SCI-FI_ (34 articoli)

Recensioni di film di fantascienza.

  • Un po’ di pace, ai confini della realtà: il mediometraggio di Wes Craven

    Un po’ di pace, ai confini della realtà: il mediometraggio di Wes Craven

    Wes Craven ha diretto – direi magistralmente – questo secondo episodio della serie: il tema trattato rimane sulla falsariga di quanto visto ad esempio in “Tempo di leggere”, e possiede diversi sprazzi che sono poi i tratti caratteristici del cinema di questo grande artista.

    In breve: uno dei miei episodi preferiti della serie, sia perchè opera del regista di Nightmare, sia perchè ricordo ancora (è un fatto personale, mi rendo conto, ma conta parecchio) quanto mi fece paura quando lo vidi da ragazzino.

    I registi horror in genere trattano alla grande la fantascienza: lo ha fatto egregiamente Carpenter, lo ha fatto Hooper, non poteva certo mancare il contributo di Craven. La storia è quella di una donna comune, stressata dalla propria famiglia e da una vita che sembra non riservarle qualche minuto per se stessa. Il ritrovamente di un vecchio orologio seppellito nel proprio giardino regala un dono inatteso e graditissimo alla protagonista: la capacità di fermare il tempo. Così, non appena le cose si mettono male per lei, Penny non deve fare altro che avere addosso lo strano aggeggio e chiedere letteralmente al mondo di fermarsi. L’idea funziona davvero, e sembra non conoscere limiti: basta file snervanti per la spesa, basta persone con cui discutere porta a porta, basta battibecchi familiari per cucinare, pulire o andare a fare la spesa.

    L’episodio è ricco dei dettagli caratteristici del cinema di Craven, e si riconoscono vagamente alcuni aspetti che possiamo legare al leggendario Nightmare, uscito appena un anno prima (1984) di questo episodio. Se a questo aggiungete gli ingredienti tipici della sci-fiction apocalittica classica (su tutti “L’ultimo uomo della terra“), un’ironia di fondo sullo stress della vita moderna ed un finale con sorpresa, con tanto di critica sociale da piena guerra fredda, si ha di fronte quasi un capolavoro.

    La condanna ad un’eterna solitudine vista dagli occhi di uno spettatore preoccupato, come lo era all’epoca, dalla Guerra Fredda e dall’atomica. Probabilmente uno dei migliori episodi della serie mai realizzati, nonostanza la scarsità di mezzi e qualche trucchetto che fa sorridere: il missile del finale è stato realizzato in modo un po’ posticcio, e la falce e martello rossa ben in vista è un messaggio simbolico chiaro (pure troppo, per un americano dell’epoca). I fermo-immagine degli scenari, comunque, con la protagonista che va a spasso nel “tempo congelato” – senza poter cambiare gli eventi ma soltanto rallentandoli, rimangono da antologia. Masterpiece!

  • Ai confini della realtà: Tempo di leggere (J. Brahm, The Twilight Zone, 1959)

    Ai confini della realtà: Tempo di leggere (J. Brahm, The Twilight Zone, 1959)

    The Twilight Zone“, o se preferite “Ai confini della realtà”, per un periodo è stata ampiamente tributata su Italia Uno: tempi lontani, quando di notte ci beccavi Zombi di Romero, qualche b-movie di Carpenter o sci-fi classica alla “L’ultimo uomo della Terra”. “Tempo di leggere” si colloca giusto nel filone apocalittico classico, e potremmo dire che in qualche modo ne pone le basi per quello che si vedrà in seguito. Come commentare oggi un episodio della saga di questa mitica serie di fantascienza?

    In breve. Vedere oggi un’opera così, bianco e nero che sa di preistoria, antesignano di qualsiasi b-movie sembra avere un che di fuori luogo e fuori tempo massimo anche per il blog come il mio. La “zona oscura”, dopo aver passato indenni le paure di un nuovo olocausto nucleare, di un’invasione aliena o di zombi, credo davvero non faccia più paura a nessuno. Eppure sono convinto che l’interpretazione di Burgess Meredith, per quanto in parte sopravvalutata, sia un punto fermo nella cinematografia sci-fiction, catastrofica e – in parte – anche horror.

