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  • Marebito: un horror orientale originale e imprevedibile

    Marebito: un horror orientale originale e imprevedibile

    Un piccolo capolavoro del regista di Ju-on, che mescola voyeurismo, vampiri in chiave moderna ed orrori metropolitani.

    In breve: diretto, lontanto dal linguaggio stereotipato di certo horror nipponico, molto ben realizzato. Una chicca per tutti gli amanti dell’horror.

    “F non mangia niente, non beve nessun liquido, neanche l’acqua… F è arrivata da un mondo in cui non aveva bisogno di parlare”

    Due parole sui V.I.P. di questa pellicola (scrivere pellicola fa molto recensore anni ’70 con macchina da scrivere e J&B a portata di mano, per cui ne abuserò volentieri): il regista Shimizu è noto ai più per aver diretto la saga di Ju-on e The grudge, mentre il protagonista Tsukamoto ha diretto il manifesto cyberpunk Tetsuo. E’ necessario tenere presente questi due aspetti, perchè si possono rilevare da una parte nella regia ossessiva e truculenta (mai fine a se stessa), e dall’altra dal piglio morboso e paranoico con cui Shynia-attore caratterizza il suo personaggio. Addirittura in alcuni momenti la sua vista da umano appare disturbata come una videocassetta sbiadita, evidente auto-citazione del metal fetishist del suo film più noto. Per quanto riguarda l’intreccio, che è piuttosto lineare nonostante i presupposti per così dire poco rassicuranti, l’ispirazione sembra essere stata il cult anni 60 “Peeping Tom- L’occhio che uccide“.

    Noi tutti proveniamo dal fondo degli oceani… dovrebbe saperlo, no? Schiacciati dalla pressione delle acque, possedevamo una saggezza più elevata.

    Nel film Masuoka è un cameraman freelance di Tokio, ossessionato dalle riprese con la telecamera, strumento che si porta  sempre dietro: con questa riprende tutto il mondo che lo circonda, alla ricerca della visione più terrificante che abbia mai visto, quella che possa finalmente risvegliarlo dal torpore che lo rende triste ed apatico. Nel suo ultimo servizio l’uomo ha realizzato una specie di snuff, ovvero un suicida in diretta nella galleria della stazione metropolitana, morto per motivi misteriosi. L’interesse per questo genere di video (o di realtà?) appare in modo evidente perchè all’inizio, tra le sue videocassette, vi è proprio un filmato di questo tipo (l’aguzzino e la vittima sono entrambi mascherati, per cui non riusciamo a saperne di più). Attenzione, pero’: non abbiamo di fronte il solito ritratto stereotipato da serial killer alla Henry, perchè il protagonista sta piuttosto cercando di sublimare al massimo l’orrore, in modo estramamente introspettivo, solo per arrivare alla redenzione finale.

    “Poco fa sono salito su un treno senza guardare la destinazione…”

    Per scoprire cosa avesse tanto spaventato il suicida, Masuoka torna sul luogo del fatto, e seguendo un misterioso tunnel (visto in una specie di allucinazione fatta di schermi televisivi sovrapposti) effettua una sorta di discesa negli inferi. A quanto risulta nel seguito non solo i sotterranei di Tokio sarebbero pieni di freak e vagabondi misantropi, ma anche di veri e propri fantasmi di sembianze umane, pure piuttosto loquaci (tra cui il suicida ripreso dal protagonista, che tra sogno e realtà continuerà a lungo a parlare con lui). Inoltrandosi all’interno dell’underground metropolitano (e i dubbi che si tratti di una pesante allucinazione non mancano), alla fine Masuoka incontra una giovane donna, tenuta incatenata all’interno di un mondo fuori dal tempo, che decide di liberare e riportare in superficie.

