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  • Hardware – Metallo Letale è la visione ansiogena del nostro millennio

    Hardware – Metallo Letale è la visione ansiogena del nostro millennio

    Regia: Richard Stanley

    Sceneggiatura: Steve MacManus, Kevin O’Neill, Richard Stanley

    Cast: Dylan McDermott, Stacey Travis, John Lynch

    Anno: 1990

    La terrà tremerà, e le masse avranno fame; ogni genere di dolore vi attende. Nessuna carne sarà  risparmiata.

    Personaggi di Hardware

    Come previsto la legge sul controllo delle nascite è stata approvata, ed entrerà in vigore dal primo dell’anno. 

    Moses è il protagonista, piuttosto atipico, di questa storia: per quanto non abbia nulla di apparentemente diverso dal protagonista maschile che vediamo in media dentro quasi ogni film, mostra alcuni lati oscuri della propria personalità. Inevitabile: il mondo è corrotto, cambiato, irreversibilmente inquinato, cinico, insopportabile, e non si poteva non includere un qualche contagio emotivo. Possiede una mano meccanica, una protesi che gli è stata impiantata a causa di un incidente e che riesce a muovere autonomamente.

    Lo spirito più cyberpunk del film è probabilmente espresso (al netto delle sequenze di combattimento uomo -macchina, che sono comunque numerose, molto scure come tonalità e quasi sempre cruente)  dalla scena della doccia con Jill, in cui viene esibito chiaramente il dettaglio della protesi dell’arto destro, innestato per sempre nel suo organismo. Shades è la controparte di Moses, abbastanza sulla falsariga di un personaggio puramente gibsoniano (ha una dipendenza da allucinogeni) e ne rappresenta una sorta di co-protagonista.

    Jill è un’artista creativa e indipendente, che lavora su particolari sculture meccaniche guidata da un’idea singolare: usare ferraglia trovata in giro per il mondo e farle assumere forme organiche, più vicine possibili a quelle degli esseri viventi. Che la meccanica fatta di ferraglia riciclata possa costituire una forma umana, o quantomeno biologica, è il sogno più profondo dell’era in cui è ambientato il film, ammesso ovviamente che i confini tra i due non siano nel frattempo diventati labili. Il personaggio esprime per tutto il film creatività e sensualità in eguale misura, facendone sfoggio in diverse occasioni. È un personaggio significativo anche perchè, in un momento specifico del film, afferma di non volere figli, ergendosi come anti-eroina indipendente e suscitando il fastidio di Moses.

    Lincoln è il vicino di casa di Jill, cinico e maschilista,  ossessionato dalla donna al punto di aver installato un telescopio a infrarossi in casa per spiarla: vede tutto, è un panottico umano in piena regola e si spingerà ad andare più volte a casa sua. Per quanto possa sembrare un personaggio secondario è, in effetti, uno dei più carichi di significato del film, in quanto rappresenta lo spettatore, il suo guardare per definizione, che sarà punito da un Super Io meccanizzato e implacabile nel modo più atroce. È il simbolo di ciò che i social network, per certi versi, sono diventati per noi oggi: pura ossessione voyeur regolamentata dalla tecnocrazia.

    Il misterioso Nomade è, ancora una volta, un personaggio simbolico: si nutre della situazione contingente, vaga nel deserto a caccia di frammenti di androidi da rivendere sul mercato e guadagnarci. Rappresenta probabilmente l’istanza più ambientale del film, se vogliamo, in quanto è causa della storia, la apre e la chiude agendo da autentico mastro burattinaio. Viene interpretato dal cantante dei Fields of the Nephilim, Carl McCoy .

    Mark 13: forma bio-meccanica auto-indipendente dotata di intelligenza artificiale

