Salvatore

  • Francesca: il thriller argentiano di  Luciano Onetti

    Francesca: il thriller argentiano di Luciano Onetti

    Un serial killer si aggira per la città prendendosi gioco della polizia, disseminando indizi relativi alla Divina Commedia di Dante Alighieri. Il tutto sembra ricollegarsi ad un caso irrisolto di quindici anni prima: la giovane figlia di un noto drammaturgo che scompare nel nulla.

    In breve. Un giallo anni 70 fuori tempo massimo (il film è del 2015), senza che ciò risulti stucchevole nè narcisistico. Archetipizzato su un modello di successo del passato (tra i film più noti c’è Profondo rosso), è tutt’altro che un mero esercizio di stile; al contrario, risulta accattivante per certe scelte fuori canone, sempre spiazzanti in positivo. Il retrò non disturba neanche il più accanito modernista: una vera e propria gemma del genere, per quanto destinata quasi esclusivamente a baviani o argentiani DOC. Da riscoprire.

    Scritto e diretto da Luciano Onetti e in collaborazione con Nicolas Onetti (nei titoli di testi gli Onetti abbondano, ed è facile perdere il conto), Francesca è un thriller appartenente alla corrente del revival anni 70, in particolare il giallo-thriller archetipizzato da Tenebre, senza dimenticare la tradizione del genere che risale, per dovere di cronaca, a quasi venti anni prima, e vede come primo antesignano Sei donne per l’assassino di Mario Bava.

    Di recente esperimenti analoghi sono stati realizzati, per intenderci, da film come Amer opppure (almeno in parte) The house of the devil: girati come si girava negli anni settanta, riproponendo visionarietà, personaggi, situazioni e stilemi tipici del genere – il più banale dei quali, presente in Francesca, è la onnipresente bottiglia di J&B, autentico sponsor non ufficiale dei film d’epoca.

    Sorprende – in certa misura – come un film del genere sia stato poco considerato dalla critica e dal pubblico: Davinotti gli assegna 2 stelle su 5, IMDB non arriva nemmeno alla sufficenza (poco meno di 6, al momento in cui scrivo), in tanti hanno un po’ snobbato la sua uscita (il film è disponibile su Prime Video, per la cronaca). Certo è che Francesca assume un ruolo tanto preciso da assurgere a genere a sè stante, tanto è significativo, coinvolgente ed impregnato di cinema di vecchia scuola, senza risultare troppo derivativo ed introducendo elementi di originalità non da poco. Onetti ha stile ma possiede anche quella personalità registica che gli consente, a ben vedere, di produrre un film del tutto autonomo, che sembra quasi un inedito del periodo riesumato per l’occasione. Il che non potrà che provocare il tripudio degli amanti di Dario Argento e Mario Bava, per quanto la perplessità lecita di questi revival afferisca al perchè sia stato fatto così e non, ad esempio, ambientato in tempi moderni (risposte brevi che mi viene in mente: perchè gli eccessi tecnologici di oggi risulterebbero banalizzanti nel risolvere certe situazioni, e perchè l’immaginario anni 70 resta inarrivabile).

    Sono trascorsi quindici anni dalla scomparsa di Francesca, figlia di un noto drammaturgo italiano: Vittorio Visconti, ridotto su una sedia a rotelle a causa dell’aggressione che ha portato al dramma familiare in questione. Nel frattempo, la moglie è caduta in depressione per la perdita dell’amata ragazza, e non sembra volersi più muovere dal letto. Un serial killer agisce per la città bersagliando varie vittime e mostrando un singolare filo conduttore negli omicidi: uccide quasi sempre con un punteruolo e poi, come firma del delitto (come tradizione pagana è solita raccontare) pone due monete sugli occhi della vittima. Ben presto la polizia scoprirà un legame con la storia misteriosa di cui sopra, svelando una verità sorprendente. Una verità conclusiva che possiede come autentica ispirazione – e si badi allo spoiler ineluttabile, per una volta – più di qualcosa della filosofia di fondo di film poco citati in questo ambito, e che a mio avviso restano primari: parlo di Vestito per uccidere e di Sleepaway Camp, anche per via della sessualità repressa di cui la killer è evidentemente imbevuto.

