RIDERE_ (65 articoli)

Recensioni dei migliori film commedia usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Nonostante le apparenze e purché la nazione non lo sappia… All’onorevole piacciono le donne: il Fulci satirico anni 70

    Nonostante le apparenze e purché la nazione non lo sappia… All’onorevole piacciono le donne: il Fulci satirico anni 70

    Feroce commedia satirica del regista romano, che narra la storia di un politico italiano piuttosto famoso, vicinissimo alla presidenza della repubblica, follemente erotomane ma apparentemente irreprensibile. Chi vi ricorda? Sia chiaro che ogni riferimento è puramente casuale, come viene specificato poco dopo la comparsa del titolo chilometrico. Al di là di alcuni dettagli, qualcuno parlerebbe seriamente di un’incredibile coincidenza, o di una pazzesca profezia, su un certo andazzo della politica italiana odierna.

    In breve. Uno spaccato sarcastico del Parlamento all’italiana, visto dall’occhio del regista forse più anarchico del cinema di genere nostrano. Con le dovute proporzioni e precisazioni, è una versione grottesca e scollacciata  del celebre “Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto“, priva ovviamente di attori del calibro di Volontè. Il messaggio sociale è fin troppo chiaro, bisogna fare tabula rasa e rifondare la politica: non c’è la poetica sottile di Petri, ma colpisce nel modo giusto ugualmente, tanto che venne sequestrato per oscenità e censurato.

    Il Fulci più (anti)politico di sempre inserisce Lando Buzzanca come protagonista, e secondo alcuni vorrebbe riferirsi all’allora presidente Emilio Colombo, esponente della DC. Sceneggiato da Ottavio Jemma assieme al regista, narra la storia di tale Giacinto Puppis, un economista cresciuto con educazione rigidamente cattolica, apparentemente casto e religioso, erotomane incallito. Girando per le strade di Roma è attratto morbosamente dai fondoschiena femminili, vede donne nude in ogni dove, ha continui sogni di natura sessuale,  ed arriva a far fare una figuraccia alla nazione per via di un video in cui sono stati ripresi i suoi palpeggiamenti ai danni della presidente di uno stato estero.

    Puppis presto viene ricattato, e si scoprirà che è solamente un burattino: mentre il buon amico padre Luciòn cerca in ogni modo di farlo guarire dai suoi raptus erotici, il cardinale Maravidi spinge perchè diventi Presidente della Repubblica, e la chiesa possa così influenzarne l’operato. Per ritrovare se stesso il frate lo porta in convento, sotto le cure di un monaco tedesco e di alcune giovani suore, ma l’unico risultato sarà che, in una notte di passione, finirà a letto con quasi ognuna di loro. Imperdibili i siparietti del candidato rivale Torsello, le battute miratissime e fieramente anti-politiche, le spassose allucinazioni erotiche di Puppis (girate con stile quasi felliniano) e la chicca finale: il cardinale che parla in siciliano come se fosse “Il Padrino“, mentre i boss si rivolgono a lui come dei semplici picciotti.

    Forse il film calca troppo la mano sull’aspetto da puro b-movie, con tutte le esagerazioni del caso, ma complessivamente il messaggio sovversivo resta intatto. Un Fulci anarcoide, che si fida poco della politica e ancor meno del Vaticano, rappresentato come una forza collusa e tendente all’eversione per sua stessa natura. A fare scandalo non furono, in effetti, le scene erotiche accennate o le grazie della Antonelli in vista parziale, quanto l’idea che alcune rappresentazioni fossero destabilizzanti per l’immagine della DC dell’epoca (e, a quanto pare, vennero rimosse del tutto pur rimanendo nella sceneggiatura).

    Da vedere, anche solo per ridere di gusto e cogliere alcuni inquientanti parallelismi con la storia recente.