    Trama

    È Natale a New York, ed è ora di ricongiungersi con amici e parenti: l’unico dettaglio è che ci troviamo in un prossimo futuro, l’America è diventata un gigantesco deserto e la civiltà è quasi regressa allo stato primordiale. In un mondo contaminato dalle scorie nucleari, dal disastro climatico e da una politica sempre più cinica e indifferente, si muovono vari personaggi: un misterioso nomade a caccia di pezzi di robot da rivendere al mercato nero, un viaggiatore dotato di una protesi meccanica (una mano fatta di metallo), una scultrice che crea lavori su commissione sfruttando ferraglia di seconda mano, un proto-hacker che scopre che alcuni dei pezzi di androide che possiede sono, in realtà, armi militari avanzate. Stiamo parlando di Hardware di Richard Stanley, fantascienza d’epoca datata 1990: una fantascienza che deve parecchio all’horror, e che dall’horror prende ispirazione per le ambientazioni, il mood ed il ritmo generale (Stanley è fan dichiarato di Dario Argento, e racconta di essersi ispirato ai suoi film della prima era, oltre che a Deliria di Michele Soavi). Non mancano le suggestioni legate agli innesti metallici nei corpi umani, cosa che può avvenire in senso sia benevolo che malevolo: tali suggestioni sembrano pesantamente condizionate da alcune sequenze di Tetsuo, uscito nelle sale qualche mese prima di Hardware.

    Hardware che non è, peraltro, uno dei film di fantascienza più noti al mondo, ma rientra a pieno titolo (e nel miglior senso possibile) nel panorama dei b-movie: le tematiche che tratta sono ancora attualissime, vivide, per quanto si possa parlare di una singolare retro-fantascienza, che deve parecchio al thriller/horror a livello di forma. I temi che tocca sono tipici della sci-fi più di concetto, le allegorie sono numerose ma non si tratta neanche della fantascienza filosofico-saggistica alla Cronenberg, per intenderci. Il tema del film è quello della rinascita, vista in modo originale attraverso gli “occhi”, la “percezione sensoriale” digitalizzata di un androide costruito segretamente come arma militare, che viene inavvertitamente riassemblato per poi rinascere, auto-alimentarsi, rigenerarsi e auto-ripararsi. È l’epitomo della tecnologia che non muore mai, è la macchina che non sente dolore, esegue freddamente il proprio compito, con esito inevitabilmente positivo: sia che si tratti di salvare una vita umana con la chirurgia robotizzata che, al contrario, di uccidere gelidamente un essere umano. È la macchina che – quando finalmente si spegne – induce il nostro sollievo, per quanto non possa aver razionalmente provato dolore nel morire.

    Il cuore della trama ruota attorno all’androide, inizialmente scambiato per un semplice addetto alla manutenzione, che si rivela essere il feroce MARK 13 da combattimento. Un androide che si trova in casa della vittima e che si “sveglia” dal torpore per ricominciare ad uccidere: incredibile come quella che era soltanto una suggestione d’epoca possa tramutarsi, oggi, quasi in una minaccia concreta. Nei tempi di Alexa e dei robot avanzati della Boston Dynamics, questo ed altro. Il riferimento al Vangelo di Marco è il tocco di tecno-misticismo del film, il quale assume un significato profetico e, ancora una volta, allegorico: “La terra tremerà e le masse avranno fame; questi dolori vi aspettano, e nessuna carne sarà risparmiata.” è un chiaro riferimento all’intreccio, alla più classica delle profezie autoavveranti: il mondo è allo sbando, ma questo solo perchè siamo stati noi a volerlo.

    Hardware è una gemma avvenieristica novantiana, un unicum assoluto al netto di un doppiaggio italiano forse un po’ grossolano, ma che resta di culto anche perchè il regista non esita a esporre le proprie riflessioni, soprattutto nella parte conclusiva del film, dove MARK 13 diventa una metafora del potere oppressivo, del potere che manipola l’opinione pubblica e sacralizza l’idea di utilizzare gli automi per il controllo delle masse. L’idea alla base del film, peraltro, presuppone un’invasione di androidi finanziati dal governo su larga scala per ridurre la presenza umana e porre un limite alla sovrappopolazione mondiale, all’epoca una delle più grandi preoccupazioni che l’intreccio ha contaminato, neanche a dirlo, con le paure appena vissute da Guerra Fredda. Estremizzando, si potrebbe immaginare un mondo a venire interamente presenziato dalle macchine, in cui l’uomo possiede un ruolo sempre più marginale e che realizza la filosofia accelerazionista formulata in particolare da Nick Land, nella sua accezione più apocalittica. Come al solito, la fantascienza di ieri è diventata neanche troppo difficilmente l’eventuale ipotesi di complotto di domani.