    Non che il film sia un esercizio di stile da scuola del cinema, peraltro: Francesca propone qualche variazione sul tema considerevole, ad esempio l’identità del killer – che sembra banale, ma in realtà non lo è; il doppio finale alla Dario Argento (anche questa volta c’è di mezzo l’amore verso i figli spinto all’estremo), l’omicidio a sorpresa dopo i titoli di coda, il che vìola la regola generale che il climax di questi film debba essere continuo, o che almeno il finale sia tranquillizzante o stabilizzante. Di fatto, anche quell’inserto post titoli di coda da alcuni criticato, è meno gratuito di quello che potrebbe sembrare, dato che predilige la continuità del Male su quella narrativa, un po’ sulla falsariga del primo Halloween di John Carpenter.

    Ed è proprio a certi vecchi, epici ed immarcescibili archetipi di thriller all’italiana e non solo (citiamo a campione, non potendo fare altrimenti: Profondo rosso, Tenebre, Shock, A Venezia un dicembre rosso shocking, Chi l’ha vista morire); modelli assimilati, visti, annotati e rielaborati dalla regia, a livello sia narrativo che di stile visuale. Ed il risultato, per il suo sotto-genere, rasenta il capolavoro. Non mancano nemmeno le musiche alla Goblin, composte  dal regista stesso in totale mood carpenteriano (regia e musiche affidati alla stessa persona). Non mancano poi i traumi infantili irrisolti, i personaggi dal passato non raccontabile, la presenza del personaggio poliziesco che viene un po’ per volta ridimensionato, sopraffatto dalla banalità del male e, anche qui, contravvenendo alla regola non scritta per cui, in questi film, anche se il bene non vince sempre, quantomeno alla fine spiega come sono andate le cose. In Francesca non esiste alcun finale falsamente consolatorio, e al contrario si rincorre un effetto di shock sullo spettatore che esibisce un feroce irrazionalismo.

    La regia di Onetti è infaticabilmente settantiana, quasi da sembrare ossessivo-compulsiva nel senso buono del termine, tanto è ricca di allusioni allucinatorie, primi piani su guanti, occhi, mani, pori della pelle, attizzatoi, magnetofoni e pianoforti: il regista cura la direzione della fotografia ed è pesantemente influenzato dall’estetica argentiana esaltata da Profondo rosso, primariamente. Il vero difetto di Francesca, a ben vedere, potrebbe forse essere ricondotto ad una eccessiva referenzialità, per quanto la presenza di elementi narrativi originali, fuori canone anche per l’epoca, eviti almeno in parte accuse di questo tipo. Per convincersene basterebbe  pensare al serial killer dall’identità sessualmente ambigua, che si vede quasi da subito chiaramente (e che poi non è chi sembra), che si ispira all’Inferno dantesco (il canto terzo, per la precisione: quello che narra delle porte dell’inferno), possiede un passato oscuro ed esprime una marcata sessualità repressa. Senza contare la maestria registica, al limite del talentuoso, con cui i suoi delitti sono mostrati, con qualche eccesso violento e insistito ma sempre con un sostanziale equilibrio. Oggetti di casa quali l’attizzatoio ed il ferro da stiro diventano feroci armi del delitto, in una spaventosa rilettura d’epoca dai colori psichedelici, tanto accesi da sembrare incandescenti.