    Del resto si parla di un episodio del 1959, dal ritmo rallentato e gradevole, con tanto di catastrofismo nucleare annesso: roba che per l’epoca doveva sembra più che avanti (forse soltanto Samuel Beckett aveva osato pensare tanto, in quegli anni, per un’opera d’arte audio-visiva). Passiamo all’episodio: Henry Danies è un impiegato di banca come tanti, un uomo qualunque, umile e modesto, follemente amante della lettura e caratterizzato dagli enormi occhiali “a fondo di bottiglia” che porta. Senza lenti, particolare essenziale per la storia, l’uomo non riesce a vedere nulla, il che diventa quasi una metafora del proprio miope disinteresse verso il mondo “reale” che lo circonda.

    Questa sua passione gli procura enormi problemi sul lavoro, dato che si distrae dai propri compiti e vive in modo completamente alieno dai propri colleghi: a casa le cose non vanno meglio, con una moglie-vipera che lo obbliga a fare cose di cui non gliene importa nulla. Una versione di impiegato sottomesso e goffamente sognatore che manco Paolo Villaggio in Fantozzi, a momenti, anche se privato del tono parodistico della nota serie. L’uomo, ad un certo punto, deciso a ritagliarsi un po’ di “tempo per leggere”, si rinchiude nella cassaforte della propria banca portando con sè un bel malloppo di libri. Poco tempo dopo, un boato immenso interrompe la sua attività: ed è così che scopre, con grande sorpresa, che la bomba H ha raso al suolo la sua città, uccidendone tutti gli abitanti. Unico sopravvissuto, ancor più solo di quanto non fosse prima, vaga disperatamente alla ricerca di qualche appiglio: ma non può fare altro che constatare di essere rimasto solo. Stavolta sul serio.

    Così torna alla propria abitazione, girovagando per una città distrutta nella quale sembrano mancare solo i teppisti di Fuga da New York, e in preda quasi alla follia ricomincia a vivere. Almeno ci prova: sul proprio divano, ad esempio, piazzato tristemente nel bel mezzo delle macerie. In una specie di teatro dell’assurdo fatto di calcinacci, Henry arriva all’unico luogo in cui riesce a trovare la propria dimensione: ma qualcosa di inaspettato cambierà nuovamente la sua esistenza per sempre.Credetemi, rispetto ai tempi si tratta di un vero e proprio cult della mitica “Twilight Zone”.

    Nota: in un episodio dei Griffin compare l’ultimo neurone di Peter nei panni dell’impiegato Henry Danies.

  • Decadenza post-apocalittica: “2019 Dopo la caduta di New York” (S. Martino, 1983)

    Decadenza post-apocalittica: “2019 Dopo la caduta di New York” (S. Martino, 1983)

    In una New York post-apocalittica, bersagliata da soldati armati di balestra, raggi laser e legge marziale, un anti-eroe solitario viene inviato a salvare l’unica donna delle Terra non ancora contaminata dalla radiazioni, che potrebbe contribuire a ripopolare l’umanità sterminata da guerre nucleari. Un film del regista italiano Sergio Martino, ricco di suggestioni e rimandi ad altre pellicole.

    In breve: Martino realizza un film, anche se nominalmente in buonafede, brutta copia del cult di Carpenter, a cominciare da Parsifal che somiglia nettamente, come fisionomia, a Kurt Russell. Estremamente ottantiano come stile, da riscoprire ma non aspettatevi il capolavoro incompreso.

    … Marinetti considerò Parsifal il simbolo della decadenza della cultura occidentale (Parsifal, ultimo dramma di Richard Wagner)

    Nel 2019 New York (!) è ridotta ad un cumulo di macerie da una spaventosa guerra atomica: in questo scenario viene aperta la caccia all’uomo da parte dell’esercito vincitore (gli Eurac) sui vinti, massacrati o catturati per essere sottoposti ad esperimenti genetici. Parsifal è un guerriero assoldato dalla Federazione PanAmericana, assieme ad altri due misteriosi individui, allo scopo di mettere al sicuro l’unica donna rimasta che dovrebbe garantire la rigenerazione della razza umana, non ancora contaminata dalla radiazioni. I tre incontreranno una razza di mutanti (i Contaminati) e saranno catturati dagli Eurac, i quali sospettano una riorganizzazione della rivale PanAmericana. Dopo varie peripezie, tra cui l’incontro con dei nani mutanti e con uomini-scimmia armati di scimitarra (!), avverrà l’epilogo della storia, tutto sommato piuttosto prevedibile.

    “Il solito fottuto bastardo!”