    MARK 13 è, dal canto suo, un androide quasi più feroce di Terminator, subdolo e imprevedibile, un insetto letale che ti ritrovi in casa e non riesci a mandare via, e sei ancora più terrorizzato dall’idea di ucciderlo a tua volta. Hardware esprime l’eterna lotta uomo-macchina con spirito pioneristico e coraggioso, e facendo ricorso a scene quasi sempre nella semi oscurità, scelta che ha reso cult l’opera e, per dirla tutta, abbastanza insopportabile per alcuni spettatori. Una lotta che, come sappiamo, continua implicitamente fino ad oggi, e che abbiamo probabilmente interiorizzato da allora.

    La TV del futuro

    In Hardware – Metallo letale troviamo un mondo contaminato dalle radiazioni, per cui le trasmissioni del futuro si sono adeguate all’andazzo: telegiornali che annunciano la morte di centinaia di persone come se nulla fosse, si vedono pubblicità kitsch di carne non radioattiva e predicatori religiosi che si augurano pubblicamente di poter schiacciare tutti gli hippie e i beatnik. Ancora una volta, profezia del passato che si auto-avvera nel presente, nella realtà in cui viviamo, col virtuale del film che è diventato in gran parte realtà. La rielaborazione mediatica fatta da Stanley vede tra gli altri Iggy Pop che interpreta un grottesco speaker radiofonico che ironizza cinicamente sulla sorte sciagurata del genere umano.

    Da un punto di vista tecnologico, questa fantascienza di inizio anni Novanta presenta varie primizie tecnologie: si lavora ancora con i circuiti in voga fino agli anni Ottanta, ma si prevedevano sia le videochiamate che la vera e propria domotica, ovvero elettrodomestici programmabili dall’uomo. Per certi versi MARK 13 assume quasi la valenza di un elettrodomestico “impazzito” perchè ritenuto innocentemente tale. L’interpretazione della sua crudeltà innata, a mio parere, non va intesa in senso letterale, semplicistico ed esternalizzante: non è la macchina che si ribella all’uomo, bensì è l’uomo ad averne sottovalutato la portata.

    Le macchine non hanno alcuna fantasia, eseguono schemi fissi.

    Il telescopio

    Hardware potrebbe tranquillamente definirsi un film retro-futurista: questo per via del curioso connubio tra tecnologie elettro-meccaniche e scenari futuribili, i quali oggi appaiono più minacciosi che mai. Questo perchè la rovina del mondo è stata determinata dalla siccità che ha reso mezzo mondo un deserto, dal cambiamento climatico che ha costretto i tassisti della città a dotarsi di barche, da una guerra nucleare che ha contaminato radioattivamente la terra: sono le preoccupazioni che viviamo ogni giorni, inesorabili, a cui assistiamo spesso inermi, deprivati dell’idea di una qualsiasi reazione.

    Il voyeurismo di Hardware

    La società di Hardware non è solo degradata, oscura e post-apocalittica: è anche una società in cui guardare è un piacere feticistico che sostituisce, in molti casi, il contatto fisico interpersonale. Le radiazioni rendono i contatti tra estranei poco consigliabili (lo vediamo quando Jill accoglie sss inizialmente con diffidenza, sottoponendolo a scansione), per cui guardare con un telescopio come fa il personaggio di sss evoca due aspetti: quello legato al voyeurismo e al cybersesso, naturalmente, ma anche ad una forma di stalking della vittima, che qui viene “profetizzato” nel momento in cui il vicino guardone bussa al videocitofono di Jill mostrando solo un occhio, dopo essersi eccitato a spiarla nell’intimità.

    Sono aspetti, peraltro, destinato ad auto-avverarsi ancora nel nostro presente: le webcam che subiscono attacchi informatici e diventano strumenti per spiarci nell’intimità, il sesso a distanza offerto dalle sex worker nel periodo della pandemia, la minimizzazione mediatica della complessità delle problematiche politiche, sociali e ambientali in nome della divina audience (che oggi rivive sulla pelle di ognuno, rendendoci narcisisti sui social network).

    Interpretazione e spiegazione del film

    Non sembra casuale, a questo punto, che il Super Io robotico (figurativamente rappresentato dall’androide MARK 13 programmato per sterminare il genere umano, iniettandolo un veleno che uccide all’istante) faccia giustizia sull’Es perverso e corrotto del voyeur, mentre l’Io di Jill assiste inerme alla macabra esecuzione. È la rivalsa simbolica della tecnocrazia sul genere umano, ormai sregolata ad ogni latitudine (da quella politica a quella sociale e sessuale), e si erge a spaventoso monito sulle nostre esistenze fino ad oggi. Possiamo – e dovremmo – accettare il progresso tecnologico, perchè opporsi significa ignorare gli aspetti positivi e più progressisti, concedendoci tragicamente in pasto alla macchina.

