FacebookDown ha ribadito la nostra relazione tossica coi social

Esiste una clamorosa ambivalenza nel recente FacebookDown, quello che ha impedito anche a WhatsApp e Instagram di essere utilizzati per diverse ore (per inciso, a causa di un problema di DNS e routing: roba che alla “ggente” media che usa il webbe poco interessa).

Tale ambiguità è stata bene espressa, a mio modo di vedere, da Chiara Ferragni, che in una recente intervista ha dichiarato:

Da un lato ho gioito che venisse zittito, dall’altro ho pensato: possono toglierti tutto in un secondo.

Questa frase mi sembra emblematica di ciò che in molti abbiamo pensato, in effetti. Come a dire: siamo contenti che Facebook abbia chiuso battenti per un po’ – come quando l’amico simpatico si frena per un po’, ma al tempo stesso ci preoccupa questa possibilità. Siamo ancorati ad uno strumento che ci disturba, in molti casi, anche se non sappiamo bene perchè. Ancora meglio: quasi non riusciamo ad immaginare un mondo senza social network, ed in fondo ci attira – e ci spaventa – l’idea.

Sono i tratti di una relazione tossica che stiamo vivendo con quanto creato da Zuckerberg? Non esiste una risposta chiara a questa domanda, ma qualche spunto in merito lo possiamo rintracciare. Lo scrittore e attivista Cory Doctorow, qualche tempo fa, si è espresso a riguardo senza mezzi termini – nello specifico dopo la pubblicazione di informazioni riservate a livello aziendale:

l’azienda non solo compera i concorrenti in modo che gli utenti non abbiano un altro luogo dove fuggire, ma introduce intenzionalmente dei “costi di migrazione” elevati, in modo che lasciare il sistema sia più doloroso.

Ecco che ci risiamo: vorremmo andarcene, ma ci dispiace farlo, come quelli che non riescono a smettere di bere o fumare, o come avverrebbe con un partner aggressivo a cui pero’ siamo affezionati. È quel disagio in grado di creare comunque dipendenza affettiva, che disturba tanto più se pensiamo che è un software ad averla creato. Se ci si riflette un attimo, l’osservazione è molto pertinente, quasi paranoica: anche se uno decidesse di abbandonare Facebook pagherebbe, dopo tanti anni di uso, un prezzo fin troppo alto. E ma poi le chat, e ma i contatti, ma come faccio, non ci sono alternative. Chi molla il turbinio di considerazioni ad cazzum da uomo della strada e fake news a pioggia direbbe anche addio, primariamente, a tutto ciò che ha buttato personalmente dentro il walled garden.

Le foto dei cari estinti, degli amici con cui si è perso di vista, le chat di anni, tutto. E ciò che è peggio, più passa il tempo più questo effetto sarà evidente, e richiederà forza interiore per uscirne. L’ennesimo paradosso, del resto, sta nel fatto che non vuoi davvero abbandonare ciò che hai pazientemente costruito, come  la feature dei “ricordi”sembra suggerirti ogni giorno: guarda, ecco cosa facevi 3 anni fa! Davvero vuoi andare via [faccina da gatto di Shrek]?

Lo storytelling paranoide di queste situazioni racconta che Facebook sa tutto di noi: questa osservazione in fondo è corretta, ma rischia di diventare fuorviante. Facebook lo sa, ma è più corretto dire che lo custodisce nella sua memoria cloud. Il che sembra una differenza di poco conto o una questione tecnica (come quella del DNS di cui sopra) quando, in realtà, è una differenza sostanziale: è la stessa differenza tra avere un ricordo personale ed avere un segretario a cui dettiamo la nostra vita per farla custodire in tanti polverosi libroni. Virtuali, reali, che importa: sono lì, feticizzati e memorizzati, a ricordarci che esistiamo. Foto, testi, video. Viene in mente Lampo di Elio e le storie tese, un brano poco popolare che ironizza sulla manìa dei fan di scattare foto invece di gustarsi il concerto, con un passaggio significativo al suo interno che potrebbe adattarsi allo scopo.

Sai che mi hai davvero rotto il cazzo con le tue fotografie?
Io vorrei che tutte le mie facce rimanessero solo mie

Certi pensieri intimi, personali, non si possono (nè devono, forse) affidare ad un social, quale che esso sia: eppure tanta gente è caduta nella “trappola”, facendosi contaminare da questa curiosa “dipendenza” non da un prodotto o da una persona, ma da un mezzo. Niente male per uno strumento che chiama i contatti indistintamente “amici”, e che è riuscito a sedimentare questa situazione lavorando, peraltro, primariamente sul proprio profitto.

Anche se il tasso di abbandono della piattaforma sarà sempre più alto, nei mesi a venire, rimarrà comunque uno “zoccolo duro” di utilizzatori che faranno gola agli inserzionisti. Per cui sì, cancellatevi pure se volete, ma azzerate le aspettative, per ora, sul fatto che troppa gente possa seguirvi.

Photo by Clint Patterson on Unsplash

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