Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • INLAND EMPIRE: il David Lynch più criptico di sempre

    INLAND EMPIRE: il David Lynch più criptico di sempre

    Trovare una spiegazione per INLAND EMPIRE sarebbe come voler fare un buco nel muro con un cucchiaino: difficile, non impossibile e da pianificare solo in caso di reale necessità. Del resto già il titolo – reso un po’ malamente come “L’impero della mente” piuttosto che un più letterale “Impero Interiore“, risulta piuttosto ostico e “spaventoso” per il pubblico mainstream, per il quale tutto deve essere razionale, lineare, comprensibile, happy-end incluso. Guai ad azzardare di inscenare, per esempio, uno pseudo-serial televisivo fatto da attori con la testa di coniglio.

    In breve: un Lynch estremamente criptico per uno dei film più complessi e lunghi mai girati dal regista. La sostanza non manca, la forma eccelle come sempre ma l’impressione è che ci sia troppa “carne al fuoco”.

    Del resto Lynch, da tempi non sospetti, fa il meno possibile per rivolgersi al pubblico ordinario di maggioranza: quello tutto popcorn, risate grasse, mostri finti ed eroi rassicuranti. Ancora una volta non fa che “divertirsi” a disorientare il proprio pubblico, proponendo due (tre?) storie diverse innestate nei modi meno prevedibili, e provocando un curioso feedback: molto spesso, infatti, le sue opere precedentemente “maledette” vengono regolarmente rimpiante a discapito di quelle attuali. E’ quello che accade quando molti recensori rivalutavano Mulholland Drive oppure il capolavoro “Strade perdute”, mandando le peggiori maledizioni contro INLAND EMPIRE, accusandolo di essere troppo distante dal pubblico, troppo soggetto a molteplici interpretazioni ed eccessivamente vaporoso nella sua struttura. Del resto da sempre proporre un’opera “difficile da capire” autorizza la critica, mediante un meccanismo che non ho ancora troppo chiaro, a far partire un tiro al bersaglio moralistico alla ricerca di difetti, trascurando malignamente qualsiasi valutazione di contenuti e di forma (vedi le reazioni negative all’uscita di Inferno di Dario Argento, ad esempio).

    “…come nel buio di un teatro, prima che la scena si illumini”

    Se la trama di INLAND EMPIRE è nella sua componente realistica piuttosto semplice: Nikki Grace, un’attrice sposata con un uomo piuttosto influente e pericoloso, riesce ad ottenere un ruolo (quello di Sue) in un film importante. Si tratta di un soggetto ripreso da un lungometraggio abbandonato a causa dell’omicidio dei due vecchi protagonisti, dal titolo “47” . Dopo qualche tempo finisce a letto con il coprotagonista Deron Berk (che interpreta Billy, ed è suo amante sia nel film girato che nella storia raccontata, a quanto pare), scatenando così una serie di allucinazioni spaventose. Nel frattempo le riprese del film proseguono senza sosta, mescolando spesso e volentieri quello che accade nella fiction con quello che avviene realmente tra Deron e Nikki. Sono le “conseguenze delle proprie azioni“, in concreto, ad essere il traino di tutto l’ intreccio di INLAND EMPIRE. La protagonista subisce infatti queste sconnesse visioni, in cui è impossibile capire cosa sia reale e cosa immaginato: incubi che sono dovuti al senso di colpa per quello che ha fatto (ammesso che l’abbia fatto davvero, o soltanto pensato), e alla reazione a catena che quel gesto  ha causato (i rapporti difficili col marito Piotrek, forse anche la perdita di un figlio). Ciò nasconde la doppiezza (o la molteplicità) contraddittoria del carattere della mite Nikkie, che mostra progressivamente una natura ambigua e addirittura violenta. Lynch riesce a boicottare l’essenza hollywoodiana rigirando la frittata non sul fornello di una cucina, ma direttamente nella centrifuga di una lavatrice, inserendo una marea di riferimenti simbolici che lo rendono forse facilmente accusabile di fare cinema “per adepti”.