  • Il giorno della bestia: la satira inconfondibile di De La Iglesìa

    Il giorno della bestia: la satira inconfondibile di De La Iglesìa

    Padre Ángel Berriartúa, insegnante di teologia, scopre l’esistenza di un criptogramma all’interno dell’Apocalisse di Giovanni, relativo alla data esatta della fine del mondo (25 dicembre 1995); per entrare rapidamente in contatto con il Male, contatta il commesso di un negozio di dischi heavy metal ed un improbabile mago…

    In breve. L’originalità non manca e la regia è di gran classe, per una storia frammista di elementi satirici e (solo vagamente) horror. Piacerà a chi apprezza il regista, e le commistioni di generi: da riscoprire ancora oggi.

    Considerato uno dei migliori film di Álex de la Iglesia, El dia de la bestia (Il giorno della bestia, un titolo che volutamente evoca film sulla scia di The house of the devil, ma poi si rivela tutt’altro) è uscito in Italia con l’improbabile tagline “la prima commedia satanica”, una scelta probabilmente poco azzeccata che ha rischiato di metterne i ombra i meriti (almeno in parte contenutistici, ed in fatto di originalità) e di farlo passare per quello che non è (un b-movie come tanti).  Si racconta delle vicende, in chiave assurda e spesso visibilmente satirica, di un prete che cerca ad ogni costo (e goffamente) di fare cattive azioni al fine di entrare in contatto col maligno: ha infatti scoperto che l’Apocalisse è imminente. Nelle intenzioni del regista, “Il giorno della bestia” nasce dall’immagine di un uomo colto quanto semplice ed indifeso costretto, per necessità o vocazione, a compiere gesti orribili per redimersi, entrando a contatto con quel mondo che dal chiuso delle sue stanze in precedenza non poteva conoscere.

    La chiave di lettura del film – accenni di horror ed un registro quasi esclusivamente grottesco, a cominciare dai componenti della famiglia del commesso – è in qualche modo duplice: da un lato, la storia di eroi improbabili (il prete ed il commesso del negozio di dischi heavy metal, in primis) che viene sfruttata ad ogni occasione per svelare gli altarini (maghi truffatori e conferenzieri ciarlatani, in ottica scettico-satirica). Dall’altro, pero’, esiste una componente ambigua che spinge i protagonisti – oltre al pubblico stesso – a credere realmente alla storia della venuta dell’Anticristo sulla terra, e non alle allucinazioni di due personaggi sotto LSD (che sembrerebbe la spiegazione, se vogliamo, realistica della storia, di per sè piuttosto assurda). Andando alla ricerca nientemeno che dell’Anticristo sulla Terra, i nostri eroi – tra cui il mago truffaldino che decide di aggregarsi alla missione in un secondo momento – arriveranno a sgominare una banda di criminali che effettua spedizioni punitive per le strade di Madrid.

    Le intenzioni di de la Iglesia sono chiaramente satiriche, e non perde occasione per dimostrarlo – durante la ricerca dell’Anticristo, “il cielo che ti invia il segnale che stavi aspettando“, per il prete, è soltanto la pubblicità di una TV satellitare. Al tempo stesso il regista, assolutamente padrone dei propri mezzi e qui al suo secondo film, mostra una grande conoscenza del cinema horror e non perde occasione per citare cult di ogni tipo, sfruttando addirittura le dinamiche del genere satanico (The Omen) declinandolo in senso quasi scanzonato, a tratti, e lasciando un’ambiguità di fondo sul senso reale della storia e sul vero nemico che i protagonisti stanno combattendo. Il contesto finisce per prestarsi ad una esplicita riflessione contro i meccanismi cinici della TV pubblica, sempre pronta a prestare ascolto al sensazionalismo e riportando spesso e volentieri notizie tanto false quanto clamorose (in questo De La Iglesia appare quasi profetico rispetto a certa TV spazzatura in ambito pseudo-sovrannaturale che abbiamo conosciuto in questi anni anche in Italia).

