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  • Ai confini della realtà: Tempo di leggere (J. Brahm, The Twilight Zone, 1959)

    Ai confini della realtà: Tempo di leggere (J. Brahm, The Twilight Zone, 1959)

    The Twilight Zone“, o se preferite “Ai confini della realtà”, per un periodo è stata ampiamente tributata su Italia Uno: tempi lontani, quando di notte ci beccavi Zombi di Romero, qualche b-movie di Carpenter o sci-fi classica alla “L’ultimo uomo della Terra”. “Tempo di leggere” si colloca giusto nel filone apocalittico classico, e potremmo dire che in qualche modo ne pone le basi per quello che si vedrà in seguito. Come commentare oggi un episodio della saga di questa mitica serie di fantascienza?

    In breve. Vedere oggi un’opera così, bianco e nero che sa di preistoria, antesignano di qualsiasi b-movie sembra avere un che di fuori luogo e fuori tempo massimo anche per il blog come il mio. La “zona oscura”, dopo aver passato indenni le paure di un nuovo olocausto nucleare, di un’invasione aliena o di zombi, credo davvero non faccia più paura a nessuno. Eppure sono convinto che l’interpretazione di Burgess Meredith, per quanto in parte sopravvalutata, sia un punto fermo nella cinematografia sci-fiction, catastrofica e – in parte – anche horror.

    Del resto si parla di un episodio del 1959, dal ritmo rallentato e gradevole, con tanto di catastrofismo nucleare annesso: roba che per l’epoca doveva sembra più che avanti (forse soltanto Samuel Beckett aveva osato pensare tanto, in quegli anni, per un’opera d’arte audio-visiva). Passiamo all’episodio: Henry Danies è un impiegato di banca come tanti, un uomo qualunque, umile e modesto, follemente amante della lettura e caratterizzato dagli enormi occhiali “a fondo di bottiglia” che porta. Senza lenti, particolare essenziale per la storia, l’uomo non riesce a vedere nulla, il che diventa quasi una metafora del proprio miope disinteresse verso il mondo “reale” che lo circonda.

    Questa sua passione gli procura enormi problemi sul lavoro, dato che si distrae dai propri compiti e vive in modo completamente alieno dai propri colleghi: a casa le cose non vanno meglio, con una moglie-vipera che lo obbliga a fare cose di cui non gliene importa nulla. Una versione di impiegato sottomesso e goffamente sognatore che manco Paolo Villaggio in Fantozzi, a momenti, anche se privato del tono parodistico della nota serie. L’uomo, ad un certo punto, deciso a ritagliarsi un po’ di “tempo per leggere”, si rinchiude nella cassaforte della propria banca portando con sè un bel malloppo di libri. Poco tempo dopo, un boato immenso interrompe la sua attività: ed è così che scopre, con grande sorpresa, che la bomba H ha raso al suolo la sua città, uccidendone tutti gli abitanti. Unico sopravvissuto, ancor più solo di quanto non fosse prima, vaga disperatamente alla ricerca di qualche appiglio: ma non può fare altro che constatare di essere rimasto solo. Stavolta sul serio.

    Così torna alla propria abitazione, girovagando per una città distrutta nella quale sembrano mancare solo i teppisti di Fuga da New York, e in preda quasi alla follia ricomincia a vivere. Almeno ci prova: sul proprio divano, ad esempio, piazzato tristemente nel bel mezzo delle macerie. In una specie di teatro dell’assurdo fatto di calcinacci, Henry arriva all’unico luogo in cui riesce a trovare la propria dimensione: ma qualcosa di inaspettato cambierà nuovamente la sua esistenza per sempre.Credetemi, rispetto ai tempi si tratta di un vero e proprio cult della mitica “Twilight Zone”.

    Nota: in un episodio dei Griffin compare l’ultimo neurone di Peter nei panni dell’impiegato Henry Danies.