    Tre sono gli elementi essenziali di INLAND EMPIRE: il grammofono che suona “Axxon N“, la “lost girl” (una prostituta) che piange guardando la TV e la famiglia di conigli antropomorfi, in cui il capofamiglia racconta di avere un “terribile segreto” da nascondere. Altro elemento essenziale è il valore profetico di alcuni personaggi, tra cui l’inquietante vicina che dice di sapere che l’attrice avrà una parte, e che la trama del film avrà a che fare con una relazione amorosa e con un omicidio. Laura Dern ha testimoniato in un’intervista che non conosceva i dettagli della storia durante le riprese, tant’è che Lynch ha cambiato le carte in tavola senza preavviso più volte, mettendo in scena i consueti doppi – nello specifico, due attori che recitano due parti – e mostrando un’immedesimazione profonda, che non fa capire se i due stiano recitando o vivendo sul serio le situazioni. INLAND EMPIRE inscena sottili analisi psicologiche, forse un po’ troppo cariche di richiami ad “altro” : “We are like the spider. We weave our life and then move along in it. We are like the dreamer who dreams and then lives in the dream. This is true for the entire universe“, è stato riferito come “indizio” da Lynch più volte, ed è tratto dal testo religioso-filosofico Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad. I richiami non sono mai, comunque, vuotamente auto-referenziali: alcuni magistrali primi piani, che fanno paura solo a guardarli, servono a dipingere magistralmente la confusione dei personaggi ma si presentano troppo spesso come semplici suggestioni. Non mancano, poi, momenti satirici contro la TV plastificata attuale: penso al serial coi conigli ed alle risate nei momenti più inopportuni, oppure all’intervistatrice che fa battute dal sapore trash ammiccando ad una relazione clandestina tra i due attori prima che la stessa avvenga. Se a questo aggiungiamo una punta di acredine nei confronti di Hollywood  – basta ascoltare i primi mielosi dialoghi di “On High in Blue Tomorrows” per intuirlo – ci rendiamo conto che INLAND EMPIRE è un film “di nicchia”, fuori da qualsiasi standard anche del cosiddetto “buonsenso” (tre ore di film). E che tutto sommato, forse, il film che stavano girando non era poi così male, visti gli sviluppi successivi…

    “È tutto ok, stai solo morendo”

    L’impero interiore è, probabilmente, quello che tormenta un po’ tutti i protagonisti, vessati chi da difficoltà sentimentali (i due attori che vivono un’attrazione reciproca che nascondono malamente, e che esaltano attraverso la propria arte), chi da altre di natura economica (la prostituta con la faccia “censurata” all’inizio, oppure l’assistente alla regia Henry che ripete una frase dal sapore beckettiano: “sembra solo ieri … che riuscivo a badare a me stesso“). I conigli, poi, sembrano rappresentare in modo grottesco la famiglia di Devon (o Billy?), cosa visibile nel momento in cui Nikki (o Susan?) prova a telefonare a casa loro, con tanto di risate registrate anche lì. Un regno fantasioso e contorto in cui tutto diventa possibile, e che mescola vari livelli di realtà ed immaginazione. INLAND EMPIRE non è un capolavoro, e mi guardo bene dal dirlo: Lynch in questa circostanza ha giocato troppo sul disorientamento, su continui flashback (o flash-forward?) che appaiono pero’ disposti quasi a casaccio, e diventa difficile superare i tre quarti dell’opera senza volersi prendere quantomeno una pausa. Se da un lato è chiaro (?) che si vuole rappresentare il turbine di emozioni in conflitto della protagonista (una favolosa Laura Dern assieme ad un Justin Theroux ed un Jeremy Irons altrettanto all’altezza), forse è meno scontato pensare, ad esempio, che le nove “amiche immaginarie” rappresentino le multiple personalità di Nikki/Susan. Ciò diventa piuttosto evidente nei momenti in cui la donna, visibilmente turbata, schiocca le dita contemporaneamente alle proprie alter-ego che sembra vedere soltanto lei. Un espediente non certo innovativo ma molto efficace, utilizzato anche, ad esempio, da John Carpenter e James Mangold. Mentre quindi in “Strade perdute” Ghezzi aveva scomodato il nastro di Moebius per spiegare efficacemente l’intreccio, in questa circostanza non credo basterebbe un cunicolo spazio-temporale per capire qualcosa in più, ammesso che abbia senso provarci. Se la trama non scorre e non si hanno riferimenti, c’è poco da fare: il film non gira alla perfezione, il regista lascia troppe cose sul vago e, a mio parere, rischia di far degenerare l’opera in un vuoto contenitore. Un container di emozioni reali, di personaggi vivi, di certo non plastificato, sicuramente di spessore e girato con originalità, ma troppo carico di astrattismo e di “esercizi di stile” senza uno sbocco chiaro.