    Non mancano dettagli spassosi come il primo incontro tra prete e metallaro alla ricerca delle tre band Napalm Dez, Iron Meiden (sic) e naturalmente Hace de Cè (AC/DC). Da riscoprire con una certa curiosità, per chi non l’avesse ancora fatto.

  • Uccelli d’Italia: quando gli Squallor girarono un film

    Uccelli d’Italia: quando gli Squallor girarono un film

    Uno dei due cult cinematografici degli Squallor: commedia ad episodi con assurdità demenziali all’ennesima potenza per un genere che, nel 1984, aveva ancora tanto da raccontare. La regia è di Ciro Ippolito, lo stesso che realizzò lo spin-off di fantascienza noto come Alien 2.

    Il trash è consapevole di se stesso: troviamo le scenette tipiche dell’italiano medio riportate in chiave umoristica e non-sense (ma anche, c’è da dire, con grande intelligenza e parsimonia). In questo film i quattro geniacci della musica italiana (Bigazzi, Pace, Savio e Cerruti), spesso in compagnia a bellissime attrici (Sabrina Siani, o la fulciana Cinzia de Ponti) prestano i propri volti a scene irriverenti, fuori dalle righe, inconcepibili da raccontare, quasi sempre legate al demenziale più cristallino oltre che infarcito di siparietti pazzeschi e, proprio per questo motivo, assolutamente spassosi.

    Tutto è demenziale in “Uccelli d’Italia“, e tutto è dotato di uno humor pazzesco e piuttosto inedito per l’epoca, a cominciare dal titolo che fa riferimento all’inno nazionale “Fratelli d’Italia” (ma che secondo alcuni sarebbe anche la parodia di “Uccelli di rovo“, una miniserie iconica di metà anni Ottanta diretta da Daryl Duke). Ma attenzione, questo non deve far pensare a quella comicità gratuita a cui potremmo essere abituati oggi (la stessa che Maccio Capatonda ha fatto varie volte oggetto di meta-umorismo), fatta di vuoti tormentoni dei quali ridere in modo fine a se stesso.

    Ippolito e gli Squallor aggrediscono i luoghi comuni dell’epoca, il perbenismo (ben prima che diventasse patrimonio culturale dei troll della politica e dei social) e – direi soprattutto – sfidano la censura con la propria irriverenza. Come fa ad esempio Daniele Pace quando pronuncia la parola “eiaculare” la bellezza di dieci volte di fila, perchè sì. Uno schiaffone alla cultura mediocre (e rigorosamente democristiana) dell’epoca che, di sicuro, nel suo piccolo non passò inosservata, e che fu in fondo la forma di ribellione insofferente per cui gli Squallor stessi nacquero, vissero e spirarono qualche anno dopo.

    Uccelli d’Italia, con la sua iconica capacità di dire tutto senza dire nulla, di esagerare senza andare mai al punto, di diventire senza raccontare quasi nulla, è altresì abile a costruire atmosfere seriose (molto spesso da telenovela anni 80, in cui il modello era naturalmente Uccelli di rovo), per poi smantellarle con la spontaneità delle barzellette di Pierino o, se preferite, con l’immediatezza di battute al fulmicotone che oggi passano relativamente indifferenti ma che, per l’epoca, furono avanti e anche di molto.

    Non bisogna dimenticare che dietro questo film vi è il lavoro artistico di Bigazzi, Savio, Cerruti e Pace, attivi per circa 40 anni in una band seminale che nel frattempo è diventata di culto, artefice di ciò che tanti altri gruppi successivi avrebbero banalizzato come “rock demenziale”, e che avrebbe ispirato orde di artisti estasiati da quegli ascolti – era meglio quando c’erano gli Squallor, in effetti. E sono giusto i non-sense esasperati degli artisti che crearono “38 luglio”, “Cornutone” e “Tutto il morto minuto per minuto”, diretti dal regista di Alien 2 – Sulla terra, a prendere quasi completamente la scena e ad occuparla con insensatezze che lasciano lo spettatore sbigottito, costretto a ridere. Immersi in una colonna sonora in parte degli stessi Squallor (ad esempio “A chi lo do’ stasera“, che venne reinterpretata con testo leggermente diverso da Nadia Cassini), in parte dei Village People – che conferiscono, questi ultimi, al film quell’atmosfera così ottantiana – non mancano tanti riferimenti a tormentoni e serie TV che ancora oggi fanno il loro effetto: su tutti l’intermezzo fisso tra un episodio e l’altro, che da “Italia Unoooo” diventa inesorabilmente “Italia culoooo“. Senza dimenticare che “Anche i ricchioni piangono” (anche qui, se parlassimo di politicamente corretto non ne usciremmo più) e soprattutto <<“Osvaldo non sarà più tuo”, un dramma tra due donne ed un mezzo culo in 185 puntate>>.

