Blog

  • The signal: un horror fuori norma da riscoprire

    The signal: un horror fuori norma da riscoprire

    Film dai toni post-apocalittici diviso in tre parti, raccontato da altrettante prospettive diverse, ed incentrato su un misterioso segnale audio, diffuso mediante radio, TV e cellulari, in grado di trasformere le persone in killer.

    In breve. Discreto horror dalla narrazione non lineare, capace di tenere alta la tensione fino alla fine. Da vedere.

    The signal, horror del 2007 (da non confondersi con l’omonimo, di genere fantascientifico uscito nel 2014) è stato ideato da tre registi che vantano una collaborazione dal 1999 e girato con un budget di soli 50.000 dollari, in 13 giorni. Parliamo del trio David Bruckner, Dan Bush e Jacob Gentry, che sono anche autori della sceneggiatura, ed hanno girato seguendo i dettami dell’ horror indie americano: nessun risparmio sul livello di efferatezze e colpi di scena, ed un trama abbastanza semplice infarcita, nonostante tutto, di passaggi notevoli o allucinatori (personaggi che scambiano altri personaggi) e flashback (personaggi che ricordano, o credono di ricordare, il passato).

    Se tutto questo potrebbe appartenere alla tradizione lynchiana del genere, The signal non si perde in simbolismi, e strizza più pesantemente l’occhio all’horror crudo anni ’70, fin dalle prime immagini: una sequenza da exploitation modello Non aprite quella porta / L’ultima casa a sinistra, che pero’ rimane come una specie di trailer autoreferenziale (alla Tarantino / Rodriguez per intenderci) per introdurci nel film, a malapena collegato alla trama principale (in realtà è uno spezzone di The Hap Hapgood Story di Gentry). Ed è proprio al regista di Pulp Fiction, con le dovute proporzioni, che sembra richiamarsi la dinamica della storia, suddivisa formalmente in tre parti – ricca di flashback e colpi di scena, in cui nessuno è quello che sembra ed i personaggi vivono, loro malgrado, in una sorta di incubo ad occhi aperti.

    Il film è suddiviso in tre parti – che avrebbero dovuto essere di più, almeno stando a quanto pubblicato su Vimeo da uno dei tre registi (assolutamente consigliato, tra l’altro, il video linkato per avere un’idea del film, senza “dire troppo” o spoiler vari), e si basa su un’idea semplice ed efficace: un triangolo amoroso tra la protagonista, il marito di lei ed il rispettivo amante, ed il progetto di rivedersi nella stazione di Terminus, binario 13. Peccato che, nel frattempo, uno strano segnale radio/TV inizierà a plagiare le menti di chi ascolta, giustificandone le efferatezze ed arrivando a rendere chiunque un feroce omicida, e trasformando la città in un deserto in cui la maggioranza cerca di uccidere il prossimo. Non è troppo chiaro, peraltro, quale sia il livello massimo di esposizione al signal senza impazzire, visto che molti personaggi si muovono brillantemente senza farsene condizionare – ma questo è volere essere pignoli, e questo non è il genere di horror declinato sulla precisione. Se i presupposti di The signal non sono nuovi (Essi vivono, forse addirittura Videodrome) la narrazione non lineare e l’uso di riprese multiprospettiva cercano di rendere adeguato, riuscendoci, quel tocco di originalità tale da rendere il film interessante, oltre che scorrevole.