  • Basket case: cosa c’è in quella cesta?

    Basket case: cosa c’è in quella cesta?

    Duane Bradley, ragazzo di provincia dalla faccia pulita, si presenta in un motel di New York portando con sè uno zainetto ed una grossa cesta di vimini: cosa è venuto a fare nella Grande Mela?

    In breve. Tra i b-movie del genere horror per eccellenza: sangue, violenza, trama più solida della media e vari elementi che lo hanno reso, nel tempo, un oggetto di culto. Gli appassionati non potranno prescindere da questa chicca (per quanto non esente da difetti), gli amanti generalisti dell’horror possono sempre visionare per curiosità.

    Basket case” di Frank Henenlotter (regista noto principalmente per via di questo film e di Brain damage) è probabilmente uno dei b-movie dell’orrore più solidi e famosi mai realizzati negli anni Ottanta. Il suo feeling, il suo ritmo ben scandito, il suo splatter artigianale e gli spruzzi di sangue (probabilmente fatti con una “peretta”) hanno finito per fare scuola, e non ci sono dubbi che i lavori della Troma (ad esempio) ne possano essere stati pesantemente influenzati. Un esempio di b-movie per fama, gloria e giusti meriti, anche per il fatto che riesce a mantenere viva l’attenzione dello spettatore senza banalizzare, ma anzi accattivandosi la curiosità e dosando con grande cura tutti gli elementi.

    In pochi hanno notato che si tratta di un horror artigianale che, a suo modo, analizza le relazioni umane (amore, gelosia, possessione) sfruttando un’apparenza meramente organica e gore: il risultato appare pienamente convincente, anche se probabilmente, al netto di tutto, riesce più ad incupire che a spaventare sul serio lo spettatore. Si potrebbe parlare di una sorta di proto-body horror, per via della presenza della creatura nella scatola che finisce, inevitabilmente, per avere un’ovvia valenza simbolica (orrore esteriore versus interiore).

    Beninteso che, in questo discorso, si rimane comunque lontani dalle introspezioni sul tema effettuate qualche anno dopo da David Cronenberg, si tratta un horror artigianale ottantiano nello stile, nella sequenzialità e nella costruzione dei personaggi, in cui vive qualche momento davvero tragico che forma una strana coppia – neanche a dirlo – con l’andamento scanzonato, irriverente e volutamente trash del resto. Secondo alcuni, del resto, è proprio questo dualismo l’unica cosa che finisce per essere l’aspetto negativo di “Basket case“, fermo restando che si tratta di una pellicola “di genere” per pubblico “di genere”, non sono mai stato troppo d’accordo. L’accostamento mi pare ben realizzato, il tema di fondo è decisamente spaventoso, e la verità, per quanto faccia sorridere di riflesso, si sa trasformare e diventa (fin troppo) serio nella seconda parte. Una prassi di molti horror, per la verità, quella di accostare il comico al tragico. Il tutto, c’è da specificare, in un contesto di recitazione abbastanza infimo ed una qualità visiva piuttosto bassa, per non parlare del doppiaggio in italiano non esattamente da Actor’s Studio.

    Del resto rimangono innumerevoli gli elementi di culto della pellicola: il mazzetto di dollari ostentato da Duane – secondo il regista si trattava dell’intero budget del film! – gli inevitabili tagli che misero sul mercato una versione “fully uncut” ed una che esaltava (censurando tutto il gore) solo l’aspetto ironico del film, i credits per buona parte fake – dato che il cast era particolarmente esiguo, la chirurgia improvvisata nel salotto di casa, gli inquilini casinari del motel, le urla nella notte, le smorfie indimenticabili di Terri Susan Smith versione “ragazza della porta accanto“, senza dimenticare naturalmente il contenuto del cestino (la vera miccia che “accende” la pellicola). La creatura venne animata parzialmente in stop motion (cosa un po’ insolita per un film di questo tipo) oppure, ove possibile, con un guanto deformato mosso direttamente dal regista – tanto per dare l’idea del livello di artigianalità che, è bene specificare, non degenera mai in un eccesso che lo avrebbe reso solamente ridicolo.