    Particolarmente riusciti rimangono l’episodio iniziale, con il prete che illustra chiaramente le proprie intenzioni nei confronti dell’amante clandestina, la storia di Bigazzi – scrittore in crisi creativa – tormentato da moglie e figli che decide di risolvere la questione con una bomba a mano (!) e, forse soprattutto, una coppia che rientra a casa, lui è appena tornato da un viaggio, lei chiede insistentemente “Cosa mi hai portato da Parigi?“, e dopo uno strip-tease totalmente inutile ai fini della storia l’uomo tira fuori dalla giacca … una provola (!). Mini-film a sè stanti, quindi, perennemente in bilico da demenziale e comicità assurda, con alcune volutissime sbavature come il momento in cui Pace (che interpreta un morto di recente) scoppia dal ridere per via dei riferimenti di Cerruti, vestito da vedova, al capitone ed al celebre “e mo chi mi chiava ammè“.

    Un film sincero e spassoso, da tempo uscito in DVD assieme al degno compagno “Arrapaho“, che si lascia guardare con piacere anche oggi, nonostante alcuni momenti alquanto spiazzanti, ma solo perchè i riferimenti non sempre si riescono ad intuire (come avviene molto facilmente, invece, con la parodia dei Visitors, altro cult d’epoca). Probabilmente sulla scia di “Uccelli d’Italia” con qualche mezzo in più sarebbe potuta nascere una sorta di Troma all’italiana (il feeling c’è tutto); del resto sappiamo tutti come venga visto un certo cinema dalle nostre parti, per cui probabilmente va benissimo già quello che abbiamo.

  • The Rocky Horror Picture Show: guida pratica per chi non ne sa ancora nulla

    The Rocky Horror Picture Show: guida pratica per chi non ne sa ancora nulla

    Brad Majors confessa il suo amore a Janet Weiss, e poco dopo partono per far visita al Dr. Everett Scott, il loro ex-insegnante di scienze; un temporale improvviso ed uno pneumatico forato li costringe a dirigersi verso un vecchio castello…

    In breve. Musical cinematografico divertente, splendidamente diretto ed interpretato, ovviamente fuori dalle righe; concepito come gigantesco tributo al mondo dei b-movie, mai passato di moda fino ad oggi.

    I’ve done a lot, God knows I’ve tried
    To find the truth, I’ve even lied
    But all I know is down inside I’m bleeding.
    And Super Heroes come to feast
    To taste the flesh not yet deceased
    And all I know is still the beast is feeding.
    And crawling on the planet’s face
    Some insects called the human race
    Lost in time, lost in space… And meaning

    Diretto da Jim Sharman due anni dopo il debutto del musical, si tratta di uno dei più popolari cult del genere, tratto da una sceneggiatura del regista stesso e di Richard O’ Brian (che recita nel panni del maggiordomo-alieno Riff Raff), capace da un lato di tributare il mondo dei b-movie e, dall’altro, di presentarsi in maniera autenticamente trasgressiva, divertente e fuori dagli schemi, quantomeno per l’epoca in cui uscì.