  • The babysitter: un gioco cinematografico (riuscito) sullo stereotipo della babysitter sexy

    The babysitter: un gioco cinematografico (riuscito) sullo stereotipo della babysitter sexy

    Cole (Judah Lewis), un ragazzino timido ed impacciato, è innamorato di Bee, la sua babysitter (Samara Weaving): una sera che i genitori sono fuori casa, decide di rimanere sveglio per curiosare. Scopre così un’incredibile verità sulla ragazza…

    In breve. Comedy horror dai toni leggeri e scanzonati, che ricorda una sorta di versione parodico-splatter di un classico anni ’90 come Home alone. L’ideale per una visione spensierata, e sostanzialmente gradevole, per chiunque (o quasi).

    Quello di The babysitter è un humour nero goliardico e scanzionato, in parte derivativo dallo splatter demenziale alla Bad Taste (in versione meno insistita e b-movie), che strizza l’occhio alle dinamiche delle commedie americane (protagonista, antagonisti-bulli, vicina di casa, …), infarcendole di splatter e violenza – quest’ultima piuttosto ben dosata, e priva di veri e propri eccessi. Se i toni iniziali sono quelli zuccherosi delle prime, ben presto arriveranno le esagerazioni, in un crescendo difficile da prevedere quanto apertamente “fumettistico” nell’impostazione.

    Del resto la storia del nerd pre-adolescente bullizzato dai compagni, con al seguito vicina di casa e baby-sitter super provocante (e dai trascorsi non impeccabili, come si scoprirà) sembrerebbe di suo gettare le basi per una saga genuina, ricca di perle divertenti come (forse) non se ne vedevano dai tempi del primo Scary movie. Il film finisce ovviamente per simboleggiare il processo di crescita del piccolo Cole, da introverso ed imbranato ad inaspettatamente coraggioso e realista; The babysitter, di suo, ricorda molto da vicino un ibrido tra La casa 2 di Sam Raimi e Mamma ho perso l’aereo di Chris Columbus.

    In fondo Cole non è che un Kevin McCallister altrettanto imbranato quanto, stavolta, alle prese con un’imprevista home invasion da parte di un gruppo di satanisti. Il paragone con questo classico degli anni ’90, del resto, ci invita a goderci il film per quello che è, per una volta senza scomodare paragoni e considerazioni troppo profonde e, al tempo stesso, omaggiando in maniera spudorata vari classici del genere. Se nel film di Raimi l’horror cruento e senza speranza aveva ceduto il passo ad una riedizione insistita quanto parossistica fino al demenziale dello splatter, in The babysitter la lezione viene colta appieno e rielaborata, dando spazio a nuove situazioni paradossali e dialoghi surreali tra gli antagonisti. Da godersi per quello che è e per una serata senza troppi pensieri, insomma.

    La regia di “The babysitter” – distribuito su Netflix a partire dal 13 ottobre di quest’anno – è affidata a McG ovvero Joseph McGinty Nichol, già noto per Terminator Salvation e per vari documentari su Offspring e Cypress Hill, che dirige con classe questo particolarissimo film, facendo trasparire una forte influenza tarantiniana nell’impostazione, a partire dai titoli in sovraimpressione da cine-fumetto a finire con le situazioni sanguinolente e surreali che si verificheranno.

  • Dal 1971: “La coda dello scorpione” di Sergio Martino

    Dal 1971: “La coda dello scorpione” di Sergio Martino

    Raro esempio di cinema di genere italiano senza titolo chilometrico, “La coda dello scorpione” è un giallo a tinte horror di Sergio Martino che segue la scia inventata e “benedetta” in qualche modo da Dario Argento.

    In breve. Discreto film, non un capolavoro ma tra i migliori del genere: la trama procede senza grosse forzature, in certi momenti l’intrigo sembra degno di un film di Hitchcock e non ho rilevato i classici “buchi” che abbondano in film di questo tipo.