    Probabilmente uno dei film del genere più “puramente” b-movie, non il miglior horror anni 80 (questo è sicuro) ma certamente una delle pellicole che meglio bilancia artigianalità e qualità, con un finale in crescendo ed un epilogo tragico che non potrà, a mio avviso, lasciare indifferenti.

    Come già in altri casi: “Basket case” per molti, ma non per tutti.

  • Calvaire: un horror pazzesco che dovresti vedere assolutamente (Fabrice Du Welz, 2004)

    Calvaire: un horror pazzesco che dovresti vedere assolutamente (Fabrice Du Welz, 2004)

    Un cantante francese gira negli ospizi per fare le proprie serate, in prossimità di Natale: ma il furgone su cui viaggia si guasta, e l’uomo è costretto a farsi ospitare da un cordiale ex umorista…

    In breve. Exploitation belga di buona fattura, ricco di richiami impliciti al primo Wes Craven ed al cinema di genere “estremo” di moda negli anni 70 (I spit on your grave è il riferimento più corposo). Tutti i ruoli dei personaggi sono stravolti, e l’apparente normalità degenera nel terrore con la “naturalezza” di una piece teatrale dell’assurdo.

    Se fai cinema horror senza pretese, è facile che tu venga tacciato di superficialità, specie se non riesci a dare una giustificazione accettabile a quanto rappresenti sullo schermo: ancora ricordo Grotesque e la sensazione non troppo positiva che mi ha suscitato (buona forma ma pochissima sostanza). In parte, Calvaire sembra suggerire le stesse sensazioni, anche perchè – nella sua brutale essenzialità – parte dai presupposti più classici che possano esistere (il protagonista si perde in un bosco, il furgone si guasta, esce fuori poco dopo lo psicologicamente instabile di turno). Ma se si riesce ad andare oltre i primi 20 minuti senza cedere alla tentazione di vedere un altro film, si troveranno numerose, ed interessanti, sorprese; il cinema del belga Du Welz è niente affatto banale, e molto ben congegnato. I riferimenti al cinema horror classico non mancano, in particolare riguardo l’exploitation anni 70. Una struttura rigida e piuttosto prevedibile di per sè, in cui il regista è riuscito (in collaborazione con Romain Protat) ad inserire vari elementi di novità, tanto da renderlo alquanto originale.

    https://www.youtube.com/watch?v=1owrlQlLExY

    I limiti, in questo caso, sono dettati dalla struttura stessa del film, e da un ritmo claustrofobico che spaventa, avvince e cattura per buona parte della narrazione, forse con qualche pecca nel ritmo giusto nella seconda metà. Lo spettatore che cerchi effetti speciali strabilianti, non sopporti la violenza anche accennata o diversamente si aspetta uno splatter puro, rimarrà deluso e dovrà guardare altro.

    Caratteristica di Calvaire sta nel fatto che i personaggi vivono una duplice identità, tracciata in linee piuttosto essenziali, ma altrettanto efficaci: l’effetto straniante deriva molto da un alto dalla figura del protagonista, dipinto come un menefreghista per cui sarà quasi impossibile simpatizzare, e dall’altro dal villain di turno, uomo fragile che, racconta, ha perso il proprio senso dell’umorismo dopo essere stato lasciato dalla moglie. Eppure tutti i personaggi gravitano attorno a Marc, per una forma di attrazione nei suoi confronti Ed è proprio qui che scatta un meccanismo interessante a livello narrativo: il passato oscuro di Bartel viene “rivissuto” attraverso Marc, lentamente identificato dal proprietario dell’albergo con la moglie persa.

    E se può sembrare ovvia queste identificazione che, agli occhi di un folle, arriva a far rivivere in replay le crudeltà fisiche e psicologiche subite dalla donna, meno ovvio è che tutti gli abitanti del villaggio (con la sola eccezione di Boris, forse) “vedano” in Marc la donna, l’unico elemento femminile della zona nonchè morboso oggetto del desiderio di molti. I riferimenti a Cane di paglia e I spit on your grave si sprecano e sono leciti, con la differenza che in questa sede manca completamente l’elemento vendetta, in favore di una pietas nichilista che esalta la natura ambigua, imprevedibilmente folle dell’essere umano.