    Al tempo stesso, poi, non possiamo ignorare le profezie macabre di Stanley, costruendo un mondo nuovo in cui l’umano abbia il proprio posto nel mondo senza mai cedere agli istinti egoistici di dominio sull’altro, alle pulsioni guerrafondaie di ogni ordine e grado nonchè, naturalmente, alla distruzione programmatica dell’ambiente in nome del capitalismo.

    Cos’è il robot Mark 13

    Mark 13 è un’arma robotica progettata per la guerra, che si trova accidentalmente attivata e riattivata in un mondo desolato e decadente. È un monito potente a fare attenzione alla tecnocrazia, che squillava con vigore già all’epoca.

    Il Mark 13 è un’entità robotica aggressiva e apparentemente inarrestabile, creato con lo scopo di uccidere l’uomo per ridurne la capacità di riproduzione, anche grazie ad una specifica legge per il controllo delle nascite. Il robot incarna la paura dell’eccesso tecnologico e delle conseguenze negative della creazione di armi avanzate che possono sfuggire al controllo umano.

    C’è anche l’idea paranoica – che oggi è diventata ipotesi di complotto, ancora una volta – che il governo abbia deciso di risolvere il problema della sovrappopolazione mondiale ricorrendo ad una serie di robot killer, i quali possano dare fine al genere umano e rimpiazzarlo con macchine (come nella visione apocalittica espressa dal primo Nick Land, per intenderci).  L’unica salvezza, ovviamente, è non perdere la propria umanità. Nel tentativo di accelerare l’evoluzione sociale attraverso una catastrofe pianificata, il governo concepisce il Mark 13 come un’arma di distruzione di massa in grado di annientare le masse sovraffollate.

    Questo robot letale viene attivato in modo deliberato e guidato verso le zone più densamente popolate del pianeta, dove svolge un ruolo chiave nell’implementazione del genocidio, e il sospetto viene alimentato da uno dei personaggi mediante un versetto biblico (Marco, 13:20; nessuna carne sarà risparmiata, citazione che possiamo leggere all’inizio del film).

    Musicisti presenti nel film

    Tra gli ospiti speciali del film ci sono alcuni musicisti:

    1. Iggy Pop: il disc jockey radiofonico nel film.
    2. Lemmy Kilmister: il tassista che sfoggia “Ace of spades” nell’autoradio.
    3. Carl McCoy: Il frontman della band goth Fields of the Nephilim appare nel film nella veste del Nomade post-apocalittico.

  • Quando Pleasantville raccontava le sfide alle norme sociali

    Quando Pleasantville raccontava le sfide alle norme sociali

    Pleasantville” è un film del 1998 diretto da Gary Ross. La trama del film ruota attorno a due adolescenti, David e Jennifer, interpretati rispettivamente da Tobey Maguire e Reese Witherspoon, che vengono magicamente trasportati all’interno di un programma televisivo in bianco e nero degli anni ’50 chiamato “Pleasantville”.

    Nel mondo di Pleasantville, tutto è perfetto, ordinato e apparentemente privo di conflitti. Tuttavia, quando David e Jennifer arrivano, iniziano a influenzare il mondo circostante introducendo idee e cambiamenti che sfidano il conformismo e la rigidità della società dell’epoca. Col passare del tempo, il colore inizia a emergere nel mondo in bianco e nero del programma televisivo, simboleggiando l’apertura alla diversità, all’individualità e all’esplorazione della sessualità.

    Il film affronta temi come l’importanza dell’individualità, la sfida alle norme sociali, l’accettazione delle differenze e la comprensione dell’importanza della conoscenza e dell’esperienza. La trama serve anche da metafora per esplorare il cambiamento sociale, il razzismo, la sessualità e l’evoluzione culturale.

