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  • The Rocky Horror Picture Show: guida pratica per chi non ne sa ancora nulla

    The Rocky Horror Picture Show: guida pratica per chi non ne sa ancora nulla

    Brad Majors confessa il suo amore a Janet Weiss, e poco dopo partono per far visita al Dr. Everett Scott, il loro ex-insegnante di scienze; un temporale improvviso ed uno pneumatico forato li costringe a dirigersi verso un vecchio castello…

    In breve. Musical cinematografico divertente, splendidamente diretto ed interpretato, ovviamente fuori dalle righe; concepito come gigantesco tributo al mondo dei b-movie, mai passato di moda fino ad oggi.

    I’ve done a lot, God knows I’ve tried
    To find the truth, I’ve even lied
    But all I know is down inside I’m bleeding.
    And Super Heroes come to feast
    To taste the flesh not yet deceased
    And all I know is still the beast is feeding.
    And crawling on the planet’s face
    Some insects called the human race
    Lost in time, lost in space… And meaning

    Diretto da Jim Sharman due anni dopo il debutto del musical, si tratta di uno dei più popolari cult del genere, tratto da una sceneggiatura del regista stesso e di Richard O’ Brian (che recita nel panni del maggiordomo-alieno Riff Raff), capace da un lato di tributare il mondo dei b-movie e, dall’altro, di presentarsi in maniera autenticamente trasgressiva, divertente e fuori dagli schemi, quantomeno per l’epoca in cui uscì.

    L’intreccio del Rocky Horror Picture Show è noto: una coppia della provincia americana, casta e inibita, si imbatte casualmente nello spettrale castello del bizzarro Dr. Frank-N-Furter, carismatico scienziato in reggicalze che vuole costruirsi un amante perfetto artificiale. Al di là di questo (e dei suoi successivi ed imprevedibili sviluppi) è interessante analizzare nel film la presenza di due componenti: quella puramente ludico-sessuale che, naturalmente, trasuda da ogni poro, alternando momenti spassosi ad altri, come la prima comparsa di Frank-n-Furter, che sono rimasti scolpiti nell’immaginario collettivo, ed una seconda più seria (mai troppo, se non nel tragico e secondo alcuni enigmatico finale), che si ricollega in più parti ad una delle opere d’arte più celebri degli anni ’30 in America.

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    Mi riferisco naturalmente ad American Gothic“, il dipinto del 1930 realizzato dall’artista statunitense Grant Wood, che viene periodicamente parodizzato all’interno del film, e questo fin dal primo istante in cui compare la coppia Richard O’Brien / Patricia Quinn.

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    Poco prima del Time Warp, la danza rock’n roll che simboleggia il film più di qualsiasi altro brano, alle spalle di Riff Raff è possibile vedere il dipinto in questione.

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    Con nomi del calibro di Susan Sarandon (che pare non accettò di recitare nuda, come le era stato richiesto, durante l’autoesplicativa Touch me, Touch me), Barry Bostwick, Tim Curry (che vestirà 15 anni dopo i panni dell’inquietante Pennywise the Dancing Clown, nella trasposizione cinematografica del romanzo IT di Stephen King), Patricia Quinn (comparsa anche nel recente Le streghe di Salem sempre di Rob Zombi) e gli altri protagonisti del cast del Royal Court Theatre, il Rocky Horror Picture Show è diventato uno dei midnight movie per eccellenza, amato incondizionatamente da generazioni di fan. Guardarlo ad Halloween, ad esempio, è un rituale impossibile da mancare per qualsiasi appassionato, e la fama del Rocky Horror Picture Show ha avuto continue conferme, tanto da essere riproposto più volte al cinema, in TV ed ovviamente nella movimentatissima versione teatrale The Rocky Horror Show. Il Museum Lichtspiele (Monaco di Baviera) ha riproposto il film settimanalmente dal 1977, offrendo al pubblico uno speciale RHPS-Kit per consentire una opportuna partecipazione del pubblico: quest’ultimo conteneva un biscotto, del riso, un fischietto, una candela ed ovviamente le istruzioni cartacee per eseguire il Time Warp.