    L’intreccio del Rocky Horror Picture Show è noto: una coppia della provincia americana, casta e inibita, si imbatte casualmente nello spettrale castello del bizzarro Dr. Frank-N-Furter, carismatico scienziato in reggicalze che vuole costruirsi un amante perfetto artificiale. Al di là di questo (e dei suoi successivi ed imprevedibili sviluppi) è interessante analizzare nel film la presenza di due componenti: quella puramente ludico-sessuale che, naturalmente, trasuda da ogni poro, alternando momenti spassosi ad altri, come la prima comparsa di Frank-n-Furter, che sono rimasti scolpiti nell’immaginario collettivo, ed una seconda più seria (mai troppo, se non nel tragico e secondo alcuni enigmatico finale), che si ricollega in più parti ad una delle opere d’arte più celebri degli anni ’30 in America.

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    Mi riferisco naturalmente ad American Gothic“, il dipinto del 1930 realizzato dall’artista statunitense Grant Wood, che viene periodicamente parodizzato all’interno del film, e questo fin dal primo istante in cui compare la coppia Richard O’Brien / Patricia Quinn.

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    Poco prima del Time Warp, la danza rock’n roll che simboleggia il film più di qualsiasi altro brano, alle spalle di Riff Raff è possibile vedere il dipinto in questione.

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    Con nomi del calibro di Susan Sarandon (che pare non accettò di recitare nuda, come le era stato richiesto, durante l’autoesplicativa Touch me, Touch me), Barry Bostwick, Tim Curry (che vestirà 15 anni dopo i panni dell’inquietante Pennywise the Dancing Clown, nella trasposizione cinematografica del romanzo IT di Stephen King), Patricia Quinn (comparsa anche nel recente Le streghe di Salem sempre di Rob Zombi) e gli altri protagonisti del cast del Royal Court Theatre, il Rocky Horror Picture Show è diventato uno dei midnight movie per eccellenza, amato incondizionatamente da generazioni di fan. Guardarlo ad Halloween, ad esempio, è un rituale impossibile da mancare per qualsiasi appassionato, e la fama del Rocky Horror Picture Show ha avuto continue conferme, tanto da essere riproposto più volte al cinema, in TV ed ovviamente nella movimentatissima versione teatrale The Rocky Horror Show. Il Museum Lichtspiele (Monaco di Baviera) ha riproposto il film settimanalmente dal 1977, offrendo al pubblico uno speciale RHPS-Kit per consentire una opportuna partecipazione del pubblico: quest’ultimo conteneva un biscotto, del riso, un fischietto, una candela ed ovviamente le istruzioni cartacee per eseguire il Time Warp.

    Nell’immaginario di Sharman, bravo a dipingere magistralmente la storia e ad alimentarla in un turbine di riferimenti culturali americani – a cominciare dal celebre American Gothic – a finire alle figure archetipiche della sci-fiction classica, dai mostri ai vampiri passando per scienziati nazisti in incognito ed alieni armati di raggi laser, espressione (gli ultimi due in particolare) di una società sempre più repressiva nei confronti della libertà sessuale e della disinibizione. Il brano simbolo dell’opera rimane probabilmente Don’t dream it, be it, un monito ai personaggi (ed al pubblico che assiste, ovviamente) a liberare il proprio io e a non limitarsi di sognare la propria liberazione sessuale, ma anche viverla nel modo più appagante ed incurante del perbenismo dominante: simbolo di questa trasformazione sarà proprio la trasformazione di Brad e Janet, iniziati entrambi al sesso dal conturbante Frank-N-Furter, creatore di un novello frankstein dal fisico scultoreo, e che intende utilizzare come giocattolo sessuale. Sembra poca cosa se raccontata a parole, ma la carica erotica e spassosa del film resta intatta dopo tanti anni, e sembra quasi voler omaggiare la celebre massima di Woody Allen “il sesso è stata la cosa più divertente che ho fatto senza ridere“.