    Una donna incassa un’assicurazione sulla vita del marito da 1 milione di dollari, e dopo diverse minacce rimane vittima di un omicidio. Le indagini volgono inizialmente in un modo abbastanza confuso, nel classico meccanismo che vede tutti coinvolti e tutti potenziali indiziati. Fino ad arrivare ad un inaspettato finale che mostra come spesso la realtà più semplice ed ovvia possa coincidere con l’agognata verità. Inaspettato ovviamente per chi non colga i dettagli rivelatori nascosti nella prima e nella seconda metà dell’opera…

    L’interpretazione degli attori è certamente a buoni livelli: tra gli altri, sopra le righe abbiamo l’interpretazione del commissario di polizia Luigi Pistilli (lo scrittore de “Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave”), l’icona del genere George Hilton e la splendida giornalista Anita Strindberg. Il regista probabilmente abusa visivamente delle generose forme di quest’ultima, ma in fondo questo rende tale film ignoto ai più ancora più “cult”. Neanche a dirlo, il titolo riguarda un particolare non da poco per la spiegazione dei misteri…

    Se ci fosse bisogno di dirlo, sembra in più di un’occasione di assistere ad un tributo a Dario Argento: camera fissa, bambole senza occhi, quadri inquietanti, omicidi scenografici (tuttavia non eccelsi). Molto originale l’utilizzo dello slow-motion nella scena in cui l’asssassino tenta di forzare una porta e la povera vittima di turno corre per cercare di bloccarla. Non a caso, poi, la prima scena “clou” avviene sul palcoscenico di un teatro – e come in Quattro mosche di velluto grigio si assiste ad un tentato omicidio anche lì! Non voglio pensare ad un plagio, sia chiaro, tuttavia certe scelte stilistiche sono certamente dettate da quanto ha “deciso” Argento coi sui primissimi film. Insomma, gli appassionati del genere troveranno pane per i propri denti, al di là del tasso erotico del film e della violenza esplicita di alcune sue scene (bottiglia scheggiata in un occhio, “tagli” chirurgici dell’assassino, finta autopsia).

    Da vedere per curiosità, se non l’aveste già fatto.

  • Mario Bava: oggi ho visto “Lisa e il diavolo”

    Mario Bava: oggi ho visto “Lisa e il diavolo”

    Durante una visita turistica a Toledo Lisa, una giovane turista, si allontana dal gruppo e finisce a visitare un negozio di artigianato, all’interno del quale trova un inquietante figuro dai modi piuttosto gentili (Telly Savalas, il Theo Kojak che tutti ricordano), somigliante tremendamente ad una raffigurazione demoniaca vista in un dipinto poco prima. All’improvviso Lisa sembra ritrovarsi catapultata in un mondo diverso da quello in cui trovava…

    In breve. Un ottimo film dall’atmosfera oscura ed avvolgente, capace di raccontare una storia terribile con grande classe: da non perdere.

    Recuperato solo nel 2004 (fonte), si tratta probabilmente di uno dei film più suggestivi di Mario Bava, che segna un passo importante nella sua cinematografia e che rappresenta per vari versi un vortice di parallelismi, ambiguità e doppi fili che si sveleranno soltanto nel finale. Nel frattempo Lisa, interpretata da Elke Sommer nonchè ovvio archetipo di bellezza “settantiana”, finirà per smarrirsi modello Alice, in una storia in cui i personaggi figurativi di un dipinto sono diventati reali, il marito della protagonista assume le sembianze di un fantoccio e si scomodano vari simbolismi, per l’epoca, piuttosto suggestivi e tutt’altro che scontati (l’orologio che si spacca, la confusione deliberata e mai chiarita tra sogno e realtà). Se è vero che il mutare dell’ambiente attorno alla protagonista lo rende quasi archetipico di molte altre storie di orrore surreale a venire, si aggiunge un immancabile elemento romantico alla storia, capace così di evidenziare un amore impossibile che, neanche a dirlo, sfocerà nella più nostalgica e inquietante necrofilia.