    Mamma, ho voglia di giocare con te. Mamma, ho voglia di giocare con te. Mamma, ho voglia di giocare con te…

    In Francesca il flusso di coscienza guida una sceneggiatura dai tratti chiari e sempre distinguibili, che non si fa fatica a seguire e che raccontano di una killer, almeno in apparenza, dall’aria avvenente, di cui intravediamo anche le fantasie sessuali e che sembra essere l’incarnazione sadica di una ragazzina scomparsa: ragazzina che non esita, nella prima sequenza, a martoriare la carcassa di un uccellino, per poi trapassare – in una traumatizzante sequenza iniziale – l’occhio del fratellino ancora in fasce. L’occhio sarà anche, in successive sequenze del film, la parafilia primaria o ossessione prediletta del killer, e rappresenta molto più di quanto una visione superficiale possa suggerire.

    La killer in cappotto rosso, gonna nera e guanti in pelle sembra essere guidata da intenti moralistici, ed in questo potrebbe ricordare l’archetipo argentiano ben noto che poi, a ben vedere, quasi mai era ciò che l’apparenza poteva suggerire. In questo caso, per inciso, non si fa eccezione: il finale di Francesca sorprende quanto i migliori lavori argentiani, sia per come viene costruito e fuorvìa anche lo spettatore con più esperienza, sia per la violazione di una ulteriore convenzionale regola non scritta: l’ultimo omicidio e rivelazione avviene quando l’ispettore chiede spiegazioni, ed è la narrazione a rendere esplicito cosa sia realmente successo. Glii echi familiari perversi dovuti ad un’educazione repressiva sono più che evidenti, in un vero e proprio rehash della narrazione che ha reso Profondo rosso famoso in tutto il mondo, film da cui si ereditano le parafilie, le ossessioni e le immagini in primo piano: quella di un bambolotto prima impiccato a un albero e poi cullato dentro a una carrozzina, a testimoniare la natura sadica di una piccola killer fin dall’età adolescenziale.

    Come nota finale, il film è una produzione italo-argentina recitata in italiano, per cui non è stato proposto un doppiaggio: gli attori sono caratterizzati da una curiosa inflessione italo-argentina.

  • Sola in quella casa: il film di Takács omaggia il genere thriller

    Sola in quella casa: il film di Takács omaggia il genere thriller

    Virginia, giovane appassionata di letteratura horror, lavora in una libreria e rimane letteralmente stregata dai romanzi del misterioso Malcolm Brand, tanto da iniziare a vedere i protagonisti delle sue storie nella vita di ogni giorno…

    In breve. Discreto b-movie senza pretese, piuttosto equilibrato e ben diretto, anche con una storia piuttosto originale. Da riscoprire ancora oggi.

    Sola in quella casa (traduzione arbitraria dell’originale I, madman, e che probabilmente strizzava l’occhio ai titoli gloriosi degli anni ’70) si presenta come un lavoro decisamente originale: la storia che vediamo all’inizio coincide con la narrazione del racconto che sta leggendo la protagonista, appassionata di romanzi horror – oltre che simbolico fan in cui buona parte degli spettatori potranno immedesimarsi. Il film presenta numerosi cambi di punti di vista – tra la Virginia nella vita reale e quella che si immedesima con la protagonista della storia – con la presenza di sequenze piuttosto dirette ed evocative, senza sconfinare nel visionario puro (per una volta questo sembra essere un pregio: gioca a favore della comprensibilità della storia).

    Se le sue ripetute letture evocano a più navigati suggestioni modello Ai confini della realtà con il ben noto (e genuino) approccio al genere, tra porte che si chiudono all’improvviso, il leitmotiv del pianista dalla finestra ed i temporali che iniziano puntualmente quando Virginia inizia a leggere, c’è da sottolineare che la creatura di Tibor Takàcs – regista tra l’altro del piccolo cult Non aprite quel cancello, altro titolo da non giudicare male in base all’apparenza – è un rispettabile saggio dell’orrore, non completamente esente da difetti, ma piuttosto compatto come forma e stile.