    Cast

    Il cast principale di “Pleasantville” include diversi attori noti. Ecco alcuni dei membri del cast e i personaggi che interpretano nel film:

    • Tobey Maguire: David / Bud Parker
    • Reese Witherspoon: Jennifer / Mary Sue Parker
    • Joan Allen: Betty Parker / Joan Allen
    • William H. Macy: George Parker / William H. Macy
    • Jeff Daniels: Bill Johnson / Jeff Daniels
    • Don Knotts: TV Repairman / Don Knotts
    • J.T. Walsh: Big Bob
    • Paul Walker: Skip Martin
    • Marley Shelton: Margaret Henderson
    • Jane Kaczmarek: David e Jennifer’s Mother
    • Giorgio Cantarini: Lover’s Lane Guy
    • Jenny Lewis: Christinains / Girl in Car
    • Marc Blucas: Basketball Hero

    Questi sono solo alcuni dei membri del cast del film “Pleasantville”. Ognuno di loro contribuisce alla rappresentazione dei vari personaggi nel mondo in bianco e nero di Pleasantville e nel mondo a colori che evolve man mano che la storia si svolge.

    Sulla regia

    Il regista del film “Pleasantville” è Gary Ross. Il film è stato scritto e diretto da lui ed è stato rilasciato nel 1998. Gary Ross è noto anche per aver diretto altri film come “Seabiscuit – Un mito senza tempo” e “Hunger Games”.

    Spiegazione del film (spoiler alert)

    Il finale di “Pleasantville” è ricco di significati e simbolismi che riflettono le tematiche del film. Verso la fine del film, il mondo di Pleasantville è passato da uno stato in bianco e nero a uno a colori, simboleggiando la trasformazione sociale e culturale che si è verificata nella comunità. Questo cambiamento è avvenuto a causa dell’influenza delle nuove idee, della conoscenza e dell’apertura alla diversità introdotti dai protagonisti, David e Jennifer.

    Il passaggio al colore rappresenta l’abbattimento delle barriere sociali e culturali che limitavano l’espressione individuale, la sessualità e la creatività. Rappresenta anche l’accettazione delle emozioni umane complesse e dei conflitti che prima erano repressi. Questa trasformazione simboleggia il progresso e il cambiamento necessari per una società più inclusiva e aperta.

    Inoltre, il cambiamento nei colori riflette anche il processo di crescita personale e di scoperta attraverso l’esperienza. I personaggi nel film imparano a essere veramente se stessi, a esplorare la loro individualità e a connettersi con gli altri in modi autentici. La diversità di idee e identità viene finalmente abbracciata.

    In sintesi, il finale di “Pleasantville” trasmette un messaggio di speranza, cambiamento e progresso, sottolineando l’importanza dell’apertura mentale, dell’accettazione delle differenze e dell’esplorazione personale.

    Omonimie

    “Pleasantville” è il titolo di una canzone dell’artista indie pop Dodie Clark. Tuttavia, la canzone non è stata inclusa in uno dei suoi album ufficiali, ma è stata pubblicata come singolo indipendente nel 2013. La canzone riflette sul tema della ricerca dell’innocenza e della purezza in un mondo complesso e spesso confuso. La canzone potrebbe non essere molto conosciuta a meno che tu sia un fan dell’artista o del genere musicale indie pop.

  • Fracchia la belva umana è uno dei masterpiece di Neri Parenti

    Fracchia la belva umana è uno dei masterpiece di Neri Parenti

    Il più grande criminale (La belva umana) ed il più mediocre impiegato (Fracchia) si ritrovano ad essere perfettamente somiglianti…

    In breve. Probabilmente uno dei film più divertenti e meglio riusciti del periodo, con una trama insolitamente avvicente ed un finale da incorniciare. Cult, e non per modo di dire.

    Molti cinefili meno esperti potrebbero non sapere che i personaggi dell’impiegato umile e sottomesso interpretati da Paolo Villaggio erano due: Fantozzi da un lato, e Giandomenico Fracchia dall’altro. Simili ma non uguali, per quanto questa differenza sia effettivamente rimarcata in modo più chiaro, forse, leggendo la trilogia letteraria di Fantozzi. Giandomenico Fracchia compare a Quelli della domenica, per la prima volta, nel 1968, e quello in questione è uno dei film che lo ha consacrato nell’immaginario pop collettivo.