    Nell’immaginario di Sharman, bravo a dipingere magistralmente la storia e ad alimentarla in un turbine di riferimenti culturali americani – a cominciare dal celebre American Gothic – a finire alle figure archetipiche della sci-fiction classica, dai mostri ai vampiri passando per scienziati nazisti in incognito ed alieni armati di raggi laser, espressione (gli ultimi due in particolare) di una società sempre più repressiva nei confronti della libertà sessuale e della disinibizione. Il brano simbolo dell’opera rimane probabilmente Don’t dream it, be it, un monito ai personaggi (ed al pubblico che assiste, ovviamente) a liberare il proprio io e a non limitarsi di sognare la propria liberazione sessuale, ma anche viverla nel modo più appagante ed incurante del perbenismo dominante: simbolo di questa trasformazione sarà proprio la trasformazione di Brad e Janet, iniziati entrambi al sesso dal conturbante Frank-N-Furter, creatore di un novello frankstein dal fisico scultoreo, e che intende utilizzare come giocattolo sessuale. Sembra poca cosa se raccontata a parole, ma la carica erotica e spassosa del film resta intatta dopo tanti anni, e sembra quasi voler omaggiare la celebre massima di Woody Allen “il sesso è stata la cosa più divertente che ho fatto senza ridere“.

    Probabilmente è questa una delle chiavi di lettura più importanti del Rocky Horror cinematografico, capace di coniugare ironia e serietà senza mai scadere nel serioso o, peggio, nel gratuito: questo, al di là degli imperdibili giochi pirotecnici sulla scena, degli arrangiamenti scenici magistrali, della regia perfetta e dei continui doppi sensi di cui è pervaso il film, molti dei quali smarriti nell’approssimativa traduzione italiana: tanto per fare un esempio, Riff Raff accoglie i due protagonisti alludendo all’essere “wet” – tradotto un po’ alla buona come fradicia a causa della pioggia. L’allusione è (era) piuttosto esplicita, e la donna mostra di averla colta, anche con un certo risentimento. Ovviamente non esiste una versione doppiata del Rocky Horror (la versione italiana è sottotitolata), e verrebbe da pensare che sia un piccolo miracolo che a nessuno sia mai saltato in mente di farne una.

    Numerose le ulteriori curiosità su questo film: la locandina dell’epoca riporta un riferimento parodico al film Lo squalo (Jaws, cioè fauci, letteralmente), e recita: “The Rocky Horror Picture Show – a different set of jaws” (più o meno “qualcosa di diverso da Lo squalo“, con riferimento ironico ad uno dei film più in voga all’epoca). Al di là degli innumerevoli e raffinati riferimenti di genere, il Rocky Horror cinematografico è molto fedele allo spirito da horror puro, con i suoi riferimenti alla cinematografia gotica: le cronache dell’epoca riportano che in molte scene l’espediente utilizzato era quello di non dire agli attori cosa sarebbe successo in seguito, al fine di accentuare la loro reazione spontanea. Ad esempio, pare che la scena della cena con “sorpresa” finale sotto il tavolo (una scena che Rob Zombi citerà in chiave più seria nel suo recente 31) gli attori che interpretano i due fidanzati non fossero a conoscenza di quello che li aspettava, per cui la loro reazione sarebbe autentica.

     

    Come ogni cult che si rispetti, dal film è stato tratto anche un poco noto videogame – oggi retrogame – per Apple II, Amstrad CPC, Commodore 64/128 e ZX Spectrum – prodotto dalla CRL Group, defunta azienda inglese di software che produsse molti altri giochi a tema horror (fonte delle immagini: mobygames.com).

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    Nel finale, inoltre, non appena i due fratelli alieni svelano la propria vera identità, l’opera viene riproposta in versione futuristica, dove il forcone (che simboleggia l’essenza del redneck americano e, per estensione, del bigottismo provinciale che si oppone ferocemente alla “decadence” della trasgressione) diventa un laser letale, utilizzato per eliminare sia il dottore che la sua muscolosa bionda creatura Rocky. Il finale del Rocky Horror denota una componente tragica (e per certi versi ermetica), che sembra evocare la caducità dell’esistenza solo in favore di rafforzare il senso di edonismo ed gusto per la sana trasgressione che pervade l’opera.

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    In definitiva, l’eredita di questo musicalcult anni settanta è arrivata, a quanto pare, intatta fino ad oggi, per costituire uno dei più celebri musical al mondo, oltre che – naturalmente – uno dei più longevi.