    Del resto non si tratta di un post-apocalittico vero o proprio, ma di una storia che è quasi un mashup di tre feeling diversi. Le tre trasmissioni o episodi di cui si compone la trama, infatti, sono incentrati su tre sotto-storie dallo stile ben distinto: Crazy In Love di Bruckner è quello più visceralmente horror e sinistro, The Jealousy Monster di Gentry e strizza l’occhio alla dark comedy ed allo humour nero (il che aiuta a spezzare e non appesantire la trama), mentre Escape from Terminus di Dan Bush conclude con la parte (relativamente) romantica della storia, ovviamente declinata in modo post-apocalittico. L’intero film si rifà chiaramente alla tradizione horror più allucinatoria ed esplicita, con spudorati richiami a certo torture porn (sopratutto il secondo episodio) ed ai classici di ogni tempo del genere (da Shining a Resident Evil, passando per 28 giorni dopo): questo, di suo, tenderebbe a renderlo un prodotto di nicchia, anche se uno spettatore medio potrebbe comunque lasciarsi trascinare positivamente dal film che, in fondo, è una love story declinata in modo grottesco e noir.

    Questo, a mio avviso, mette in secondo piano, come tradizione vuole in questi casi, l’intero scenario in cui si ambienta il film, lasciando il focus attivo su sogno di due amanti, neanche a dirlo, di vivere assieme – nonostante il marito di lei, violento ed imprevedibile e letteralmente ossessionato dal tradimento. Il tutto con il rischio di disinnescare la trama (i personaggi sembrano “dimenticare” l’apocalisse in corso, in più momenti), intreccio di suo rinforzato da un ambiguo (e forse non troppo comprensibile) doppio finale, in cui non è chiaro cosa sia sogno e cosa, invece, sia (la dura) realtà.

    Nel frattempo il signal – di cui non conosciamo l’origine, ed in fondo poco importa – continua a mietere vittime, e a causare atti di violenza sempre più feroci, scatenati dopo l’esposizione al segnale e giocando su una paranoia molto diffusa anche nelle varie urban legend che circolano da sempre sul web (le onde radio o wireless utilizzate per controllare le persone, o capaci di provocare malattie). In questo senso il film è abile a leggere e rielaborare la realtà, attualizzarla e focalizzarsi sulle paure e le psicosi moderne.

    Anche questo, del resto, dovrebbe saper fare un buon horror.

  • 31: Rob Zombi reinventa lo slasher, ancora una volta

    31: Rob Zombi reinventa lo slasher, ancora una volta

    USA, Halloween 1978: cinque persone vengono rapite da un gruppo di sconosciuti per partecipare ad un sadico gioco di sopravvivenza.

    In breve. Trama un po’ scarna e sulla falsariga dei suoi precedenti di inizio 2000; piuttosto violento, ricco di colpi di scena e di personaggi deformi, folli e caricaturali. Un horror che riprende il “già visto” pur facendo riferimento ad un immaginario del tutto inedito: da vedere.

    I presupposti di questo nuovo film di Rob Zombi sono se non altro curiosi, in quanto basati sulla singolare statistica che ad Halloween scompaiono più persone di qualsiasi altro giorno dell’anno: girato in soli 20 giorni, sembra un film all’insegna del “flusso di coscienza” del regista, in grado di catapultare protagonisti borderline dell’America anni ’70 in un inferno senza via d’uscita apparente. Nel farlo propone una sequela di villain da fumetto horror, tutti accomunati da un “head” nel nome (Doom-Head, Sex-Head, Sick Head e così via) e dal provenire dallo staff di un circo.

    Non è la prima volta che Zombi caratterizza i suoi personaggi in questi termini, ed è impossibile non notare il suo, ormai inconfondibile, stile di regia: solido, nitido, brutale e attento ai dettagli. Si tratta anche di un film finanziato in crowdfunding, per cui le aspettative di massima libertà artistica sono in effetti rispettate: chi non ha apprezzato il film, d’altro canto, non ha potuto che notarne la sostanziale somiglianza con i lavori precedenti, cosa vera ma, a mio avviso, nel caso specifico non un vero e proprio aspetto negativo. A fare la differenza rispetto a molti horror contemporanei, e anche di molto, c’è la componente attoriale: molto curata, infatti, la scelta degli interpreti e le rispettive interpretazioni, sempre decisamente teatrali e sopra le righe. Come di consueto, e a differenza del sulfureo Le streghe di Salem, punta quasi esclusivamente sulle dinamiche slasher (Non aprite quella porta), concentrandosi su un immaginario del tutto proprio e senza alcun riferimento a culture, leggende urbane o altro. Un inferno personale nel quale tre individui (vestiti grottescamente da vetusti signori dell’800 imparruccati) scommettono sulla morte delle vittime contattando dei killer, in un panottico dell’orrore che saprà appassionare nella misura in cui saremo disposti a cedere alle sue lusinghe. Nel farlo, non risparmia dettagli sanguinolenti e, anzi, sembra insistere sulla componente violenta più del consueto, con trovate a sorpresa che faranno rabbrividire.