    “Il terrore assoluto ci deriva da quell’antica saggezza, che a volte riemerge dal nostro inconscio…”

    Scomodando sapientemente richiami alla mitologia giapponese del marèbito e dei dèros, a H.P. Lovecraft – in particolare alla città fantasma de “Le montagna della follia” – alle leggende metropolitane delle città sotterranee e alla teoria della terra cava, Shimizu confeziona un horror truculento quanto basta, molto gradevole nonostante la forma faccia temere qualcosa di eccessivamente contorto (e non è affatto così), di grande ritmo, molto intrigante e ben confezionato. F, chiamata con una sola iniziale neanche fosse un  personaggio kafkiano, è una sorta di vampira inquietante che non dice una parola, a cui il protagonista si affeziona al punto tale da allevarla, seguirne le mosse con una telecamera collegata col suo cellulare, instaurare un ambiguo rapporto e procurarle una vittima per nutrirla – probabile citazione del primo HellRaiser. In tutto questo, mentre si insunua il sospetto che l’essere non sia altro che la trasfigurazione in chiave horror della propria figlia adolescente, si trova spazio per fare macabra ironia (il biberon di sangue è semplicemente da antologia).

    “E’ sempre affascinante… un volto terrorizzato…”

    Come nella tradizione noir la voce del protagonista commenta quello che avviene fuori campo; d’altro canto gran parte del film è girato con una videocamera amatoriale, dando l’idea che si tratti quasi sempre della ripresa di un cameran solitario, vagamente voyeur, senza un passato e con una moglie ed una figlia di cui non vuole ricordare nulla. Del resto il consueto messaggio contro la morbosità dei media rimane un vago accenno iniziale, perchè come nella tradizione nipponica sono i tormenti dell’uomo a venire svelati. Nonostante quindi alcuni aspetti rimangano fondamentalmente insoluti (chi è l’interlocutore che informa Masuoka dell’identità della ragazza? Masuoka è davvero disceso negli “inferi metropolitani”? Cosa è reale e cosa è solo immaginato dal protagonista?), si tratta di un film decisamente da riscoprire e (ri)vedere.

    Così ora ho perso le parole… anche perchè non mi servono più

  • Doppelgänger: il tema del doppio nella fantascienza di fine anni 60

    Doppelgänger: il tema del doppio nella fantascienza di fine anni 60

    Uno scienziato scopre un nuovo pianeta nel nostro sistema solare: la cosa viene coperta dal massimo riserbo e si organizza una spedizione conoscitiva in fretta e furia. I due astronauti selezionati scopriranno una realtà davvero singolare sul nuovo pianeta…

    In due parole. Un classico della fantascienza di fine anni 60, diretto da Robert Parrish e scritto dai produttori Gerry e Sylvia Anderson. Si sviluppa in una storia semplice e piuttosto suggestiva che ha a che fare col tema del “doppio”: si immaginano due mondi paralleli che scambiano i rispettivi “cloni” da una parte all’altra dello spazio. Oggi probabilmente fa sorridere, per l’epoca fu un bel colpo.

    Un esempio di fantascienza classica piuttosto ordinaria, costituita su un intreccio diretto, discreti effetti per l’epoca e pochi e semplici personaggi, che non perdono occasione per mostrare caratteristiche topiche molto ben riconoscibili: l’astronauta americano sicuro di sè, lo scienziato avulso dai compromessi, la moglie infida, il capo senza scrupoli.

    Sembrerebbe un campionario di caratteri talmente ovvio da indurre di smettere la visione dopo massimo mezz’ora: eppure, alla fine dei conti, Doppelgänger conquista. E lo fa sulla falsariga delle teorie scientifiche dell’epoca, evidentemente: già a metà anni 50 effettivamente si riuscì a riprodurre antiprotoni ed antineutroni. Ovviamente il concetto, per rendere la narrazione più accattivante, viene esteso alle esistenze dei vari personaggi, vite private incluse, che si ritrovano in un mondo riflesso a milioni di chilometri di distanza, dalla parte opporta rispetto al sole. Riflesso, in effetti, di nome e di fatto, visto che avviene uno scambio di persona: l’astronauta della Terra finisce sul pianeta Terra “gemello”, vive in particolare un momento di disorientamento e poi scopre di riuscire a leggere soltanto attraverso uno specchio.