    (informazioni sul film tratte da imdb.com, screenshot tratti da flickr.com/photos/seeing_i)

  • Strange Days: gli strani giorni già immaginati a metà anni 90

    Strange Days: gli strani giorni già immaginati a metà anni 90

    Il film è ambientato nel Capodanno del 1999: l’alba del nuovo millennio viene proposta in una prospettiva completamente distopica. Nella New York del degrado e della repressione poliziesca, infatti, si arriva a spacciare le vite altrui in forma di filmati che è possibile iniettarsi direttamente nel cervello. In questo modo si attua una sorta di gigantesco file-sharing delle esperienze umane, fenomeno illegale ed aspramente combattuto dalle autorità. Lenny Nero è un ex poliziotto, licenziato con disonore, che pratica per sopravvivere la diffusione di questo tipo di materiale, e ne abusa egli stesso. Un giorno un’amica gli recapita un singolare wire-trip clip

    In breve. Un quasi-cyberpunk intenso e dai toni romantici, caratterizzato da una sceneggiatura molto intensa e con interpretazioni sempre all’altezza. Peccato, in definitiva, perchè in alcuni punti – tipo nell’approfondimento delle relazioni tra i personaggi – si perde in momenti mielosi che fanno quasi passare la voglia.

    Senza bisogno di scomodare Blade Runner – tutta un’altra faccenda, per la verità – e senza voler sparlare di una delle più prolifiche e creative registe statunitensi (Kathryn Bigelow, artefice del popolarissimo Point Break e dell’horror Il buio si avvicina), direi che Strange Days deve parte della sua fama ad una storia che “odora” molto di Philip Dick, e che potrebbe ricordare A scanner darkly. Certamente i presupposti sono micidiali: l’idea dello spaccio di esperienza altrui in prima persona è qualcosa di davvero molto interessante, che fa riflettere di rimando – tanto per rimanere sul banale – sulla spersonalizzazione che soffriamo nel quotidiano. Questo, di fatto, diventa un solido pretesto perchè queste allucinazioni, molto ben rese, possano fare da contorno ad una curiosa poetica in chiave cyberpunk. La chiave di lettura, come si scoprirà, sta nel misterioso clip che viene rivelato soltanto alla fine, e che mostra uno spaccato di triste realtà che potrebbe, di fatto, provocare una vera e propria Apocalisse.

    Grande merito, quindi, a James Cameron, davvero molto abile nel costruire lo script, e noto per essere stato il regista dei due Terminator (1984 e 1991), di Titanic (1997) e di Avatar (2009 – il che appare come un crescendo di delirio, a suo modo). Dal canto loro gli interpreti se la cavano egregiamente, a parte forse Juliette Lewis che sembra quasi imprigionata nelle caratteristiche del personaggio di Natural Born Killers, esprimendosi così in modo fiacco e poco convincente. A parte questo, potremmo dire che Strange Days inizia bene, prosegue meglio e finisce per annacquarsi, come un ottimo whisky mescolato con acqua di rubinetto, seguendo molti (troppi) dei dettami che l’industria hollywoodiana impone da decenni. Senza bisogno che li citi tutti: favorire l’identificazione del pubblico coi “Buoni”, rendere odiosi i “Cattivi”, rendere lineare la trama, sorprendere in modo piuttosto prevedibile e far trasparire una visione forzatamente ottimistica sull’amore che-viene-e-che-va.

    Molto dell’ accento viene posto, oltre che sui risvolti sociali (cittadino vs. polizia), sul romanticismo della vicenda, e la cosa potrebbe quasi risultare gradevole a qualcuno (beato lui): ma è un’arma a doppio taglio, un trucchetto per tenere viva l’attenzione, quasi come se qualcuno avesse deciso di cambiare i toni più o meno nell’ultima mezz’ora di film. Attenzione che poi, probabilmente intrigati dai mille dettagli della storia, finiamo per perdere del tutto, per orientarci su un volemose-bbene che dovrebbe rendere tutti felici. Ecco, l’ho detto: la nota stonata di Strange Days, al di là dal fascino magnetico di Angela Bassett (quasi tarantiniana nella sua interpretazione) e della bravura di Ralph Fiennes sta proprio nella colossale forzatura favolistica degli ultimi fotogrammi. Lo stesso effetto sgradevole che mi procurò il finale di AI – Intelligenza Artificiale, e chi lo ha visto dovrebbe intuire a cosa mi riferisco. Una cosa su cui non riesco a darmi pace, proprio perchè il concept di Strange Days è realmente esplosivo.