    La storia romantica del mad doctor Malcolm Brand, disposto a tutto per amore (ivi compresa la mutilazione di varie vittime, i cui pezzi sono usati per modificare il proprio aspetto – o quantomeno illudersi di farlo – per piacere all’amata), e l’archetipo di Virginia come simbolo dell’appassionato di horror rendono, già da soli, grande giustizia alla pellicola, penalizzato fortemente solo da un doppiaggio italiano probabilmente non troppo espressivo. Al tempo stesso, non si tratta di un film gotico nel senso stretto del termine (come potrebbe esserlo L’arcano incantatore oppure Il demonio, per intenderci), ma di un buon ibrido in cui parte del feeling deriva sia dai film di serial killer (Vestito per uccidere, Henry – Pioggia di sangue) che dagli horror più intrisi di introspezione, psicosi e ossessioni (Possession).

    Mentre legge, Virginia è estremamente coinvolta dal racconto, tanto da sospettare che sia la narrazione a guidare la realtà; una realtà che vedere una serie di omicidi inspiegabili quanto collegati al libro di Brand. Il richiamo a Il seme della follia (seppure in una forma parziale, e senza scomodare paragoni fuori luogo), rimane d’obbligo, tanto che sembra lecito sospettare che il maestro Carpenter abbia potuto farsi influenzare da questo film per la stesura del suo celebre (e forse più lovecraftiano) film girato ad oggi. Inutile sottolineare che la dimensione onirica che vive la protagonista non sarà minimamente creduta dal mondo reale, evidenziando ancora di più la dimensione tragica di chi vive situazioni di isolamento o emarginazione.

    La storia sceneggata da David Chaskin rimane ad un livello ordinario, accessibile anche ai non patiti del genere, ed è pesantemente influenzata dagli horror classici, sempre intelligentemente trasposti nei libri letti dalla protagonista senza, per questo, perderne efficacia narrativa e potenza orrorifica (si veda, ad esempio, la terrificante sequenza dell’ingresso del dottore in casa della vittima, prima narcotizzata e successivamente decapitata; oppure l’omicidio visto dalla finestra modello La finestra sul cortile, per poi mostrarsi con le sole ombre dei personaggi).

    Sul finale Takács si prodiga in un doppio finale che sembra quasi richiesto a gran voce dagli spettatori; al tempo stesso, conclude in modo ordinario la vicenda e con quel tocco di fantasy che si era accennato all’inizio, senza scomodare sociologia pessimista, finali amari o indagini sulla natura del male (come forse era lecito aspettarsi). Ne rimane pertanto un buon horror ottantiano, e questo è quanto.

  • Il ritorno dei morti viventi: uno dei film di zombi che non puoi non aver visto

    Il ritorno dei morti viventi: uno dei film di zombi che non puoi non aver visto

    Due dipendenti dell’azienda Undeea (sic) aprono inavvertitamente dei contenuti ripieni di gas tossico, che possiede la singolare capacità di rianimare i cadaveri. Gli zombi partono all’assalto del pianeta, apparentemente inarrestabili…

    In due parole. O’ Bannon, indiscusso genio della sci-fi e dell’orrore (suoi lo script di Alien e buona parte di Dark Star di Carpenter) firma il suo esordio alla regia mostrando zombi quasi cartooneschi, realizzando un film praticamente perfetto e puramente ottantiano nello spirito. C’è spazio per l’intrattenimento puro, per una colonna sonora tra le migliori dell’epoca e per un paio di scene super-cult: da non perdere!