    Diretto dal Neri Parenti re della commedia all’italiana, e scritto in collaborazione con Paolo Villaggio, Piero De Bernardi, Leonardo Benvenuti e Giovanni Manganelli, Fracchia la belva umana viene ricordato per la doppia parte di Paolo Villaggio (il cinico Belva Umana versus il sottomesso ed incapace Giandomenico Fracchia), per la presenza di Lino Banfi (il commissario Auricchio, coi sui irresistibili e leggendari siparietti: IMDB riporta che la sequenza canterina “Benvenuti a sti frocioni” venne completamente improvvisata dall’attore, che riuscì a sorprendere sia il chitarrista che il resto del cast) e di Anna Mazzamauro (qui la Signorina Corvino, un personaggio molto simile alla Silvani nota nei vari Fantozzi).

    Meriterebbero menzione, in questo contesto, anche Gigi Reder (nei panni di una donna, ovvero l’apprensiva madre della Belva ed il suo stridulo tormentone da mamma del sud ontologicamente apprensiva: figghiuuu-figghiuuu!), Massimo Boldi (poco prima che diventasse famoso, e che qui interpreta la micro-parte del criminale Pera) e pure lo spesso dimenticato Francesco Salvi (il caratterizzatissimo Neuro), quest’ultimo in particolare interprete di un apparente tributo parodistico-giocoso ai cattivi della exploitation in voga all’epoca (per certi aspetti vorrebbe parodiare Trentadue di Cani Arrabbiati e Krug Stillo de L’ultima casa a sinistra). Tutti piccoli caratteristi che, come da tradizione dell’epoca, uniscono le forze e contribuiscono a formare una delle commedie più riuscite di quegli anni, assieme all’immortale Vieni avanti cretino e pochissimi altri. Troppe furono le commedie italiane anni 80 evitabili e logore, ma Fracchia certamente non rientra in alcun modo in quella classificazione, tanto che la stessa etichetta di b-movie, per certi aspetti, gli sta addirittura stretta.

    Due parole sull’origine del film, che forse in pochi conoscono: se il personaggio di Fracchia è stato inventato da Villaggio nei suoi romanzi (e spesso affiancato e a volte confuso con quello di Fantozzi), il soggetto originale va cercato nel racconto Jail Breaker di W.R. Burnett ( 1932) e nel film di John Ford noto in Italia come Tutta la città ne parla (1935). Da qui è presa l’idea di una persona comune che si ritrovi ad essere il sosia di un feroce criminale, con quest’ultimo che inizia a perseguitarlo per i propri fini: ed in questi termini Fracchia la belva umana andrebbe considerato un remake vero e proprio.

    C’è tutto, in questo film: ci sono gag che sarebbero diventate leggendarie (ad esempio il divano del direttore sul quale è impossibile, per Fracchia, sedersi senza sdraiarsi o stare molto scomodo: era Fracchia, e non Fantozzi come erroneamente riportato dalla stampa, ad occupare il divano fantozziano, che sarebbe più corretto chiamare “fracchiano”), c’è la prima sequenza del footing che finisce disastrosamente (girata a Villa Borghese a Roma, location predefinita del film) in cui il povero Fracchia si caratterizza nella propria frustrazione ed incapacità, ci sono i siparietti all’Osteria da Cencio, ristorante di Trastevere diventato noto anche grazie a questo film (e qui chiamato “Da Sergio e Bruno – Gli Incivili“), ci sono decine di dettagli, di battute salaci e di comicità slapstick diluita, molto probabilmente, nei ricordi televisivi di una generazione o due di attuali trentacinque-quarantenni che sono (più o meno consciamente) cresciute con film di questo genere.

    Rivisto oggi, l’effetto di Fracchia è suggestivo: per quanto molte trovate si confondano con altri Fantozzi, e per quanto Villaggio sia riuscito a differenziare Fracchia da Fantozzi stesso (proponendosi peraltro in una doppia parte davvero magistrale), rimane il rimpianto di uno degli ultimi esempi di cinema comico ottantiano davvero genuino, originale e divertente: qualche anno dopo, per inciso, non sarebbe più stato così. Merita menzione, infine, il finale del film: grazie ad una polizia tipicamente litigiosa e pasticciona (un must tra gli stereotipi dell’epoca, anche qui) i due personaggi verranno continuamente confusi, ed il lasciapassare si rivelerà una vera e propria condanna “infernale” per il povero protagonista.

  • Requiem for a dream: la tragedia cinematografica per eccellenza

    Requiem for a dream: la tragedia cinematografica per eccellenza

    Una storia di speranze e utopia, trasfigurata nel vissuto di quattro personaggi diversi, tutti accomunati da storie di dipendenza.