    Mi consolo comunque, solo parzialmente, ironizzando su certe battute, un po’ come faceva Nanni Moretti (“hai mai ZIGOVIAGGIATO? mmm, un cervello vergine“; ma l’originale era “hai mai filo-viaggiato“), e non posso esimermi dall’esprimere un’ulteriore critica sull’eccessiva lunghezza del film: certamente incalzante fino alla fine, ma quelle due ore sono interminabili. Mai davvero ruvido, graffiante e oscuro come l’ambientazione e l’attitudine imporrebbero: quindi, perlomeno, non si scomodino confronti con il capolavoro di Ridley Scott.

    Non certo da buttare, sia chiaro, anzi d’obbligo per molti spettatori assuefatti alle storielline facili: ma tanti altri possono tranquillamente fare a meno di guardarlo.

  • Fantozzi: un esordio col botto, quasi 50 anni dopo

    Fantozzi: un esordio col botto, quasi 50 anni dopo

    La moglie del ragionier Ugo Fantozzi non ha notizie del consorte da diciotto giorni: si scopre che è stato murato vivo all’interno del proprio ufficio.

    In breve. Il capostipite di una saga che ha fatto la storia del genere: sfruttando uno stile parodistico e grottesco, che deve moltissimo allo slapstick ed al paradosso, il romanzo di Villaggio diventa un film semplicemente leggendario.

    Il mega-direttore galattico. Le Allucinazioni Mistiche. La mega ditta dal nome impronunciabile, ItalPetrolCementThermoTextilPharmMetalChemical. La mitica partita a calcetto Scapoli vs. Ammogliati, in un campo di calcio pieno di dossi e pozzanghere. Le vacanze a Courmayeur con l’amore impossibile, la signorina Silvani. E poi la Contessina Alfonsina Serbelloni Mazzanti Viendalmare, il ragionier Filini, il geometra Calboni.

    Personaggi e tormentoni che hanno costruito un immaginario che nasce, letteralmente, in questo film – ma che per la verità Villaggio aveva già formalizzato in un triplice romanzo. Un successo straordinario, già all’epoca, rimasto impresso nella coscienza (non solo linguistica) di moltissimi italiani: fantozziano è diventato ufficialmente un aggettivo, per intenderci. Fantozzi esce nelle sale il 27 marzo 1975 e da allora diventa un cult assoluto, anche grazie ai numerosi passaggi nelle TV commerciali negli anni successivi.

    Il taglio registico di Salce è molto influenzato dal personaggio del libro, che Villaggio ha interpretato per molti anni – quale prototipo di dipendente umile, deriso dai superiori e dai colleghi, impacciato con le donne ed assegnatario delle peggiori umilazioni. Come se non bastasse, Fantozzi in questo film diventa pure comunista, conoscendo l’incubo del mobbing (in un periodo in cui, probabilmente, nessuno l’avrebbe chiamato così) e finendo per incontrare il Mega-Direttore in persona – con la sua poltrona in pelle umana e la metafora forse più bella di tutto il film: un vero e proprio acquario, nel quale i dipendenti più meritevoli hanno il privilegio di nuotare liberamente.

    Se molte delle trovate di questi (ma anche dei successivi) film di Fantozzi sono surreali, lo si deve alle scelte anarchiche di Villaggio e del regista, che non perdono occasione per proporre al pubblico i classici slapstick del cinema muto (cadute rovinose, soprattutto), ma anche – per non dire soprattutto, se vediamo il film da adulti – dialoghi leggendari che il pubblico ha assimilato e imparato a memoria negli anni, neanche si trattasse di un classico della letteratura in chiave pop. Perchè Fantozzi, soprattutto qui (un po’ meno nei seguiti, progressivamente meno innovativi) inventa un nuovo tipo di comicità: fisica o corporale, certo, sicuramente efficace e debitrice della satira graffiante e del grottesco puri, il che per molti verso potrebbe richiamare quello (più esasperato e colto, se vogliamo) che proponevano i Monty Python (il parallelismo potrebbe avere senso con Il senso della vita, ad esempio, che uscì quasi dieci anni dopo). Se le disavventure di Ugo Fantozzi fanno già ridere di per sè, la sua storia è tragica: è la storia che fa parte del vissuto ed in cui è possibile quasi sempre identificarsi, tra le frenesie psicotiche della vita di ogni giorno (Fantozzi che prende l’autobus al volo sulla Casilina pur di timbrare in orario), i compromessi dettati dal conformismo e dalla convenzione, il grottesco instillato da personaggi che fanno ridere, ma anche commuovere (Fantozzi che prende le difese della figlia, ferocemente derisa dai colleghi, per poi esprimere loro “i più servili auguri” di buon anno).