    Leggere l’intervista al regista, l’ultima concessa a Nocturno prima che morisse nel dicembre 2009 affetto da un male incurabile, fa capire molto dello spessore e dello spirito anticonformista del regista-attore-sceneggiatore americano. Se egli deve molto della sua fama alla stesura e all’ideazione di Alien di Ridley Scott, paradossalmente rimase molto distante dal mondo hollywoodiano e, probabilmente, anche dallo stesso scenario del cinema underground cui naturalmente apparteneva. Esordio scoppiettante il suo, dato che tirò fuori assieme al coinquilino John Carpenter l’idea di un “2001 Odissea nello spazio” in chiave demenziale, producendo il piccolo capolavoro low-budget Dark Star. Qui siamo al suo esordio registico: l’influenza di Romero, all’apice dello splendore in quegli anni con il lugubre Il giorno degli zombi, e qualche anno prima Zombi, si sente parecchio. Ma Dan non si limita a clonare le idee dei film famosi come fecero in molto: piuttosto reinventa la mitologia dei morti viventi aggiungendovi dettagli originali e momenti di curiosa demenzialità, come avrebbe fatto, in modo decisamente più esasperato, Peter Jackson.

    La storia, di per sè, è forse il dettaglio meno interessante: un ragazzo viene assunto in una ditta che si occupa di procurare cadaveri alle facoltà di medicina, e casualmente entra in contatto con un gas tossico che inizia a risvegliare i cadaveri. Nel frattempo gli amici del giovane (per la maggioranza punk e metallari, per inciso) vanno a prenderlo sul posto, avvicinandosi incautamente al cimitero lì vicino. I morti viventi di O’ Bannon sono maledettamente veloci, corrono come ossessi e sono indistruttibili: non serve sparargli in testa, non serve farli a pezzi, non serve neanche bruciarli perchè, come espresso malamente in Zombi 3, ciò contribusce solo a contaminare l’aria ulteriormente.

    Dinamica da puro action movie quella de “Il ritorno dei morti viventi”: e vari dettagli explotation come gli occhi nelle orbite che si muovono ancora, qualche momento gore ben dosato, alcuni scheletri degni de “L’armata delle tenebre” e (non si dica che guasti) la bella Linnea “Trash” Quigley, punk dai capelli rossi che se ne va in giro natiche al vento dopo un improbabile strip integrale nel cimitero, sono tutti elementi che fanno di questo film un cult da non perdere per nessun motivo. O’ Bannon mostra di saperci fare con la macchina da presa, e realizza uno dei migliori zombi-movie mai visti sullo schermo, privati della componente più deprimente e con un finale apertamente nichilista: probabilmente come solo un regista davvero “rock’n roll” come lui avrebbe saputo fare. Vale inoltre la pena di ricordare che la colonna sonora, oltre a riportare un theme davvero indimenticabile, è di matrice punk-hardcore con alcuni momenti melodici che contrastano con la drammaticità delle scene (quasi sempre riprese da lontano, come ricordava lo stesso regista), capaci di creare un contrasto davvero notevole e a tratti spassoso.

    R.I.P., Dan!

     

  • …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà: l’horror come pura idea

    …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà: l’horror come pura idea

    Nostalgica espressione di un cinema che non esiste quasi più: puo’ piacere  o meno, fare ribrezzo o sorridere, ma rimane l’idea forse più incontaminata della poetica lacerante di Fulci.

    In breve: una delle opere massime del regista romano, summa perfetta di uno stile fatto di eccessi, violenza estrema e crudele ma anche di poetica profonda ed in parte toccante. Da sempre nella mia top-ten per quanto riguarda lo splatter; leggermente sconnesso in alcuni tratti (specie se lo si vede una sola volta), delinea la poetica del regista romano e vale la pena vederlo anche solo per il mitico finale. Grandissimo lavoro, in questa sede, da parte di Giannetto De Rossi in fatto di effetti speciali.

    Raccontare l’Aldilà è impossibile senza descriverne almeno per grandi linee la trama: ed è quello che farò qui, considerando che la sua bellezza prescinde, per una volta, dal non “saperne troppo”, e mi pare doveroso specificare che dirò parecchio sulla storia bruciando così vari dettagli. Per chi non ha visto uno dei pilastri dell’horror italiano anni 80, mi sembrerebbe più opportuno provare a procurarsi il film prima, e leggere solo successivamente la mia recensione.

