliari, e questo elemento di approfondimento vive in misura maggiore di qualsiasi altro horror, tanto da far pensare ad un vero e proprio documentario. Del resto ridurre Il demonio ad un mero lavoro di genere sarebbe pesantemente riduttivo, anche perchè manca la spettacolarizzazione dell’orrore tipica di questi casi.

    L’unica sequenza potentemente demoniaca, del resto, è avanti di oltre dieci anni rispetto a ciò che vedremo in seguito: il tentativo di esorcismo in cui la protagonista cammina con la spider walk resa celebre da Friedkin (ma questo film esce molto prima de “L’esorcista”; parte della scena è questa), senza contare che successivamente inizia a parlare col prete in una lingua ignota. Paradossalmente, se vogliamo, il focus dell’azione è più concentrato sulla rappresentazione del contesto, sulle tradizioni vive, sui popolani dalla gogna facile o sulla famiglia ambigua della protagonista che, di fatto, sull’elemento demoniaco in sè. Il riferimento all’esorcismo (racchiuso in poche, essenziali ed efficacissime sequenze) non serve solo a far spaventare (cosa che, a mio avviso, il citatissimo lavoro di Friedkin prova a fare fino alla nausea): le pratiche anti-demoniache sono rappresentate quasi razionalmente, quale segno di una frustrazione latente e come forma di abusi fisici e mentali, per non parlare del fatto che la protagonista è una donna avvenente (i paesani che la demonizzano sono gli stessi che vorrebbero, spesso, abusare di lei). In uno scenario del genere, pertanto, chiedersi se Purificazione sia realmente posseduta, affetta da una malattia o solo esasperata diventa una questione quasi di poco conto.

    Il saper miscelare più generi di Brunello Rondi (dramma, gotico, documentario) è forse il più consistente punto di forza del film. Possiamo solo immaginare l’ennesima violenza, l’ennesimo misfatto confessato, l’ennesimo stupro commesso ai danni di una protagonista vittima di se stessa, della propria passione e, magari, di qualche disturbo mentale. Di contro, una comunità ottusa che vive di superstizione e culti di facciata, che non capisce e non può, per definizione, capire. La sequenza della confessione in pubblico dell’intero paese, in cui vengono riconosciuti sia un furto che un caso di incesto, è la stessa in cui l’esasperazione di Purì arriva al culmine della teatralità, richiamando a più riprese le migliori sequenze di “Non si sevizia un paperino” (Fulci deve probabilmente più di qualcosa a questo film).

    Al tempo stesso la sua avvenenza (per la cronaca, la Lavi girò anche La frusta e il corpo) la fa diventare un facile capro espiatorio delle frustrazioni e delle ipocrisie di una società arcaica e brutale. Quella che doveva essere solo frustrazione per un amore non corrisposto si trasforma in un’attitudine antisociale, che alimenta le ostilità degli abitanti e si tinge, peraltro, di qualche cenno allucinatorio (Purì che crede di parlare con il ragazzino che morirà qualche momento dopo).

    A poco varranno i tentativi di redenzione esplicati dalla protagonista, che anzi precipiterà in un vero e proprio incubo dalle dimensioni crescenti, che culmina in un finale tragico (e anche piuttosto amaro). Una modalità narrativa non nuova, quella della donna sola e perseguitata in un ambiente gretto e (almeno in parte) maschilista, anch’essa splendidamente espressa da Lucio Fulci qualche anno dopo (“è lei a maciara, ha fatto ‘o malocchio su ‘e ccase nostre“, dice qui uno dei personaggi) e, in tempi più recenti, ad esempio da Dogville di Lars Von Trier (anche lì i paesani mal sopportano la presenza della protagonista, e ne abusano a più riprese).

    Un grande film da rivedere e riscoprire senza esitazione, adatto anche a chi non amasse prettamente l’horror e le sue tematiche.

  • Signore, signori, buonanotte è il film grottesco di Comencini, Loy, Magni, Monicelli e Scola

    Signore, signori, buonanotte è il film grottesco di Comencini, Loy, Magni, Monicelli e Scola

    In breve. Film a regia collettiva uscito nel bel mezzo degli anni ’70 italiani, in grado di rappresentare una delle più feroci ed efficaci satire cinematografiche contro il Potere, la politica corrotta (prima che diventasse una moda populista), la TV ed i media in generale. Grande e poco noto film che meriterebbe una rivaluazione immediata, anche in vista della sua incredibile modernità e per le trovate degne dei Monty Python.