    “Suppongo che questo significhi: sì”

    Se dovessi dare una sorta di ricetta per la realizzazione un film del genere di: prendere Interceptor (il Mad Max di Mel Gibson), miscelarlo con una bella spruzzata di Fuga da New York di John Carpenter, shakerare con cura ed osservare il risultato finale. In fondo la somiglianza di Michael Sopwik / Parsifal con Kurt Russel / “Snake” Plinski rende piuttosto raggelante qualsiasi paragone con il cult americano, sia perchè ambientato sempre a New York, sia perchè  c’è comunque di mezzo un mercenario che lotta contro tutti per salvare sè stesso (ed il mondo).

    Del resto Martino sembra aver detto che la sceneggiatura sarebbe stata scritta prima dell’opera carpenteriana, quindi dobbiamo pensare che – senza ulteriore malizia – si tratti di una somiglianza casuale che non degrada nel plagio: in altri termini un po’ come accaduto tra Pet Sematary di King e Zeder di Pupi Avati (due trame molto simili per due film piuttosto distanti geograficamente). Del resto il gioco delle ispirazioni e dei rifacimenti segue il noto principio di imitazione (inteso con valenza positiva), presente sia presso gli antichi romani sia, in tempi moderni, nella replica di “memi” riadattati e modificati sul web.

    2019 – Dopo la caduta di New York“, rimuovendo qualsiasi pretesa intellettualistica da cinema “serio”, è un tributo al post-apocalittico divertente e scorrevole, che esprime paura ancora attualissime e che non risparmia dettagli in quanto ad horror e splatter, rendendo riconoscibile una sorta di old-school italiana. Se non fosse per qualche dialogo improbabile, qualche situazione vagamente trash ed una pochezza di mezzi generalizzata, potremmo dire di aver assistito ad un film originale, con valide idee di fondo, ben girato e anche discretamente interpretato: del resto la cosa migliore della pellicola rimangono i momenti horror, che sono realmente oggetto di culto. La sceneggiatura, di per sè, era complessa da sviluppare senza sbavature e, in effetti, soltanto Carpenter ci è riuscito per ben due volte senza errori. Da ricordare infine che l’Uomo Scimmia è interpretato da George Eastman, il cinico “32” di “Cani Arrabbiati”, mentre trucchi e miniature del film sono di Antonio Margheriti. (recensione concessa in cross-posting su Cinema Italiano Database con il mio consenso)

  • Stalker è il film di Tarkovsky più accessibile

    Stalker è il film di Tarkovsky più accessibile

    In un futuro prossimo gli Stalker (misteriosi individui conoscitori di un luogo tra il mito e la realtà noto come “Zona”) si offrono come guide per condurre le persone in una stanza: tale stanza, da quello che si sa, è in grado di soddisfare i desideri più segreti delle persone che ci vanno.

    In breve. La fantascienza – del tutto priva di effetti speciali, qui profondamente atipica e concettuale –  di Tarkovsky trova in Stalker una delle migliori espressioni mai realizzate. Il risultato è un film d’autore dall’incedere lento e coinvolgente, ricco di spunti riflessivi e sociologici sulla natura umana.

    Stalker parte dalla spedizione di tre personaggi mai chiamati coi loro nomi (il Professore, lo Scrittore e lo Stalker), che si lasciano trasportare in un singolare viaggio alla ricerca della Zona: un territorio dai tratti misteriosi, in grado di soddisfare i desideri più profondi di chiunque riesca ad arrivarci. Non sembra difficile, in questo, rilevare una metafora dell’esistenza e della sua piena realizzazione, al di là delle numerose speculazioni in merito (molto fantasiose e di cui diffidare a prescindere, secondo me). Del resto lo stesso regista si è pronunciato chiaramente in merito e basta anche una ricerca veloce sul web per convincersene (ma anche dal libro del regista Scolpire il tempo: “La Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero“). Sembra insomma che il messaggio da cogliere per lo spettatore sia legato alla mutevolezza dell’esistenza ed al suo saperne cogliere gli aspetti davvero importanti, specialmente nei momenti di profonda crisi (che in effetti accomunano la totalità dei personaggi presentati): per dirla con le parole del film, “rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza“.