    Il riflesso dell’altro (o di noi stessi) – ne Il signore del male di John Carpenter gli specchi avevano una valenza di porte dimensionali, ad esempio – diventa qui una scusa non tanto per scomodare improbabili simbolismi, quanto per mostrare psichedelia, senso di confusione, avidità e mancanza di scrupoli di certi individui. L’esito della nuova missione, atta a stabilire la verità, sarà tutt’altro che scontato, per quanto resti allo spettatore qualche dubbio sulla sostanza di quello che si è visto, a maggior ragione che il film sembra piuttosto “rigido” dal punto di vista scientifico. “Doppia immagine nello spazio” è certamente un cult nell’ambito del cinema di fantascienza, ma francamente credo che la pellicola sia surclassata da numerosi epigoni: basti pensare al celebre “Il pianeta delle scimmie” (1968), capace di provocare i brividi ancora oggi basandosi su una sorta di simile “dualità”, per quanto non tra uomini-specchio bensì tra scimmie ed umani. Teoria, quella di “Doppia immagine”, forse curiosa per l’epoca, ma anche tra le meno flessibili a disposizione degli sceneggiatori, che si ritrovano necessariamente vincolati a “telefonare” un po’ la vicenda, rendendola un po’ scontata a mio vedere (ogni pianeta riflette i comportamenti dell’altro, proprio come due mondi paralleli). Interessante, ad ogni modo, il fatto che la specularità del “mondo parallelo” sia visibile dalle immagini invertite sullo schermo: uno stratagemma semplice e geniale, a suo modo, per rendere l’idea anche agli spettatori meno esperti.

    Del resto si azzarda, ma non troppo: basti pensare a Le orme (che uscirà solo 5 anni dopo), in effetti, con la sua fantascienza frammista di allucinazioni, thriller e tensione – che è comunque molto più “pluri-genere” di quanto non sia Doppelgänger – per capire come ci si potesse spingere oltre realizzando film di questo tipo, rendendoli già all’epoca realmente memoriabili. Altri dettagli sul film si trovano sulla rivista Terre di confine.

  • Pi greco (π) Il teorema del delirio: il film cerebrale e intricatissimo di Aronofsky

    Pi greco (π) Il teorema del delirio: il film cerebrale e intricatissimo di Aronofsky

    Un matematico sembra in procinto di scoprire un modello che possa prevedere le quotazioni in borsa: nel frattempo viene spiato da alcuni dirigenti di Wall Street, ed un gruppo di ebrei ortodossi lo contatta perché interessati ad approfondire la numerologia della Kabala…

    In breve. Un buon film “indie“, piuttosto impegnativo dal punto di vista concettuale (specie se non avete idea di “dove stia di casa” la matematica), ma altrettanto interessante sul piano filosofico: indaga sui misteri della mente e sulla smània di scoprire l’ignoto, portando il tutto ad estreme conseguenze, con tanto di allucinazioni lynchiane e qualche sprazzo di horror letteralmente “cerebrale”.

    Rielaborando astutamente il mito di Icaro, il regista Aronofsky elabora una sceneggiatura che ricorda una versione underground di “A Beatiful Mind” e che, di fatto, risente pesantemente di tutto un cinema di fantascienza, nel quale le attività del protagonista si ripercuotono in modo alienante sulla sua vita di ogni giorno. Il matematico Max è l’archetipo di nerd troppo cresciuto: uno scienziato solitario ed introverso, capace comunque di mostrare un animo sensibile (ad esempio quanto gioca a calcolare mentalmente complesse moltiplicazioni con la figlia della vicina, vero punto chiave del film), incapace quasi del tutto di rapportarsi all’altro sesso. Senso di solitudine simboleggiato, nel film, dal fatto che poco prima di premere il tasto “Invio” per avviare i sospirati calcoli, avverte l’ansimare erotico dei vicini proveniente dall’appartemento a fianco. Un messaggio che sembra calare pesantemente sugli spettatori più empatici, come a suggerire come l’unico tipo di amplesso per Max sia quello tra uomo e macchina (come già avveniva in Videodrome), capace di generare esclusivamente follia, servendo in tal modo anche da mònito.