    …l’orrore si accetta in quanto idea pura. La ragione non c’è… c’è l’idea pura” (Lucio Fulci su “Paura nella città dei morti viventi”, citato in Paolo Albiero, Giacomo Cacciatore, Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci. Roma, Un mondo a parte, 2004)

    All’inizio, in alcuni suggestivi fotogrammi color seppia, vediamo un gruppo di persone – nell’anno 1927 – entrare nella stanza di hotel di quello che si scoprirà essere un pittore (Zweick): il loro scopo è quello di crocefiggerlo al muro, non prima di averlo sadicamente torturato a colpi di catene. L’artista è sospettato di stregoneria, e segue così la triste sorte della “maciara” de “Non si sevizia un paperino”: un tema, quello dell’intolleranza, evidentemente piuttosto caro al regista romano. Alcuni anni dopo vediamo Liza (la MacColl, attrice cult dei film di Fulci) eredita in Lousiana proprio quel vecchio albergo, nel quale si manifestano fin dal restauro alcuni strani incidenti: un operaio cade dall’impalcatura per colpa di un’improvvisa presenza oscura, mentre ad un idraulico perde un occhio per via di una “cosa” fuoriuscita da una tubatura. Inutile forse sottolineare che Fulci, già da queste prime scene, non ci risparmia alcun dettaglio gore: non bisogna dimenticare, comunque, che Fulci è molto influenzato anche dal fantasy (cosa che ha fatto anche nel “gemello” “Paura nella città dei morti viventi“, e per questo motivo non esita a contaminare le due cose in eccessi davvero sopra le righe.

    Dopo qualche strana premonizione, la protagonista scoprirà che l’edificio del suo hotel è costruito su una delle porte dell’inferno, dalla quale inizieranno ad uscire fuori morti viventi e a disseminare il panico sulla terra. Scenario alquanto suggestivo, quest’ultimo, se contiamo che di zombi nel film non se ne vedono per la maggioranza delle sequenze, per quanto pare si sia trattato di una mera scelta produttiva che voleva sfruttare l’onda degli zombi movie low cost. Un modo per variare la monotonia delle dinamiche da zombi-movie, a mio parere, che in molti dovrebbero rivalutare. Indimenticabile poi, come ricordavo all’inizio, la scena finale in cui Liza, assieme ad un altro compagno di sventura, nella fuga dai morti si troverà letteralmente all’interno di un quadro di Zweick. Si tratta di quello che rappresenta l’aldilà, un deserto di cenere e corpi nudi, un vuoto e desolante Nulla. Un viaggio quindi completamente surreale, a tratti realmente da brivido, dalla realtà all’incubo: la vendetta del pittore si esplica così attraverso la sua arte.

    E ora affronterai il mare delle tenebre, e ciò che in esso vi è di esplorabile…”

    Secondo il regista romano, sembra di capire, dopo la morte vi è sempre l’oblio, e soltanto la memoria – per quanto dolorosa – puo’ salvarci dal diventare completamente ciechi. L’insistenza di Fulci sugli occhi, peraltro – e sul maltrattamento fisico che essi subiscono di continuo, non soltanto in questo film per la verità – sembra prestarsi sia a speculazioni filosofiche che ad un’allegoria – piuttosto grottesca – di ciò che dovrà subire lo spettatore. Inutile aggiungere, a questo punto, che il film è davvero crudissimo, in certe scene rasenta l’insostenibile e realizza, a mio parere, ciò che un Vero Horror deve fare: disgustare, spaventare, toccare le corde del terrore e spingerci a girare il capo dall’altra parte dello schermo. Un pessimismo lugubre, quello del regista romano, che si esprime attraverso la maggioranza delle sequenze del film, diventate cult per i motivi più svariati. Un esempio abusato è la partecipazione di Michele Mirabella nei panni del bibliotecario – assalito da un gruppo di tarantole – mentre una prova di gore sopra le righe è senza dubbio la ragazzina colpita da un colpo di pistola (scena atipica per il cinema volemose-bbene, presente esclusivamente nella versione uncut; per la cronaca ricorda un’esasperazione delll’omologa sequenza di Distretto 13 di Carpenter).