    Nella Zona, significativamente – anche se non sarà facile per chiunque cogliere questo aspetto – sembra non esserci letteralmente nulla (gli americani avrebbero infarcito la narrazione quantomeno di un goblin o di un Predator qualsiasi): qui invece, coerentemente con un film più auto-riflessivo che altro, cambiano soltanto i colori, i quali mutano dal grigiore della “zona seppia” rappresentata come punto di partenza delle vicende ad un vivido colore. Eppure, in conclusione del film, i tre viaggiatori sembrano vittime di un radicalemte ripensamento, e decidono di tornare sui propri passi – questo in aperta contraddizione con quanto si fossero ripromessi dall’inizio. Il senso vero di lavori del genere è che devono essere visti almeno una volta nella vita, in quanto lavori seminali del genere oppure anche solo perchè hanno finito per dare nuovo senso al cinema d’autore.

    Stalker (in russo Сталкер) mostra la figura di un’enigmatica figura di stalker (Aleksandr Kaidanovsky) che conduce uno Scrittore alcolizzato e depresso (Anatoli Solonitsyn) a trovare nuova ispirazione ed un Professore (Nikolai Grinko) a fare finalmente la ricerca definitiva per poter vincere il premio Nobel.  La Zona, in questo, rappresenta l’obiettivo che accomuna le ansie e le paure dei tre personaggi, tanto più che già nelle prime battute Stalker dice chiaramente alla moglie di stare fuggendo da una prigione (quella esistenziale). Il viaggio è lungo, e due ore e mezza sono abbastanza per proporre allo spettatore vari spunti di discussione sull’esistenza, a volte affidati ad una voce fuori campo, altri ai profondi dialoghi tra i tre personaggi.

    Stalker è anche il film lento per eccellenza: basti pensare che non c’è alcun dialogo nei primi 9 minuti e mezzo di film. L’uso della parola stalker (da tradurre nel senso di inseguitore) è tratto dal romanzo a cui si è ispirato il regista (Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugatski), a cui il regista si è ispirato per concepire il proprio film. Nel libro il termine stalker era utilizzato come nomignolo per indicare uomini impegnati nelle attività illegali di procurare e contrabbandare manufatti alieni fuori dalla Zona, senso che sembra essere rimasto sostanzialmente identico nel film.

    Al netto delle innate lungaggini stilistiche di Tarkovsky, con un certo insistere sui paesaggi e sull’ambientazione generale (cosa che, in verità, non stanca neanche troppo), Stalker è un film semplicemente perfetto: prima di tutto nella sua curatissima fotografia, e nella scelta di virare su due tonalità di colore distinte per ogni parte del film (seppia nella parte iniziale, colore pieno per la Zona).

    Peraltro la Zona sembra che sia stata ambientata in una zona contaminata da un incidente nucleare nella metà degli anni ’50, motivo per cui almeno tre persone dello staff sul posto perderanno la vita anni dopo (tra cui la seconda moglie del regista, xxx). Lo schema narrativo è talmente libero, in questa fase, che risulta anche difficile proporre vere e proprie interpretazioni, e addirittura sembra un azzardo provare a scriverci qualcosa di sensato – anche per via di molti riferimenti mistici a San Pietro ed agli ebrei. Di sicuro la struttura narrativa non sembra dissimile dal celebre cult Il mago di Oz (1939), nel quale assistiamo (anche in quel caso) ad un viaggio che condurrà i protagonisti a cercare un posto in cui realizzare i propri desideri. Che ciò avvenga sul serio o meno, del resto, in Stalker non sembra essere detto con chiarezza; e non sembra neanche sensato cercare una spiegazione logica o razionale, dato che il regista stesso ha invitato a vederlo con lo spirito di un viaggiatore che si rechi in posti mai visti prima (My ideal viewer watches a movie like a traveler observes the country he is visiting).

    Stalker è da qualche tempo disponibile gratuitamente sul web (audio originale russo sottotitolato) grazie all’iniziativa di OpenCulture.

     

  • Strange Days: gli strani giorni già immaginati a metà anni 90

    Strange Days: gli strani giorni già immaginati a metà anni 90

    Il film è ambientato nel Capodanno del 1999: l’alba del nuovo millennio viene proposta in una prospettiva completamente distopica. Nella New York del degrado e della repressione poliziesca, infatti, si arriva a spacciare le vite altrui in forma di filmati che è possibile iniettarsi direttamente nel cervello. In questo modo si attua una sorta di gigantesco file-sharing delle esperienze umane, fenomeno illegale ed aspramente combattuto dalle autorità. Lenny Nero è un ex poliziotto, licenziato con disonore, che pratica per sopravvivere la diffusione di questo tipo di materiale, e ne abusa egli stesso. Un giorno un’amica gli recapita un singolare wire-trip clip

    In breve. Un quasi-cyberpunk intenso e dai toni romantici, caratterizzato da una sceneggiatura molto intensa e con interpretazioni sempre all’altezza. Peccato, in definitiva, perchè in alcuni punti – tipo nell’approfondimento delle relazioni tra i personaggi – si perde in momenti mielosi che fanno quasi passare la voglia.