    Pi Greco – Il teorema del delirio” ha avuto un discreto successo al Sundance Film Festival, ed il regista ha ricevuto un premio (Independent Spirit Award) per la miglior sceneggiatura d’esordio, che ha firmato dopo un lavoro iniziato nel 1998. Un buon lavoro che lascerà soddisfatto lo spettatore fino alla fine, ricco di suggestioni allucinatorie spesso in bilico tra realtà e finzione, e specie per le conclusioni decisamente “umanizzate” del finale. Di fatto, il messaggio non sembra tanto incentrato sul poter realmente riuscire a modellizzare l’universo con la matematica, quando sulle devastanti conseguenze di questa ossessione sull’animo dei due matematici protagonisti (l’allievo Max ed il suo maestro).

    12 e 45. Enuncio di nuovo la mia teoria. Primo, la natura parla attraverso la matematica. Secondo, tutto ciò che ci circonda si può rappresentare e comprendere attraverso i numeri. Terzo, tracciando il grafico di qualunque sistema numerico ne consegue uno schema, quindi ovunque, in natura, esistono degli schemi

  • Venerdì 13: il capolavoro di Sean Cunningham

    Venerdì 13: il capolavoro di Sean Cunningham

    Venerdì 13 giugno 1980: un gruppo di teenager si reca a Camp Crystal Lake, un campeggio che sta per riaprire dopo che, 20 anni prima, era stato commesso un efferato delitto ai danni di una coppia di giovani…

    Uno dei film slasher più popolari: imprevedibile, cinico e crudele. Non il primo, dato che il modello di riferimento sembra essere Reazione a catena di Mario Bava (1971), senza contare che un villain “parente” era stato presentato da John Carpenter con Halloween l’anno precedente. Siamo di fronte al primo vero successo commerciale del genere: l’assassino colpisce con inaudita ferocia, il sangue si dosa con cura, il volto del killer si vede solo alla fine e, al di là di qualche sbavatura, si tratta di un film di enorme valore storico. Buona prova di regia di Cunnigham, ottimi momenti di tensione e (forse) troppa oscurità ed attesa prima della rivelazione finale.

    “Il bambino… è morto anche lui? Il bambino… Jason! È ancora lì…”

    La critica non fu mai troppo buona verso questa opera, ed è bene ricordarlo anche oggi – anche per sottolineare il senso della rivalutazione (solo parziale, per la verità) a cui si è arrivati. Gene Siskel non solo definì il regista “una delle creature più spregievoli che abbiano mai infestato il movie business“, ma arrivò a pubblicare l’indirizzo privato di Betsy Palmer incoraggiando i detrattori a scriverle il loro disappunto (una cosa molto english, in effetti). Non pago, dedicò una puntata del suo programma (assieme al critico Roger Ebert) sostenendo che il film spingesse il pubblico a fare il tifo per l’assassino, e che in questo si manifestasse la sua essenza: oggi sembra scontato scriverlo, ma è proprio così – ed è sintomatico del fatto che il film funzioni. Non solo: c’è una discreta probabilità (ma bisognerebbe fare una ricerca approfondita, in tal senso) che il feeling di “tifare per il cattivo” (tipico di certi Nightmare, in effetti) sia stato inventato da questo film, invertendo la tendenza delle vecchie pellicole exploitation in cui il cattivo era semplicemente rivoltante o spregevole per il grande pubblico, e mai avresti potuto stare dalla sua parte.