    Un capolavoro del genere, a mio parere, ma attenzione: rimane pur sempre un genere “popolare” e con un suo personale spessore (nel senso che è esente da simbolismi masturbatori), anche se a mio parere è indispensabile disporsi con una certa empatìa verso l’horror più estremo. Altrimenti è forse meglio lasciar perdere e dedicarsi ad altri film. Questo è certamente Horror – sarà forse banale scriverlo – con la “H” maiuscola proprio perchè sconnesso, fuori dalle righe, unico nel suo genere, a volte forse senza vere giustificazioni per quanto riconoscibile tra decine di altri cloni scadenti. E poi fa paura, fa sussultare lo spettatore che a volte stenterà a credere a quanto viene rappresentato: anche per i canoni odierni è molto probabile che lo sentirete “sporco”, realistico ed oscuro come non mai. Un qualcosa che lascia il segno, “…e tu vivrai nel terrore! L’aldilà“, e che spaventerà per bene gran parte degli spettatori. Del tutto fuori luogo, per la cronaca, alcune critiche a mio parere un po’ grossolane che vogliono questo lavoro di Fulci come una scopiazzatura malriuscita di Inferno di Argento (con cui si riscontrano alcune somiglianze, tuttavia i film vanno visti e limitarsi ad accoppiare sequenze a caso è davvero troppo, troppo superficiale).

    La versione in DVD del film possiede diversi speciali e soprattutto non è censurata come la versione tipicamente a noleggio (che, in molti casi, non riporta la sequenza color seppia dell’omicidio del pittore: pensavano che fosse il trailer di un altro film, a quanto pare…). Un buon criterio per regolarsi dovrebbe essere annesso alla censura (VM 14 per la versione edulcorata, VM 18 per la completa), mentre la limited edition della Anchor Bay sembra la più completa e meglio realizzata anche esteticamente, anche se indubbiamente ha un prezzo abbastanza spropositato.

  • Stalker è il film di Tarkovsky più accessibile

    Stalker è il film di Tarkovsky più accessibile

    In un futuro prossimo gli Stalker (misteriosi individui conoscitori di un luogo tra il mito e la realtà noto come “Zona”) si offrono come guide per condurre le persone in una stanza: tale stanza, da quello che si sa, è in grado di soddisfare i desideri più segreti delle persone che ci vanno.

    In breve. La fantascienza – del tutto priva di effetti speciali, qui profondamente atipica e concettuale –  di Tarkovsky trova in Stalker una delle migliori espressioni mai realizzate. Il risultato è un film d’autore dall’incedere lento e coinvolgente, ricco di spunti riflessivi e sociologici sulla natura umana.

    Stalker parte dalla spedizione di tre personaggi mai chiamati coi loro nomi (il Professore, lo Scrittore e lo Stalker), che si lasciano trasportare in un singolare viaggio alla ricerca della Zona: un territorio dai tratti misteriosi, in grado di soddisfare i desideri più profondi di chiunque riesca ad arrivarci. Non sembra difficile, in questo, rilevare una metafora dell’esistenza e della sua piena realizzazione, al di là delle numerose speculazioni in merito (molto fantasiose e di cui diffidare a prescindere, secondo me). Del resto lo stesso regista si è pronunciato chiaramente in merito e basta anche una ricerca veloce sul web per convincersene (ma anche dal libro del regista Scolpire il tempo: “La Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero“). Sembra insomma che il messaggio da cogliere per lo spettatore sia legato alla mutevolezza dell’esistenza ed al suo saperne cogliere gli aspetti davvero importanti, specialmente nei momenti di profonda crisi (che in effetti accomunano la totalità dei personaggi presentati): per dirla con le parole del film, “rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza“.