    Zombi evoca un feeling già noto nei suoi precedenti La casa dei mille corpi e La casa del diavolo per ricostruire un’atmosfera settantiana, tanto exploitation da sembrare quasi da snuff, cosparsa di spirito hippy e ben caratterizzata, fin dai primi fotogrammi, dai consueti personaggi grotteschi. Non è nulla di clamoroso, probabilmente, ma l’approccio è quantomeno molto azzeccato, per quanto determinati riferimenti passeranno soltanto per i più accaniti fan del genere (vari classici che passano sulle TV inquadrate, il genere naziploitation per il personaggio Sick Head, una citazione molto specifica del Rocky Horror Picture Show). Se il vero colpo di classe del film è il finale – che chiude la storia con un doppio finale, che rimane comunque parzialmente aperto – il labirinto squallido, le vittime trattate come marionette e le sadiche trappole che li aspettano non sono certo una novità, a partire da Cube di Vincenzo Natali (1997) fino ad esempi più evoluti come The experiment del 2001 (e senza contare che un analogo Sick Head si era già visto nel sottovalutato Eaters).

    Del resto si tratta di uno di quei film da cui dovresti sapere bene cosa aspettarti, e che devi gustarti nella loro essenza senza farti troppe domande, e – per noialtri – chiudendo un occhio sul doppiaggio italiano (la traduzione di certe espressioni gergali e delle canzoncine perde un po’ di efficacia). Zombi sembra volersi liberare di qualsiasi pretesa contestualizzante o ideologica (almeno in apparenza, anche se apre citando Kafka con l’aforisma A first sign of the beginning of understanding is the wish to die), e si limita a regalare al suo pubblico una perla di horror moderno ricco di ritmo, citazioni, interpretazioni di buon livello ed alcuni punti volutamente non chiariti: su tutti, il reale ruolo dei tre feroci aguzzini – forse fuori dal tempo, sempre esistiti, quasi una sorta di demoni – Father Murder, Sister Serpent e Sister Dragon, che a quanto pare colpiscono ad ogni Halloween. Figure grottesche che hanno scommesso sulle vite delle vittime, ed è tutto quello che sappiamo: viene in mente a riguardo, per chi lo avesse visto, uno dei corti di The ABC’s of Death 2.

    Se Zombi ha insegnato qualcosa al suo pubblico, in questi anni, è proprio che un buon horror non deve per forza spiegare tutto, e può ritenersi godibile (e ancora più spaventoso) anche lasciando qualche ombra oculatamente sparsa.

  • Thriller – en grym film: dove nacque l’ispirazione per Kill Bill

    Thriller – en grym film: dove nacque l’ispirazione per Kill Bill

    Una giovane donna subisce un pesante trauma nell’infanzia, che la rende completamente muta: anni dopo, viene rapita da uno sfruttatore di prostitute e ne rimane schiava per diverso tempo, finchè non inizia a preparare la propria vendetta…

    In breve. Pluri-osannato – ed in parte iper-valutato – da Tarantino, che si ispirò al personaggio di Frigga per costruire Elle Driver nel  suo Kill Bill, è uno dei più famosi sexploitation mai realizzati, archetipo di film rape’n revenge a cui moltissimo deve I spit on your grave di M. Zarchi.