    Non è banale discutere il capitolo introduttivo della saga di Jason Woohres, del resto, non fosse altro che gli episodi usciti negli anni sono stati troppi e troppo diluiti, e sembrano aver fatto di tutto, negli anni, per disinnescare anche i fan più incalliti. Eppure l’idea di fondo era straordinaria, per quanto tipica di un filone – quello degli slasher / teen horror con (doppio) finale shocking: Un Natale rosso sangue, Silent night, bloody night, Sleepaway Camp. La paura che induce l’inquietante Jason – fuori dall’umano e dotato di forza incredibile, capace di resuscitare un numero indefinito di volte, e sul quale si ironizzò in celebri parodie horror come il primo Scary Movie (cichi-cichi, ciaca-ciaca) – si affianca alle debolezze, paradossali, che lo caratterizzano: la paura di una madre ossessiva e dell’acqua (quest’ultima sarà più evidente nel successivo spin-off con Freddy Krueger, Freddy VS. Jason). In questo film, comunque, il “ragazzone” è tutt’altro che esplicito, anche perchè il vero protagonista è solo un’ombra, una mano inquietante e sadica e che si rivelerà solo alla fine. Contrariamente a quello che potremmo aspettarci, in questa sede non vi è traccia di quello che è noto come l’assassino con la maschera da hockey, che comparirà dal secondo episodio in poi.

    Jason venne concepito, curiosamente, prima come vittima che come carnefice, e ci volle l’intervento del produttore esecutivo Steve Miner (che passò alla regia nei successivi due episodi) per farlo diventare uno dei più famosi killer della storia del cinema. Il film viene ricordato per sequenze cult memorabili, come quella in cui un ragazzo viene trafitto da un coltello attraverso il letto, mentre la storia scorre in modo lento, inesorabile e mai prevedibile. Non mancano accenni di exploitation classici dei teenage horror – lo strip-monopoli (!), la ricerca di marijuana, qualche scena di sesso e nudi prevalentemente femminili mai davvero indispensabili. Non mancano tòpos classici che si rivedranno in molte altre salse, tra cui lo “scemo del villaggio” che esorta i giovani a scappare via, che splatter recenti come Dead Snow riprenderanno con precisione millimetrica. Il vero tributo, citato solo negli anni recenti, comunque, rimane il nostrano Mario Bava ed il suo celebre film, assai simile per certi aspetti, Reazione a catena: l’ascia piantata in testa di una vittima è probabilmente una delle scene più emblematiche di tale ispirazione.

    Indimenticabile la colonna sonora, costituita da un tema classico da giallo alla Psyco e che non avrebbe certo sfigurato nei capolavori di Hitchcock; a riguardo del celebre tema vocalizzato della colonna sonora, Harry Manfredini raccontò di aver voluto evocare la frase “kill… kill kill, mom… mom mom“, effetto che ottenne applicando un delay alla propria voce in un microfono. Nella versione italiana, invece, Camp Crystal Lake diventa invece l’orripilante “Lago Campo di Cristallo”, che suona così male da far venire la voglia di vedere il film in lingua originale.

    In definitiva il primo Venerdì 13” disturba per la sua essenzialità, per il suo lugubre cinismo e per il fatto che molti aspetti rimangano insoluti: uno schiaffo alla razionalità che rispetta appieno lo scopo di un thriller/horror, ovvero quello di esasperare le paure, e di esporle al pubblico senza riguardi.

  • Sette orchidee macchiate di rosso: il giallo settantiano di Lenzi

    Sette orchidee macchiate di rosso: il giallo settantiano di Lenzi

    Soggetto e regia firmati da Umberto Lenzi, musiche di Riz Ortolani: un giallo classico con tanto di assassino “classico” in impermeabile, cappello e guanti neri.

    In breve. Il terzo giallo in ordine cronologico di Lenzi regala qualche perla visiva, e merita certamente una visione anche oggi. Non il migliore in assoluto, ma sicuramente tra i più considerevoli visivamente parlando.