    Non è azzardato pensare, a posteriori, che ad esempio il Fulci più visionario possa essersi ispirato a questa pellicola qualche decennio dopo (L’aldilà e soprattutto Quella villa accanto al cimitero), confermando così un merito artistico enorme per chi, invero modestamente, si definiva un semplice artigiano dell’orrore. Altri personaggi ed ambienti che popoleranno l’intreccio, tra cui la villa labirintica in cui si svolge la maggioranza della vicenda, il figlio succube di una madre autoritaria (e cieca), nonchè la continua ed insistita ambiguità tra vita e morte, conferma “Lisa e il diavolo” come uno dei migliori film del terrore “puri” di Mario Bava (probabilmente solo dopo La maschera del demonio). Alla morte non si sfugge, sembra voler ricordare il regista, come già un anno – con toni più accentuati e da exploitation di quelli gotici visti in questa sede – all’interno di Reazione a catena.

    Il film venne distribuito come “Lisa e il diavolo” (fedele alla volontà di Bava) ma anche, con l’inserimento di scene extra e di un parziale stravolgimento “esorcistico” della trama (per volontà del produttore, e sulla scia del noto film di Friedrick) come “La casa dell’esorcismo“; attualmente esistono due versioni in commercio del film, la prima della RaroVideo che comprende entrambe le version,i e la seconda della Minerva Pictures contenente soltanto la seconda.

    “Ma come posso combatterti se non ti fai nemmeno vedere? Ma dove sei, vigliacco, esci dalle tenebre, fa’ che io ti veda!”

     

  • La morte avrà i suoi occhi: un film da recuperare subito

    La morte avrà i suoi occhi: un film da recuperare subito

    Una donna abita da sola in una baita sperduta (etteparèva) e riceve la visita di uno sconosciuto (Malcom McDowell) che chiede di poter fare una telefonata. I due iniziano a parlare ed a conoscersi, mentre aleggia una diffidenza reciproca…

    In breve. Film semi-sconosciuto e di taglio tipicamente ottantiano, in cui emergono tutti (o quasi) i topos della tensione e del thrilling del periodo. Il risultato finale riesce incredibilmente a sorprendere, soprattutto nel finale. Da vedere.

    Si può fare un lungometraggio thriller con due soli personaggi? Probabilmente è possibile farlo, e una consistente prova in tal senso è data da questo film: basandosi su un bel soggetto di Michael Sloane e sull’interpretazione di due eccellenti attori (Malcom McDowell di Arancia meccanica e Io, Caligola, e l’intrigante Madolyn Smith Osborne), il film si apre con un incipit inquientante (una fotografia ed un’ascia che si abbatte su qualcosa o qualcuno), e racconta dell’incontro casuale tra un uomo ed una donna. Il primo si trova con la macchina in panne, e si rivolge alla seconda per fare una telefonata: dall’incontro nasce una sorta di interesse morboso che nessuno dei due sembra disposto ad ammettere, e che finisce per delinearsi in una specie di lotta psicologica in cui non si capisce chi sia la preda e chi il predatore.

    Diffidenza tra due estranei, dunque, ed una lunghissima analisi del rapporto conflittuale tra essi (giocato quasi esclusivamente sul piano mentale), con uno che cerca di sopraffare l’altra (e viceversa), delineando una delle più ambigue relazioni tra personaggi mai viste su uno schermo. A differenza di molti altri epigoni del genere, del resto, costruiti su buone storie ma sofferenti di dialoghi spesso carenti e poco attrattivi, “La morte avrà i suoi occhi” possiede un buon ritmo e intreccia le storie dei due protagonisti con grande stile. Questo contribuisce a far salire enormemente il livello della pellicola, nonostante la relativa semplicità della messa in scena – un paio di esterni e la casa di lei – e la presenza di indizi piuttosto abusati (le bambole decapitate, la fantasia che si confonde con la realtà). Il finale mostra un cambio di toni assolutamente inattesi e – cosa davvero notevole – in parte anche di genere, cosa che potrebbe spiazzare lo spettatore e per rendere il titolo italiano quasi fuorviante (“The caller“, per la verità, non fa capire molto di più).

    Una buona idea, decisamente originale ed intrigante, per un film con poca azione e molto dialogo, assolutamente funzionale alla bizzarra trama ed ancora più weird nella spiegazione del tutto.