    Senza bisogno di scomodare Blade Runner – tutta un’altra faccenda, per la verità – e senza voler sparlare di una delle più prolifiche e creative registe statunitensi (Kathryn Bigelow, artefice del popolarissimo Point Break e dell’horror Il buio si avvicina), direi che Strange Days deve parte della sua fama ad una storia che “odora” molto di Philip Dick, e che potrebbe ricordare A scanner darkly. Certamente i presupposti sono micidiali: l’idea dello spaccio di esperienza altrui in prima persona è qualcosa di davvero molto interessante, che fa riflettere di rimando – tanto per rimanere sul banale – sulla spersonalizzazione che soffriamo nel quotidiano. Questo, di fatto, diventa un solido pretesto perchè queste allucinazioni, molto ben rese, possano fare da contorno ad una curiosa poetica in chiave cyberpunk. La chiave di lettura, come si scoprirà, sta nel misterioso clip che viene rivelato soltanto alla fine, e che mostra uno spaccato di triste realtà che potrebbe, di fatto, provocare una vera e propria Apocalisse.

    Grande merito, quindi, a James Cameron, davvero molto abile nel costruire lo script, e noto per essere stato il regista dei due Terminator (1984 e 1991), di Titanic (1997) e di Avatar (2009 – il che appare come un crescendo di delirio, a suo modo). Dal canto loro gli interpreti se la cavano egregiamente, a parte forse Juliette Lewis che sembra quasi imprigionata nelle caratteristiche del personaggio di Natural Born Killers, esprimendosi così in modo fiacco e poco convincente. A parte questo, potremmo dire che Strange Days inizia bene, prosegue meglio e finisce per annacquarsi, come un ottimo whisky mescolato con acqua di rubinetto, seguendo molti (troppi) dei dettami che l’industria hollywoodiana impone da decenni. Senza bisogno che li citi tutti: favorire l’identificazione del pubblico coi “Buoni”, rendere odiosi i “Cattivi”, rendere lineare la trama, sorprendere in modo piuttosto prevedibile e far trasparire una visione forzatamente ottimistica sull’amore che-viene-e-che-va.

    Molto dell’ accento viene posto, oltre che sui risvolti sociali (cittadino vs. polizia), sul romanticismo della vicenda, e la cosa potrebbe quasi risultare gradevole a qualcuno (beato lui): ma è un’arma a doppio taglio, un trucchetto per tenere viva l’attenzione, quasi come se qualcuno avesse deciso di cambiare i toni più o meno nell’ultima mezz’ora di film. Attenzione che poi, probabilmente intrigati dai mille dettagli della storia, finiamo per perdere del tutto, per orientarci su un volemose-bbene che dovrebbe rendere tutti felici. Ecco, l’ho detto: la nota stonata di Strange Days, al di là dal fascino magnetico di Angela Bassett (quasi tarantiniana nella sua interpretazione) e della bravura di Ralph Fiennes sta proprio nella colossale forzatura favolistica degli ultimi fotogrammi. Lo stesso effetto sgradevole che mi procurò il finale di AI – Intelligenza Artificiale, e chi lo ha visto dovrebbe intuire a cosa mi riferisco. Una cosa su cui non riesco a darmi pace, proprio perchè il concept di Strange Days è realmente esplosivo.

    Mi consolo comunque, solo parzialmente, ironizzando su certe battute, un po’ come faceva Nanni Moretti (“hai mai ZIGOVIAGGIATO? mmm, un cervello vergine“; ma l’originale era “hai mai filo-viaggiato“), e non posso esimermi dall’esprimere un’ulteriore critica sull’eccessiva lunghezza del film: certamente incalzante fino alla fine, ma quelle due ore sono interminabili. Mai davvero ruvido, graffiante e oscuro come l’ambientazione e l’attitudine imporrebbero: quindi, perlomeno, non si scomodino confronti con il capolavoro di Ridley Scott.

    Non certo da buttare, sia chiaro, anzi d’obbligo per molti spettatori assuefatti alle storielline facili: ma tanti altri possono tranquillamente fare a meno di guardarlo.