    A quel punto potremmo addirittura scomodare Arthur Schopenhauer, nel descrivere un film che nei suoi frammenti è fortemente comico, ma nel suo complesso è un vero e proprio dramma: La vita d’ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia.

    Allora prenderò l’autobus al volo!
    No Ugo, l’autobus al volo no! No Papà!
    Sì, saltando dal terrazzino guadagnerò almeno 2 minuti!
    No Ugo non l’hai mai fatto, non hai il fisico adatto!
    Non l’ho mai fatto, ma l’ho sempre sognato!

    Incluso tra i cento film da salvare nel 2008, fu distribuito dalla Cineriz in doppio cut: uno di 103 minuti, e l’altro di 98. Se non l’avete mai visto o non lo ricordate troppo, è il caso di tornare sul pianeta Terra e provvedere all’istante.

  • The Guest è il film di Adam Wingard che cambierà la vostra idea di film d’azione

    The Guest è il film di Adam Wingard che cambierà la vostra idea di film d’azione

    Il militare David si reca in visita dai genitori di un commilitone morto in battaglia, venendo accolto con commozione e stabilendo un legame emotivo con i familiari: ma chi si nasconde davvero dietro di lui?

    In breve. Sano action-movie come da tradizione ottantiana (si parte dagli stessi presupposti del primo Rambo): trama accattivante e divertimento per il pubblico, a cominciare dalle citazioni a finire dai dialoghi essenziali ed ontologicamente tamarri (nel senso migliore del termine). Ci si diverte con stile, e solo questo conta.

    Girato da Adam Wingard (giovane guru dell’horror noto per You’re Next, The ABCs of Death e recentemente Death Note) con un budget di circa 5 milioni di dollari, The Guest è strutturato con le dinamiche di un film del terrore – tranquillità iniziale, crescendo di tensione e rivelazione/i finale/i – senza pero’ sfruttarne pienamente le dinamiche espressive. Ciò che emerge è un buon thriller molto contenuto (stranamente per Wingard) a livello di sangue e violenza, girato con gusto e recitato in modo gradevole, ben calato nella realtà americana – e strizzando l’occhio ad Halloween (nella sequenza finale, soprattutto). L’idea del film arriva dalla penna di Simon Barret, partito da un’idea di classico film a sfondo revenge, che poi è stata abbandonata causa complicazioni e trasformata dal regista in ciò che il film è: in parte prevedibile dopo un po’, forse, ma assolutamente dignitoso.

    La cosa più affascinante di The guest è legata sicuramente al suo rendersi inclassificabile per circa un’ora di film, almeno fin quando iniziano a delinearsi i tratti essenziali della trama; lo guardi con interesse, e non riesci a capire se vedrai uno slasher, una spy-story, un action puro o un horror cruento. La verità è che non importa granchè, perchè la trama incuriosisce ed avvince lo spettatore, che difficilmente potrà immaginare la sorpresa finale (per quanto, ripensadoci, abbia un che di “grezzo” nel senso accennato all’inizio, tutto sommato divertente). Certo Wingard ama il cinema di genere, anzi in certe sequenze lo venera spudoratamente e lo tributa senza pudore, a cominciare dalla scelta delle musiche puramente ottantiane di Steve Moore. Tanto per capire l’atmosfera, Moore ha sfruttato gli stessi sintetizzatori suonati da Carpenter e Howarth per Halloween 3: Season of the Witch (1982), ed il feeling sembra proprio quello.