    Se è vero che il cinema di Tarantino si è sempre detto ispirarsi a quello di genere italiano dei tempi d’oro, Thriller di Fridolinski dovrebbe essere citato praticamente in automatico: visto oggi, appare come una versione primordiale di Kill Bill e, anzi, la pellicola del regista americano a confronto appare quasi sbiadita, in parte ripulita ed adeguata a canoni più “ragionevoli”.

    Thriller – en grym film è un film sporco, sudicio e crudele in ogni singola sequenza, per il quale il personaggio di Frigga/Madeleine crea immediata empatia nel pubblico. Riesce a mantenere l’attenzione viva ancora oggi, e non risente neanche troppo – secondo me incredibilmente – dell’età che lo caratterizza. È vero, comunque, che film del genere sono piuttosto rari e che, per questo, è altrettanto facile (e secondo me Tarantino lo fa) sopravvalutarne l’impatto. Di fatto è un film senza eguali, un porno-thriller come nessuno avrebbe osato.

    Il sesso – doloroso, violento e tutt’altro che allegro – che si vede in Thriller – en grym film, presente in forma di pornografia solo nella versione uncut (Thriller: A Cruel Picture), e non in quella “perbenista” dal titolo Thriller: They Call Her One-Eye, sarebbe addirittura funzionale, se non fosse che quelle sequenze (tre minuti extra, non di più) ne esasperano l’aspetto voyeur, dato che diventano esplicite e fini a se stesse come in un qualsiasi porno. Questo, secondo me, rende Thriller – oltre che sanamente nichilista – leggermente fiacco e, se vogliamo, meno credibile di quanto sarebbe stato privato di quelle sequenze (girate da una coppia di sex-performer girovaghi che si prestarono a controfigura).

    Del resto, sembra che Fridolinski (nome d’arte del Bo Arne Vibenius, aiuto regia di Bergman per il suo “Persona“) abbia voluto shockare il proprio pubblico in modo programmatico, realizzando un film sostanzialmente commerciale – ma al tempo stesso privo del perbenismo del settore che conosciamo a menadito. In un certo senso, a conti fatti, l’idea di affiancare sesso esplicito a violenza “ad orologeria” (in una storia soffocante, claustrofobica e tutt’altro che stupidotta, come si potrebbe temere) è almeno in parte vincente, proprio perchè non ti aspetteresti mai una cosa del genere.

    Questa scelta, almeno nella versione senza tagli (la versione doppiata in italiano è perduta, salvo ritrovamenti e riedizioni che, secondo me, prima o poi si vedranno), mantiene vivo l’interesse dello spettatore fino alla fine. Interesse che, a dire il vero, non si sarebbe smarrito: Thriller è accattivante, diretto, ben interpretato (forse l’unico vagamente sottotono è l’antagonista Heinz Hopf, mentre la Lindberg è sublime) e con una storia davvero ben congegnata.

    Thriller – en grym film è, almeno in questa scelta, fuori da qualsiasi canone, ed è questo al tempo stesso il suo principale punto di forza e vulnerabilità. Resta un buon film soprattutto per il ritmo, per i particolarissimi slow motion – girati con una videocamera in uso presso l’esercito, a 500 fotogrammi al secondo – e per il personaggio di Frigga/Madelein, simbolo di innocenza martoriata e di età adulta raggiunta, suo malgrado, in un mondo di abusi, violenza e cinismo, e della quale invochiamo ansiosamente la vendetta.

    Cerca il DVD di THRILLER su Amazon

  • Maniac: l’horror di Lusting delinea uno dei migliori serial killer del cinema

    Maniac: l’horror di Lusting delinea uno dei migliori serial killer del cinema

    Frank Zito (Joe Spinell) è un cittadino newyorkese dalle tendenze psicopatiche: avvicina donne di varia estrazione sociale e le uccide brutalmente. Potrà la frequentazione della bella fotografa Anna (Caroline Munro) cambiare per sempre le sue tendenze  omicide?