    Sulla natura animalesca dell’uomo e sul lato oscuro, evidentemente, è stato già scritto e detto fin troppo sullo schermo: l’elemento di novità di Calvaire (il nome “mistico” del film sembrerebbe derivare da un preciso riferimento alla crocifissione) sta proprio nel fatto che al posto della solita scream queen c’è un uomo, costretto suo malgrado ad interpretare una donna – con cui condivide la fragilità di fondo – che non ha mai conosciuto, solo perchè il mondo sembra identificarlo in essa. La stessa morbosa ambiguità  che troviamo, in toni differenti, all’interno uno dei più sottovalutati film di Cronenberg (M Butterfly), che condivide con Calvaire il “gioco di ruolo” sessuale accettato dal protagonista, accecato da pulsioni sessuali e da pretese d’amore.

    Menzione particolare per la colonna sonora, praticamente un unico macabro tema eseguito al piano da uno dei protagonisti, capace di creare uno siparietto grottesco – quasi da teatro dell’assurdo – nonchè un preciso omaggio al film del 1968 Una sera… un treno.

  • Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto: l’uso della libertà, secondo E. Petri

    Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto: l’uso della libertà, secondo E. Petri

    Via del Tempio, 1: Augusta Terzi viene assassinata dal capo della sezione politica della questura: l’assassino non solo si auto-denuncia, ma cosparge la scena di prove della propria colpevolezza. La macchina burocratica e istituzionale della polizia, corrotta fino all’osso, non potrà mai attivarsi contro il protagonista, in virtù  della massima “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano“. Questa clamorosa conclusione è ciò a cui ci porta il capolavoro di Elio Petri, uno dei film più famosi del regista romano che si colloca nel clima turbolento degli anni Settanta italiani: all’uscita del film si vociferò di un possibile sequestro, anche per via della concomitanza con gli attentati di piazza Fontana e la morte di Pinelli (la critica di Lotta Continua vide nella figura del protagonista un alias del commissario Calabresi).

    Al di là dei contenuti politici – spesso abusati o retorici in altri lavori – e dell’ovvia metafora contro il Potere e le sue perversioni, il film è denso di riferimenti culturali, dallo stile brechtiano e straniante di Volontè (in una delle sue più belle interpretazioni) all’intero paradosso di matrice kafkiana che avvolge l’intera storia. Il capo della sezione omicidi ha appena ucciso la propria amante, e sembra beffarsi delle stesse istituzioni che proteggono lui come altri colleghi corrotti: è una situazione di stallo circolare, in cui non sembra esserci speranza di giustizia se non per la sparuta ed isolata figura dell’anarchico Pace (nomen omen), unico relativo barlume di speranza e positività della storia.

    Nessuna impronta interessante, ci sono solo le sue, dottore… sì, su una maniglia, e su una tazzina di caffè, dottore, si vede che lei avrà avuto sonno. Questo nella doccia, lì siamo entrati tutti, anche il dottor Mangani ricorda? E poi nella cucina, anche lì siamo entrati  tutti… e sempre distrattamente avrà preso qualche cosa senza precauzioni… ecco, e poi sul telefono… ma lei senza dubbio avrà telefonato, ricordo benissimo che lei telefonò, e poi su un bicchierino da liquore, ma lei si sentì male, quella sera, un bicchierino di Fernet glielo versai io, si ricorda (Dott. Panunzio)

    Un’istituzione giudiziaria evoluta in una macchina cinica e burocratese, in cui nessun uomo comune è realmente al sicuro – ma che, al tempo stesso, si cura bene di proteggere i più forti. Nel farlo, il vero colpo di genio è l’uso del frame tipico del thriller all’italiana, tanto che le prime sequenze evocano i migliori lavori di Fulci o Argento, per poi diventare cinema politico con una forte connotazione “teatrale”. Tale sfumatura è visibile in diversi spaccati del film, come nei frammenti di riflessione interiore del protagonista, o quando ascolta la propria confessione registrata e ne ripete, drammatizzandoli, alcuni passaggi. L’aspetto singolare del film è legato al fatto che l’intera vincenda – quello che sarebbe un giallo, in altre circostanze, con finale a sorpresa – sono orchestrati dal protagonista che si beffa deliberatamente della legge che rappresenta.