    Stevens, protagonista del film, impersona l’enigmatico soldato che irrompe nella vita ordinaria di una famiglia americana, quale archetipo del “buono” in grado di sedurre, combattere e dominare la scena in lungo ed in largo. La sua parte è particolarmente complessa soprattutto per ciò che implica, ed in funzione della sua reale identità, e questo lo rende particolarmente affascinante. Quasi sempre padrone della scena ed egocentristicamente coi riflettori sempre puntati addosso, ha dovuto sostenere un allenamento specifico per sfoggiare il fisico necessario ad impersonare un militare. La cosa è stata talmente voluta da Wingard da spingere il regista a rinviare fino all’ultimo una delle scene clou, per dare il tempo allo stesso di allenarsi e girare la scena del trailer.

    Un buon film, quindi, che riserva qualche discreto colpo di scena ed una buona dose d’azione, in definitiva. Per come viene impostato fin dall’inizio, nonostante gli ammicamenti (pesantissimi nel finale, peraltro) The Guest si allontana dai lidi dell’horror per approdare su quelli del thriller d’azione, citando il cinema ottantiano tutto. Al tempo stesso, The Guest piacerà agli appassionati di cinema di genere che non amino le spiegazioni troppo dettagliate – per dire, il pubblico selezionato per il test screening ha convinto Wingard e lo sceneggiatore a togliere di mezzo lo “spiegone” che illustrava con molti dettagli l’ identità dell’ospite, ma questo a ben vedere non lascia spiegazioni in sospeso, per cui va bene così.

  • Possession (1981): l’horror metaforico sulla gelosia di A. Zulawski

    Possession (1981): l’horror metaforico sulla gelosia di A. Zulawski

    Una donna in crisi col marito possessivo inizia a manifestare un comportamento sempre più crudele; i sospetti di infedeltà coniugale, poi, la renderanno ancora più sinistra.

    In breve. Sebbene relegato all’ambito del cinema d’essai, Possession è la dimostrazione di come l’horror possa essere un linguaggio ideale per la rappresentazione di drammi. Un piccolo capolavoro del regista recentemente scomparso, forse la sua testimonianza più importante. Nonostante qualche bizzaria nella narrazione, riesce a farsi seguire anche dal grande pubblico.

    Possession rientra – almeno nella mia esperienza di spettatore, e ad una prima analisi – tra i film sostanzialmente privi di genere: classificato spesso come horror psicologico, sarebbe quantomeno onesto ammettere che si tratta di una semplificazione brutale – se non altro parziale, per non dire ingiusta – rispetto al lavoro di Zulawski.

    Possession è un film che funziona, in effetti, perchè focalizza le proprie qualità sulle doti interpretative dei singoli protagonisti, con un grado di espressività esasperata – tipica ad esempio del teatro moderno, più introspettivo o psicologico – per quanto si ceda, a volte, alla tendenza a rappresentare simbolismi forse astrusi, forse poco chiariti. Una splendida (in ogni senso) protagonista come Isabelle Adjani è in grado di calarsi completamente nella doppia parte Anna / Helen, e se il film è decisamente bello (e riesce a turbare lo spettatore) gran parte del merito è della sua interpretazione. Impossibile non notare, poi, l’ambientazione nella Berlino all’epoca divisa dal muro, sorvegliata militarmente e simbolo della divisione familiare forzata.

    In questo senso, e senza che ciò possa sembrare troppo arbitrario, Possession è un film lynchiano, nel senso che va vissuto nel suo fluire e che, soprattutto, lascia spazio alle interpretazioni soggettive degli spettatori, tutte egualmente valide – a patto che si sappia accettare il linguaggio (non proprio convenzionale) scelto dal regista. Buona parte della fama di incomprensibilità, per inciso, è probabile che derivi dalla versione italiana in videocassetta di questo film, doppiata in maniera discutibile e montata (cosa davvero assurda) in maniera arbitraria; la versione da vedere è quella di quasi due ore edita in DVD dalla Raro Video (e non banalissima da reperire, ad oggi).

    In questo contesto l’aspetto puramente narrativo finisce quasi in secondo piano, tanto che – astraendoci per un attimo dal contesto – saremmo di fronte a premesse tanto banali da risultare sconcertanti: una donna sposata con un figlio trova un amante, e vive il dramma del divorzio. La storia è tutta qui, per cui è chiaro che la regia di Zulawski ha contribuito grandemente ad impreziosirla ed espanderla. Un discreto (e neanche originalissimo) melodramma che, nel caso di Possession, è solo il punto di partenza per l’evoluzione e lo sviluppo di situazioni imprevedibili, e per favorire il dispiegarsi di una tragedia consumata tra mostri interiori ed esteriori.