    Signore e signori, buonanotte porta in sè la rassegnazione e la rabbia di un’intero movimento culturale, quello dei film di genere e d’autore italiano, rappresentato in questa sede da un vero e proprio collettivo registico (il film è presentato a nome de La cooperativa 15 maggio) in grado di confezionare un film avulso da qualsiasi logica commerciale, orgogliosamente anarchico e puramente satirico nei suoi intenti. E quanto esce fuori dal film racconta uno spaccato dell’epoca molto preciso, in cui traspare una certa connotazione ideologica di sinistra ma, al di là di questo, viene raccontato un insieme di storie notevolissime, incisive ed originali. La satira, si sa, e come sostenuto da Daniele Luttazzi, è innanzitutto un giudizio su chi la fa: questo vale sempre, e deve tenerci in guardia e farcela distinguere dallo sfottò, dalla comicità facile e da qualsiasi banale o feroce presa in giro. Ad oggi, soprattutto sul web, la satira è spesso il paravento di una comicità aggressiva e spesso deprimente, che si bulla del proprio ritenersi satira (a torto, peraltro).

    Quella di Comencini, Loy, Magni, Monicelli e Scola è satira nel senso più letterario del termine, e contiene trovate spassose e surreali, quasi insolite per il cinema nostrano: la foto di pericolosi manifestanti di sinistra mostrata nel 3TG che sono soltanto ragazzini delle elementari con cartelli “abaso i dopi turni“, il rapimento di un famoso dirigente italiano svelato come una messainscena, l’intervista ad un politico che ammette di rispettare la legge (del più forte). Il resto è un susseguirsi di episodi altalenanti e legati all’attualità dell’epoca, come l’insegnante di inglese che si spoglia in diretta ed introduce le azioni di un’agente della CIA, il poveretto aggredito dai fascisti a cui chiedono se sia per caso venuto a costituirsi, alcuni poliziotti che credono di scoprire una bomba ed arrivano a farsi un auto-attentato pur di dimostrare che è vero, per poi passare agli episodi forse migliori del film: Da malata a convalescente (quattro politici napoletani che si chiamano allo stesso modo, parlano per frasi fatte e finisco per mangiare un enorme torrone che rappresenta la città), L’ispettore Tuttumpezzo (parodia del poliziotto irreprensibile che finisce per fare il cameriere nell’alta società) e soprattutto Il Disgraziometro (un grottesco telequiz con Villaggio conduttore, su cui non potrà non venire in mente lo sketch Blackmail dei Monty Python).

    L’unico vero difetto del film, in effetti, sono alcune lungaggini forse evitabili all’interno della pellicole, che tendono a conferire meno ritmo di quanto richiederebbe il contesto. Per sua natura, ad ogni modo, certi episodi – soprattutto Santo Soglio – si capiscono e si gustano appieno solo conoscendo la realtà delle cronache d’epoca, ricche di insinuazioni verso autorità corrotte, macchinazioni governative e sfruttamento incondizionato dei più deboli. Cast decisamente di livello per questo lavoro, soprattutto molto eterogeno (da Adolfo Celi a Ugo Tognazzi, da Nino Manfredi a Vittorio Gassman passando per Paolo Villaggio e Marcello Mastroianni), tutti caratteristi molto dotati ed in grado di conferire registri differenti alla recitazione, passando con facilità dal grottesco al drammatico o al parodico-satirico: questo vale soprattutto per Villaggio, legato all’immaginario fantozziano ma che qui si supera tra il succitato conduttore del disgraziometro (con riferimenti parodistici a Mike Bongiorno) e nella bella interpretazione del prof. Ludwig Joseph Smith, l’accademico che propone in diretta TV di mangiare bambini per vincere la fame nel mondo, sulla scia della nota satira di Jonathan Swift, Una modesta proposta.

    Questo film resta comunque, tra episodi molto efficaci ed altri meno, un saggio sul grottesco come pochi ne sono usciti nel nostro paese, e che si potrebbe in parte paragonare ai celebri episodi de I (nuovi) mostri di Risi: la differenza, qui, sta nella forma più diluita dell’intreccio, presentato come micro-episodi collegati da un grottesco telegiornalista. Ed è qui che si notano riferimenti, ammiccamenti e feroci critiche al peggio della società italiana, con il piglio quasi non sense dei Monty Python (per certi versi) e con la precisione millimetrica dei singoli attacchi, condotta sempre contro bersagli meritevoli – ma questo, naturalmente, rischia di essere quasi sempre soggettivo.