    La Bolkan è una borghese irrequieta, attratta morbosamente dai segreti del poliziotto e, per estensione, invaghita del Potere (tanto feroce quanto infantile, in questa rappresentazione), arrivando da farsi trattare da bambola nella grottesca ricostruzione di più scene del delitto. Il punto cardine del film passa, poi, per un’intuizione brutale: l’identificazione da parte delle autorità del reato politico con quello criminale (sotto ogni sovversivo può nascondersi un criminale, sotto ogni criminale può nascondersi un sovversivo), il che porta la stessa a prendersi gioco di tutto il resto, e a schedare ferocemente i cittadini infangandoli ed accusandoli a convenienza. Le indagini sull’assassino della Terzi, peraltro, sono svolte da umili individui sottomessi al capo dell’attuale sezione politica, che vivono in perenne soggezione nei suoi confronti e sembrano non avere modo di poterlo incriminare, neanche volendolo sul serio. Uno scenario kafkiano fatto di accenni, riferimenti occulti e cenni di intesa, vissuta dal punto di vista del più forte ed in cui è evidente il senso di straniamento e di assurdo, che non avrebbe sfigurato in una tragi-commedia di Beckett o Ionesco.

    L’importanza culturale di Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto è molteplice: al di là del tentato risveglio delle coscienze e del forte senso di denuncia, si tratta di un importante passo avanti verso una società più adulta, […] più sicura di sé e della democrazia da potersi permettere di criticare istituti tenuti per sacri (corsivo tratto dal Corriere della sera); non quindi una semplice analisi del problema, ma anche una possibile soluzione ed una potenziale svolta dietro l’angolo. Non è un caso che l’unico vero testimone del delitto sia un cittadino proclamatosi anarchico individualista, la cui effettiva efficacia d’azione è comunque messa in discussione dall’ambigua pantomima del poliziotto. La riunione “un po’ all’americana” con il delirio di onnipotenza del dirigente stesso (il cui nome non viene mai pronunciato), il successivo svelarsi di un archivio in corso di informatizzazione (nel quale vengono regolarmente schedati soggetti politici e comuni cittadini: una specie di NSA ante litteram, vista oggi), e la discussione con il commendatore che considera irrilevante l’auto-denuncia del collega (“per me è stato… il marito“) sono soltanto tre dei passaggi magistrali di Investigation of a Citizen Above Suspicion.

    L’uso della libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costituite… L’uso della libertà, che tende a fare di qualsiasi cittadino un giudice, che ci impedisce di espletare liberamente le nostre sacrosante funzioni. Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!

    Un film dai registri perfetti, dalle sublimi interpretazioni di tutti i personaggi, i quali recitano un canovaccio dell’assurdo in cui sono tutti colpevoli ma, al tempo stesso, nessuno lo è davvero. Il black humor e la feroce satira di cui è cosparso il film, elemento considerevole di altri lavori di questo genere (ad esempio Signore, Signori, Buonanotte), rendono questo lavoro di Petri forse tra i film italiani più importanti e maturi di sempre. Prima parte della “Trilogia della Nevrosi“, che sarà seguita da La classe operaia va in paradiso (1971) e La proprietà non è più un furto (1973).

  • Revenge: il revenge movie della Fargeat che (non) lascia il segno

    Revenge: il revenge movie della Fargeat che (non) lascia il segno

    Tre uomini e l’amante di uno di loro si ritrovano in una villa sperduta per una battuta di caccia: la donna, bellissima quanto frivola, attira le loro attenzioni facendo degenerare la situazione.

    In breve. Eccessivo e violento, si incentra sulla martirizzazione di un corpo femminile che sembra nato per l’eros: in questo, la Fargeat compie una nobile operazione anti-maschilista, filmando un’opera autenticamente sovversiva, che farà parlare di sè per buone ragioni. Per altri versi, pero’, il film non regge, e non è credibile come dovrebbe sembrare.

    Nell’intero suo concepimento, e per come finisce per presentarsi al grande pubblico, questo Revenge sembrerebbe avere le carte in regola per essere considerato un film di livello: del resto, già solo l’inquadratura insistita e dettagliata che lo caratterizza (l’enorme deserto nella zona del Grand Canyon) è un biglietto da visita fin troppo eloquente.