    In breve. Convulso e spietato trattato sulle dipendenze in genere, in una delle migliori prove registiche di Aronofsky (Il teorema del delirio): uno di quei film che restano, semplicemente, nella storia.

    Caratteristiche tecniche

    Basato su un romanzo di Hubert Selby Jr del 1978 con lo stesso nome (a quanto pare di difficile reperibilità in Italia), Requiem for a dream è uno di quei film – piacciano o meno allo spettatore – difficili da dimenticare: vero e proprio delirio di immagini, a tratti paragonabile ad un lunghissimo videoclip, inframezzato da primi piani simbolici, quasi da documentario quanto esplicativi di ciò che sta accadendo. In questi termini, e per il suo marcato realismo, riesce a produrre un effetto spaventoso sullo spettatore più di qualsiasi horror, con cui condivide una rappresentazione della realtà totalmente spietata e priva di compromessi. Girato magistralmente e con una tecnica di montaggio fuori dal comune, Requiem for a dream è girato spesso e volentieri come sequenza di frammenti di scene, il che conferisce un senso di spiazzamento allo spettatore senza mai, peraltro, degenerare o abusare della tecnica stessa. In media, IMDB ha conteggiato ben 2000 tagli differenti in un girato medio di un’ora, quando normalmente ne conterrebbe al massimo 700.

    Storia del film

    Se è vero che l’intera storia si basa su un assunto credibile più che altro negli anni ’70 (la superficialità delle cure mediche ed il maltrattamento dei pazienti pare fossero comuni, all’epoca), il film riuscì a shockare anche in tempi moderni, soprattutto perchè non sono presenti indizi che riescano a far capire con certezza la sua esatta collocazione temporale. Il regista stesso, del resto, ha descritto Requiem for a dream come una storia a-temporale, incentrata sulla dipendenza in quanto tale, e sugli effetti in grado di produrre su quattro personaggi diversi: dipendenza da eroina, in apparenza, poi magistralmente estesa e messa a confronto con una qualsiasi altra subordinazione (sia essa teledipendenza, dipendenza dal fumo, mito della bellezza perduta, e – per estensione – ossessione per un sogno). Per Aronofsky può cambiare la causa, in sostanza, ma il concetto di fondo resta lo stesso, tanto da presentare le storie diverse di quattro personaggi – accomunati da un’ambizione che non realizzeranno mai – e parallelizzarle, orientandole improvvisamente (ed in modo shockante per lo spettatore) in una direzione totalmente annientante, nella quale non esiste possibilità di redenzione.

    E questo, si badi bene, anche a costo di generalizzare il concetto tanto da renderlo grottesco, in linea con il fatto che le pillole dimagranti assunte da Sara – in realtà amfetamine a sua insaputa – la rendono fragile e vulnerabile come i tre ragazzi. Al fine di garantire una massima immedesimazione dei personaggi, in effetti il regista impose a Leto ed alla Burstyn di evitare rapporti sessuali e di assumere zucchero per circa un mese, in modo da interpretare ottimamente la mentalità e l’atteggiamento di una vera vittima della dipendenza.

    A testimonianza ulteriore di questo feeling subdolo e non necessariamente legato al mondo della droga (vista come sostanza illecita da procurarsi per strada, quantomeno, e per via del fatto che viene proposto un accostamento significativo con la teledipendenza), la parola “eroina” non viene mai pronunciata nel film. Requiem for a dream non è necessariamente – o almeno, non soltanto – un film che racconta la degenerazione indotta dalla droga, bensì un lavoro molto più ad ampio raggio, diretto peraltro in maniera sublime tanto nelle sequenze più crude (soprattutto sul finale) quanto in quelle surreali (i personaggi televisivi che Sara adora le entrano in casa, e la deridono grottescamente).

    Per queste ragioni è probabilmente uno dei migliori film usciti nel periodo, da reperire senza esitazione ancora oggi.

    Requiem for a dream, dove vederlo?

    Il film è disponibile in streaming su Prime Video.