    Probabilmente è questa una delle chiavi di lettura più importanti del Rocky Horror cinematografico, capace di coniugare ironia e serietà senza mai scadere nel serioso o, peggio, nel gratuito: questo, al di là degli imperdibili giochi pirotecnici sulla scena, degli arrangiamenti scenici magistrali, della regia perfetta e dei continui doppi sensi di cui è pervaso il film, molti dei quali smarriti nell’approssimativa traduzione italiana: tanto per fare un esempio, Riff Raff accoglie i due protagonisti alludendo all’essere “wet” – tradotto un po’ alla buona come fradicia a causa della pioggia. L’allusione è (era) piuttosto esplicita, e la donna mostra di averla colta, anche con un certo risentimento. Ovviamente non esiste una versione doppiata del Rocky Horror (la versione italiana è sottotitolata), e verrebbe da pensare che sia un piccolo miracolo che a nessuno sia mai saltato in mente di farne una.

    Numerose le ulteriori curiosità su questo film: la locandina dell’epoca riporta un riferimento parodico al film Lo squalo (Jaws, cioè fauci, letteralmente), e recita: “The Rocky Horror Picture Show – a different set of jaws” (più o meno “qualcosa di diverso da Lo squalo“, con riferimento ironico ad uno dei film più in voga all’epoca). Al di là degli innumerevoli e raffinati riferimenti di genere, il Rocky Horror cinematografico è molto fedele allo spirito da horror puro, con i suoi riferimenti alla cinematografia gotica: le cronache dell’epoca riportano che in molte scene l’espediente utilizzato era quello di non dire agli attori cosa sarebbe successo in seguito, al fine di accentuare la loro reazione spontanea. Ad esempio, pare che la scena della cena con “sorpresa” finale sotto il tavolo (una scena che Rob Zombi citerà in chiave più seria nel suo recente 31) gli attori che interpretano i due fidanzati non fossero a conoscenza di quello che li aspettava, per cui la loro reazione sarebbe autentica.

     

    Come ogni cult che si rispetti, dal film è stato tratto anche un poco noto videogame – oggi retrogame – per Apple II, Amstrad CPC, Commodore 64/128 e ZX Spectrum – prodotto dalla CRL Group, defunta azienda inglese di software che produsse molti altri giochi a tema horror (fonte delle immagini: mobygames.com).

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    Nel finale, inoltre, non appena i due fratelli alieni svelano la propria vera identità, l’opera viene riproposta in versione futuristica, dove il forcone (che simboleggia l’essenza del redneck americano e, per estensione, del bigottismo provinciale che si oppone ferocemente alla “decadence” della trasgressione) diventa un laser letale, utilizzato per eliminare sia il dottore che la sua muscolosa bionda creatura Rocky. Il finale del Rocky Horror denota una componente tragica (e per certi versi ermetica), che sembra evocare la caducità dell’esistenza solo in favore di rafforzare il senso di edonismo ed gusto per la sana trasgressione che pervade l’opera.

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    In definitiva, l’eredita di questo musicalcult anni settanta è arrivata, a quanto pare, intatta fino ad oggi, per costituire uno dei più celebri musical al mondo, oltre che – naturalmente – uno dei più longevi.

    (informazioni sul film tratte da imdb.com, screenshot tratti da flickr.com/photos/seeing_i)

  • Fantozzi: un esordio col botto, quasi 50 anni dopo

    Fantozzi: un esordio col botto, quasi 50 anni dopo

    La moglie del ragionier Ugo Fantozzi non ha notizie del consorte da diciotto giorni: si scopre che è stato murato vivo all’interno del proprio ufficio.

    In breve. Il capostipite di una saga che ha fatto la storia del genere: sfruttando uno stile parodistico e grottesco, che deve moltissimo allo slapstick ed al paradosso, il romanzo di Villaggio diventa un film semplicemente leggendario.