    Umberto Lenzi, due anni prima di partorire uno propri capolavori (Milano odia… la polizia non può sparare), dedica la propria attenzione ad una serie di gialli – thriller piuttosto atipici, che regalano discrete perle allo spettatore seppur con qualche difetto congenito a livello narrativo. Uno di questi è proprio Sette orchidee macchiate di rosso (del 1972), un thriller basato su sette misteriosi omicidi legati da un unico filo conduttore, che saranno proprio i protagonisti a scoprire. La storia è molto ricca di dettagli e merita di essere espansa, ovviamente evitando di rivelare dettagli basilari per chi non conoscesse il lavoro ma, al tempo stesso, per rendere omaggio al tentativo di realizzare un giallo solido ed intrigante, seppur con qualche pecca innata. Il vero punto di forza del film, ad ogni modo, sono le riprese e la forte teatralità di molte sequenze, non tanto la storia che comunque, a mio avviso, merita qualche approfondimento.

    Il maniaco in questione è l’assassino “della Mezzaluna”, che lega i porpri omicidi ad un movente legato ad uno strano amuleto. Il serial killer uccide inizialmente una donna nel sonno che tiene sul comodino la foto di una prostituta (Marcella detta “La toscana”), la quale finirà poco dopo anch’essa nelle sue grinfie. L’assassino lascia in mano alla donna uno strano amuleto d’argento a forma di mezzaluna, che diventerà la sua “firma”. La seconda vittima è la bionda Katy, assalita e soffocata a casa propria in un crescendo di tensione veramente notevole, che materizza una delle migliori scene del film (assieme al successivo omicidio con il trapano). Poco dopo la promessa sposa (Giulia) del responsabile di un grosso atelier, Mario, viene accoltellata sul treno mentre il compagno si era brevemente allontanato, e si salva in extremis per l’arrivo del controllore. Da questo momento scattano le ricerche da parte della coppia, che indaga per conto proprio – come nella tradizione del giallo all’italiana: la catena di delitti sembra legata ad una lista di persone che occupavano un albergo che era precedentemente gestito proprio da Giulia. Nel frattempo la polizia, come tradizione del genere vuole non troppo brillante, sembra aver trovato ed arrestato un colpevole. Neanche a dirlo una nuova donna (Rossella Falk) con manie di persecuzione, rinchiusa in una casa di cura, viene annegata dentro la vasca da bagno nell’incuria dell’infermera che avrebbe dovuto accudirla. Il conteggio degli omicidi arriverà infine a sette vittime, come prevedibile dal chilometrico titolo, stereotipato come, del resto, l’intreccio stesso in puro stile argentiano.

    Alcune ambiguità disseminate  nella trama fanno pensare che il marito sia in qualche modo a conoscenza del movente, sulla falsariga delle dinamiche giallistiche argentiane, ma basta poco perchè il dubbio nella spettatore possa dissolversi. Un americano abbastanza ambiguo viene fuori poi come persona a conoscenza dei fatti, e sulla base delle sue indicazioni si va a definire l’identità di un certo Frank Sauders. La verità uscirà fuori in modo abbastanza contorto, con tanto di interessante doppio finale, ma il film soffre di qualche pecca, che lo rende un po’ pesante per lo spettatore poco attento. Del resto Lenzi non è Argento, ma questo ovviamente ridimensiona solo in parte il primo, capace in compenso di cimentarsi in molti altri generi (horror puri come polizieschi cult).

    Lenzi comunque, va detto in suo onore, costruisce in modo intelligente un intrigo giallistico coinvolgente, recitato in modo convincente e con momenti di autentica suspance. Esistono molte idee interessanti in questo film, in parte anche innovative e cariche di significativi colpo di scena; un film che si segnala nel proprio genere, pertanto, in una giungla cinematografica caratterizzata da qualità incostante e, a proprio modo, memorabile perchè fuori dai canoni usuali. Lenzi lo amava solo in parte, apprezzandolo per via delle riprese superlative (“superbly shot”) e molto meno dal punto di vista narrativo (“pedantic”, ebbe a dire a riguardo).