    Il predominio dei personaggi è tanto forte da essere, di fatto, il vero focus su cui concentrare l’attenzione: il rigido conformismo e l’aggressività latente di Mark, incapace di accettare la mutazione (in parte cronenberghiana) della moglie, ed ossessionato dal proprio amore al punto di perdere il controllo di sè; la natura doppia ed imprevedibile di Anna, in bilico tra come – suo malgrado – sta diventando (Anna, nella sua versione “posseduta” da un amante incontrollabile, imprevedibilmente violenta e tormentata e, poco dopo, assassina) e come il marito vorrebbe che fosse, in versione idealizzata (la maestra, angelo del focolare domestico, Helen). L’autolesionismo dei due, che emerge simbolicamente nel momento in cui si feriscono, deliberatamente, col coltello elettrico, da’ il via al lato più terrificante della storia, che fino alla comparsa del mostro visibile poco dopo – e che gli ha conferito la fama di horror di cui sopra. L’elemento di mostruosità (il “polipone” ideato da Carlo Rambaldi) interviene nel film a spezzare l’ordinarietà del dramma, e poco importa quanto possa apparire fuori posto una presenza del genere; è proprio questo mix, piuttosto, a rendere Possession un unicum del suo genere, alla pari di film analoghi sulla possessione/ossessione amorosa imprescindibili per qualsiasi amante del genere (e non posso fare a meno di pensare ad Audition, e a quanto Miike possa aver da qui attinto a livello di atmosfere).

    Proprio il tema del doppio, certamente non nuovo al cinema – basterebbe pensare a Doppelganger del 1969, ma anche a buona parte della filmografia di David Cronenberg – è centrale in questo film del regista polacco. La sequenza in cui Anna urla e scalpita in metropolitana, emblema di una psicosi al culmime,  se da un lato appare quasi grottesca nella sua insistenza, finisce per rappresentare l’essenza dei suoi tormenti interiori, da sempre in bilico tra una (apparente) libertà che la illude, ed un vincolo familiare che la fa semplicemente sentire in colpa.

    Dall’altro lato, la rigida tranquillità di Mark pronta ad degradare nella follia (un Sam Neill in una delle due migliori interpretazioni), è anch’essa magistrale, tanto da presentare echi di ciò che lo renderà celebre quasi quindici anni dopo (l’assicuratore de Il seme della follia di John Carpenter). La possession della moglie diventa, per lui, pura ossessione: ossessione per le sue ordinarie ambizioni (il lavoro, la carriera, l’amore, la famiglia), che lo porteranno inevitabilmente all’autodistruzione.

    Per un film del genere, poi, qualche parola va inevitabilmente spesa per il finale: i due coniugi sembrano avere un doppio, apparentemente frutto di una mente ormai distorta dalle circostanze. Nel momento in cui tali doppi si sostituiscono agli originali, arriva il momento dell’apocalisse, simboleggiato dal suicidio finale del figlio (davvero terrificante nella sua semplicità) e dall’incontro tra Helen ed il doppio di Mark, una versione algida e sulfurea che sembrerebbe “nata” dal mostro partorito da Anna, che preannuncia una spettacolare quanto spiazzante apocalisse (le bombe che si sentono esplodere dall’esterno).

    Se è genericamente improprio chiamare horror Possession di Zulawski, dunque, può essere quantomeno sensato notare che le sue dinamiche narrative sono, a tutti gli effetti, quelle degli horror, a partire dal crescendo da una situazione ordinaria ad una decisamente imprevedibile. Molti passaggi del film sembrano non causali e questo, oltre ad essere tipico del genere, è anche tipico del periodo. Del resto ci troviamo negli anni del Fulci dell’assurdo visto nel cult …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà, e proprio con quest’ultimo si potrebbero scovare interessanti parallelismi; su tutti, il finale apocalittico che, almeno in parte, li accomuna: l’aldilà del quadro, simbolo della conclusione dell’esistenza terrena, e l’apocalisse di Possession, simbolo dell’isolamento e della solitudine.