    Il mega-direttore galattico. Le Allucinazioni Mistiche. La mega ditta dal nome impronunciabile, ItalPetrolCementThermoTextilPharmMetalChemical. La mitica partita a calcetto Scapoli vs. Ammogliati, in un campo di calcio pieno di dossi e pozzanghere. Le vacanze a Courmayeur con l’amore impossibile, la signorina Silvani. E poi la Contessina Alfonsina Serbelloni Mazzanti Viendalmare, il ragionier Filini, il geometra Calboni.

    Personaggi e tormentoni che hanno costruito un immaginario che nasce, letteralmente, in questo film – ma che per la verità Villaggio aveva già formalizzato in un triplice romanzo. Un successo straordinario, già all’epoca, rimasto impresso nella coscienza (non solo linguistica) di moltissimi italiani: fantozziano è diventato ufficialmente un aggettivo, per intenderci. Fantozzi esce nelle sale il 27 marzo 1975 e da allora diventa un cult assoluto, anche grazie ai numerosi passaggi nelle TV commerciali negli anni successivi.

    Il taglio registico di Salce è molto influenzato dal personaggio del libro, che Villaggio ha interpretato per molti anni – quale prototipo di dipendente umile, deriso dai superiori e dai colleghi, impacciato con le donne ed assegnatario delle peggiori umilazioni. Come se non bastasse, Fantozzi in questo film diventa pure comunista, conoscendo l’incubo del mobbing (in un periodo in cui, probabilmente, nessuno l’avrebbe chiamato così) e finendo per incontrare il Mega-Direttore in persona – con la sua poltrona in pelle umana e la metafora forse più bella di tutto il film: un vero e proprio acquario, nel quale i dipendenti più meritevoli hanno il privilegio di nuotare liberamente.

    Se molte delle trovate di questi (ma anche dei successivi) film di Fantozzi sono surreali, lo si deve alle scelte anarchiche di Villaggio e del regista, che non perdono occasione per proporre al pubblico i classici slapstick del cinema muto (cadute rovinose, soprattutto), ma anche – per non dire soprattutto, se vediamo il film da adulti – dialoghi leggendari che il pubblico ha assimilato e imparato a memoria negli anni, neanche si trattasse di un classico della letteratura in chiave pop. Perchè Fantozzi, soprattutto qui (un po’ meno nei seguiti, progressivamente meno innovativi) inventa un nuovo tipo di comicità: fisica o corporale, certo, sicuramente efficace e debitrice della satira graffiante e del grottesco puri, il che per molti verso potrebbe richiamare quello (più esasperato e colto, se vogliamo) che proponevano i Monty Python (il parallelismo potrebbe avere senso con Il senso della vita, ad esempio, che uscì quasi dieci anni dopo). Se le disavventure di Ugo Fantozzi fanno già ridere di per sè, la sua storia è tragica: è la storia che fa parte del vissuto ed in cui è possibile quasi sempre identificarsi, tra le frenesie psicotiche della vita di ogni giorno (Fantozzi che prende l’autobus al volo sulla Casilina pur di timbrare in orario), i compromessi dettati dal conformismo e dalla convenzione, il grottesco instillato da personaggi che fanno ridere, ma anche commuovere (Fantozzi che prende le difese della figlia, ferocemente derisa dai colleghi, per poi esprimere loro “i più servili auguri” di buon anno).

    A quel punto potremmo addirittura scomodare Arthur Schopenhauer, nel descrivere un film che nei suoi frammenti è fortemente comico, ma nel suo complesso è un vero e proprio dramma: La vita d’ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia.

    Allora prenderò l’autobus al volo!
    No Ugo, l’autobus al volo no! No Papà!
    Sì, saltando dal terrazzino guadagnerò almeno 2 minuti!
    No Ugo non l’hai mai fatto, non hai il fisico adatto!
    Non l’ho mai fatto, ma l’ho sempre sognato!

    Incluso tra i cento film da salvare nel 2008, fu distribuito dalla Cineriz in doppio cut: uno di 103 minuti, e l’altro di 98. Se non l’avete mai visto o non lo ricordate troppo, è il caso di tornare sul pianeta Terra e provvedere all’istante.