    Sono anche chiari i modelli di riferimento che sono stati sviluppati: Wes Craven (che sembra quasi ovvio, ma non era banale riprendere certi temi oggi), ma anche Lucio Fulci per alcune sequenze splatter (gli occhi trafitti da una lama, il cadavere che riemerge dall’acqua).

    L’insieme di dettagli che caratterizza Revenge finisce, però, per risultare vagamente sconnesso, soprattutto per il suo insistere sulla quantità di sangue finto – che, a quanto pare, fu largamente sottostimato in termini di litri necessari. C’è tanto plasma sgorgante in Revenge, insomma, che nemmeno in uno splatter puro: questo per molti è diventato un pretesto per far notare quanto rischiasse di essere poco verosimile. Da un lato personaggi che non muoiono (pur “avendo il dovere” di farlo), e soprattutto (a mio parere) la circostanza di sopravvivenza della protagonista si prefigura, forse, come la meno realistica in assoluto. Ed è proprio  da qui che si diparte il clou della trama, ed è questo che mi ha convinto meno di qualsiasi altra cosa.

    Coralie Fargeat è la regista (esordiente) alle prese con il modello del rape’n revenge, ad oggi considerato antisociale a priori da gran parte della critica e del pubblico; ma qui siamo di fronte alla classica eccezione che smentisce il trend. Una regista donna che gira, con la piena consapevolezza dei propri mezzi tecnici ed espressivi, un film contro la mercificazione dell’immagine femminile, dando un ampio saggio della bellezza, innegabile, del corpo di Matilda Lutz per poi capovolgere l’assunto e renderlo selvaggio, irrazionale e violento. Se nulla, poi, in Revenge sembra casuale o “buttato lì”, troppo spesso la trama finisce per scontrarsi con la logica, distrando così dagli intenti più nobili, e anche solo dal semplice godersi il film. D’accordo che poi, in ambito exploitation, è consuetudine effettuare degli “azzardi” poco coerenti come sviluppo narrativo; non bisognerebbe nemmeno dimenticare che Revenge è sostanzialmente un b-movie – per quanto girato “alla Tarantino” (ovvero facendo elegantemente finta di avere pochi mezzi). Per cui la critica più razionale, per quanto lecita, finisce per doversi attenuare, un po’ per forza di cose un po’ perchè il film è impostato così.

    Non c’è dubbio, comunque, che il film funzioni da molti altri punti di vista: la scelta dei personaggi è azzeccata, a cominciare dall’inaspettata protagonista (prima frivola e incosciente, poi determinata e feroce) a finire alle tre figure maschili, tre declinazioni di “orchi” molto diversi tra loro, sia per spessore che per potenzialità.

    La regista sembra aver voluto creare un sano exploitation incentrato sugli stereotipi del genere, giocando sui consueti contraccolpi a sorpresa, e regalando al pubblico momenti violentissimi quanto frustranti (o liberatori) all’interno della trama. Del resto, chiunque abbia visto La casa sperduta nel parco, ad esempio, non dovrebbe avere difficoltà a riconoscere il modello che è stato seguito: i presupposti sono quasi identici – per quanto ci fosse forse maggiore credibilità nel lavoro di Deodato.

    L’unico modo per visionare Revenge senza farsi trascinare da una critica inutilmente feroce, che il film a conti fatti non sembra meritare del tutto, è quello di farsi avvolgere dal clima puramente ottantiano che lo caratterizza, divertendosi anche a cogliere le citazioni cosparse nella pellicola (The descent, Rambo). Revenge sarebbe forse potuto essere qualcosa di meglio, essenzializzando e rinunciando a simbolismi suggestivi quanto improbabili: l’insistere sulle tracce di sangue nel rapporto predatore-preda, soprattutto, che farà venire ai più sarcastici spettatori la voglia di fare un esposto all’Avis per tutto il plasma sprecato. E soprattutto: mai chiedersi – nel modo più assoluto, direi – come sia possibile che i personaggi sopravvivano e riescano a maneggiare armi quasi completamente dissanguati. Questo è un b-movie puro, nel bene e nel male – e finchè morte non ci separi.

    Menzione particolare per la scelta delle musiche, infine, ispirate ai lavori – tra gli altri – di John Carpenter.