    Nella Zona, significativamente – anche se non sarà facile per chiunque cogliere questo aspetto – sembra non esserci letteralmente nulla (gli americani avrebbero infarcito la narrazione quantomeno di un goblin o di un Predator qualsiasi): qui invece, coerentemente con un film più auto-riflessivo che altro, cambiano soltanto i colori, i quali mutano dal grigiore della “zona seppia” rappresentata come punto di partenza delle vicende ad un vivido colore. Eppure, in conclusione del film, i tre viaggiatori sembrano vittime di un radicalemte ripensamento, e decidono di tornare sui propri passi – questo in aperta contraddizione con quanto si fossero ripromessi dall’inizio. Il senso vero di lavori del genere è che devono essere visti almeno una volta nella vita, in quanto lavori seminali del genere oppure anche solo perchè hanno finito per dare nuovo senso al cinema d’autore.

    Stalker (in russo Сталкер) mostra la figura di un’enigmatica figura di stalker (Aleksandr Kaidanovsky) che conduce uno Scrittore alcolizzato e depresso (Anatoli Solonitsyn) a trovare nuova ispirazione ed un Professore (Nikolai Grinko) a fare finalmente la ricerca definitiva per poter vincere il premio Nobel.  La Zona, in questo, rappresenta l’obiettivo che accomuna le ansie e le paure dei tre personaggi, tanto più che già nelle prime battute Stalker dice chiaramente alla moglie di stare fuggendo da una prigione (quella esistenziale). Il viaggio è lungo, e due ore e mezza sono abbastanza per proporre allo spettatore vari spunti di discussione sull’esistenza, a volte affidati ad una voce fuori campo, altri ai profondi dialoghi tra i tre personaggi.

    Stalker è anche il film lento per eccellenza: basti pensare che non c’è alcun dialogo nei primi 9 minuti e mezzo di film. L’uso della parola stalker (da tradurre nel senso di inseguitore) è tratto dal romanzo a cui si è ispirato il regista (Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugatski), a cui il regista si è ispirato per concepire il proprio film. Nel libro il termine stalker era utilizzato come nomignolo per indicare uomini impegnati nelle attività illegali di procurare e contrabbandare manufatti alieni fuori dalla Zona, senso che sembra essere rimasto sostanzialmente identico nel film.

    Al netto delle innate lungaggini stilistiche di Tarkovsky, con un certo insistere sui paesaggi e sull’ambientazione generale (cosa che, in verità, non stanca neanche troppo), Stalker è un film semplicemente perfetto: prima di tutto nella sua curatissima fotografia, e nella scelta di virare su due tonalità di colore distinte per ogni parte del film (seppia nella parte iniziale, colore pieno per la Zona).

    Peraltro la Zona sembra che sia stata ambientata in una zona contaminata da un incidente nucleare nella metà degli anni ’50, motivo per cui almeno tre persone dello staff sul posto perderanno la vita anni dopo (tra cui la seconda moglie del regista, xxx). Lo schema narrativo è talmente libero, in questa fase, che risulta anche difficile proporre vere e proprie interpretazioni, e addirittura sembra un azzardo provare a scriverci qualcosa di sensato – anche per via di molti riferimenti mistici a San Pietro ed agli ebrei. Di sicuro la struttura narrativa non sembra dissimile dal celebre cult Il mago di Oz (1939), nel quale assistiamo (anche in quel caso) ad un viaggio che condurrà i protagonisti a cercare un posto in cui realizzare i propri desideri. Che ciò avvenga sul serio o meno, del resto, in Stalker non sembra essere detto con chiarezza; e non sembra neanche sensato cercare una spiegazione logica o razionale, dato che il regista stesso ha invitato a vederlo con lo spirito di un viaggiatore che si rechi in posti mai visti prima (My ideal viewer watches a movie like a traveler observes the country he is visiting).

    Stalker è da qualche tempo disponibile gratuitamente sul web (audio originale russo sottotitolato) grazie all’iniziativa di OpenCulture.