  • Noroi The Curse: il mockumentary paranormale di Shiraishi

    Noroi The Curse: il mockumentary paranormale di Shiraishi

    Masafumi Kobayashi, giornalista che si occupa di paranormale, scompare misteriosamente dopo l’incendio della sua casa, episodio che provoca la morte della moglie. L’uomo aveva appena realizzato un documentario che indagava su alcuni singolari fenomeni paranormali…

    In breve. Nonostante i presupposti non siano incoraggianti e la tagline di apertura – “Questo documentario è ritenuto troppo inquietante per una visione pubblica” – rischi di far sorridere il pubblico più smaliziato, “Noroi” sa ben raccontare una storia in stile falso-documentario, sia con grande consapevolezza dei mezzi che con buona scelta di intreccio, personaggi ed ambientazione. Una versione riveduta, arricchita e corretta di The Blair Witch Project, con numerosi pregi rispetto a questa citatissima (e sopravvalutata) pellicola. Un film avvolto da una spirale di sovrannaturale mai di bassa fattura, e dal taglio quasi “scientifico”: da non perdere.

    Kagutaba: a tool that is capable of causing disasters

    Noroi è un film ancora non disponibile sul mercato italiano, ma che si rivela piuttosto interessante ed originale, pur eccedendo in un unico difetto (l’eccessiva lunghezza: circa due ore): i suoi pregi lo rendono comunque consigliabile, specie se collocato all’interno di un genere che, ad essere onesti, troppo spesso si limita a fare rehash di luoghi comuni, storie e personaggi già visti in decine di altre salse. Del tutto privo delle caratteristiche che rendono detestabile il genere (vedi le riprese troppo traballanti e l’eccessiva essenzialità degli intrecci), Noroi merita una visione da parte del pubblico horror di ogni “ordine e grado”. Diversi sono i dettagli, infatti, che sono degni di essere raccontati: il rituale del demone Kagutaba, l’enigmatico comportamento del sensitivo freak, la comparsa di un dettaglio durante la seconda visione della videocassetta, dinamica che cheggia quasi il gioco di specchi dietro il quale si cela l’assassino di Profondo rosso. Il nastro del mockumentary, preannunciato come “troppo sbalorditivo per essere immaginato“, finisce poi per suggerire indirettamente la strategia del regista Shiraishi: puntare fin dai primi fotogrammi su ambiguità svelate progressivamente (a volte solo basandosi su suggestioni inquietanti) che dovrebbero far vedere – da un momento all’altro – qualcosa di orrorifico allo spettatore.

    E, di fatto, la scelta di mostrare quasi subito la maschera dagli occhi cavi del demone Kagutaba indica che non si tratta del solito gioco di accenni, suggestioni e rimandi mai esplicitamente mostrati: l’orrore è suggestivo, tangibile e concreto, per quanto suggerisca più malattie psichiche o mentali che vere e proprie entità maligne. Il vero protagonista della pellicola, ovvero l’occhio vigile e mal celatamente voyeristico della telecamera (vedi Peeping Tom o Marebito), cerca di filmare il non-filmabile, di indagare a fondo sui vari livelli di realtà per cercare di imprimere su nastro ciò che si nasconde sotto un ennesimo velo di Maya. Il tutto, come si conviene, tendendo progressivamente un filo della tensione, mantenuto piuttosto credibile fin dall’inizio, e schematizzando il film in micro-sequenze quasi a sè stanti, mediamente di cinque minuti ciascuna. Concentrandosi su vari aspetti del paranormale (ESP, telecinesi e via dicendo), e frammentando con cura le scene – che questa semplice tecnica fanno diventare una continua scoperta per lo spettatore – fanno sì che, pur inserendo topoi del terrore già usati in altre pellicole (le voci di bambini che piangono, la scomparsa della sensitiva e via dicendo) il film non risulti mai “già visto” o, peggio, malamente adattato. Tante sezioni, in definitiva, girate in modo amatoriale e con stili differenti, realizzando sostanzialmente un film vero e proprio che del mockumentary conserva più che altro la sola forma espressiva.

    La stessa definizione di shockumentary, di fatto, sembra in questa circostanza quasi castrante e limitativa, ed andrebbe utilizzata con le dovute riserve e specifiche del caso: Noroi conserva la struttura tipica di un horror paranormale, e non si perde nei dettagli che ipocritamente altri film promettono (senza mantenere) di mostrare. È quindi, in definitiva, il linguaggio accattivante e ben ritmato di “Noroi: The Curse“, a conti fatti, che risulta essere il suo principale punto di forza.