    In breve. Dal regista di Maniac cop un thriller cupo e vagamente poveristico nell’impianto, con recitazione non eccelsa ed effetti interessanti solo a sprazzi, senza contare che venne girato con un budget limitatissimo. Nonostante ciò, “Maniac” è un thriller seminale che possiede pregi innegabili: l’originalità del plot, un paio di sequenze di culto e il fatto che ha posto le base di una infinita scia di slasher con protagonista l’assassino misogino dal passato problematico.

    Maniac” è uno dei tanti slasher ottantiani, nascosti nel sottobosco cinematografico, che possiede il merito (con tutti i limiti del caso) di evocare più di qualche gradevole sorpresa per gli appassionati. I limiti in questione sono gli stessi che certa critica, entusiastica a prescindere (per non dire a-critica), ha evitato a volte di sottolineare, nascondendo i difetti del film sotto il più classico degli zerbini: Maniac è un cult, e come tale andrebbe teoricamente considerato esente da difetti. Il che, oltre ad essere inesatto, significa raccontare in malo modo un piccolo film artigianale, costato comunque solo 48.000 dollari e dotato di un’espressività senza eguali, almeno per l’epoca. Seguendo la falsariga dei precedenti thriller exploitativi dotati di feroci assassini/violentatori di giovani fanciulle – citiamo randomicamente: Il mostro della strada di campagna, L’ultima casa a sinistra, I spit on your grave – il film scorre sullo schermo con toni fin da subito tesissimi, inquietanti quanto accattivanti.

    La storia è incentrata quasi del tutto sulla mente di uno psicopatico protagonista, il che potrebbe avere qualche somiglianza con il cult brasiliano del 1964 A mezzanotte possiederò la tua anima, con cui Maniac condivide se non altro il tipo di storia ed il ritmo, per quanto sia legato ad un piano apparentemente più materialistico. Nel raccontare la storia di Frank, psicopatico dalla parvenza inquietante –  affine allo stereotipo di un tipo insicuro con le donne, dall’aspetto anonimo, solitario e non proprio in forma che diventa, con la violenza che esercita, il gemello cattivo di se stesso – la regia di Lusting realizza un film lurido, delirante e (ovviamente) carico della più degenerata violenza. Nonostante presupposti del genere rendano il tutto mera exploitation, la trama regge dignitosamente, a dispetto di una forma visuale non troppo nitida – dovuta ai limiti di budget, sebbene con qualche piccolo effetto visivo superiore alla media. Le scene cruente, con tutti i limiti delle pugnalate teatrali e dei litri di sangue visibilmente finto, sono un qualcosa che finiranno per far divertire/spaventare gli appassionati e ridere tutti gli altri: i soliti duplici piaceri da b-movie, alla fine.

    La doppia personalità che convive in Frank possiede un che di trascendente, e lo rende capace di massacrare donne e sparare fucilate a freddo (una delle sue vittime sarà un personaggio interpretato dall’effettista Tom Savini) quanto di lasciarsi andare a insospettabili galanterie con la donna da cui è attratto (la Munro), regalandole un orsacchiotto ed invitandola ad una romantica cena. Un chiaroscuro inquietante che convince pienamente solo per via del contesto e dell’età del film, dato che rimarrà come archetipica per molti altri lavori successivi (e per un remake più recente, tra l’altro).

    Alcune sequenze di “Maniac” appaiono un po’ prevedibili per il pubblico moderno, tipo la “cronaca della morte annunciata” dell’infermiera bionda, che per qualche incomprensibile ragione preferisce, a fine lavoro, andarsene in giro in solitaria su una strada desolata invece di accettare un passaggio dalla collega. Un vero colpo di genio, tanto più se effettuato sessanta secondi dopo aver letto la notizia del serial killer che sta massacrando donne. In fondo li perdoniamo: stavano “solo” girando un horror negli anni 80.

    Presente inoltre qualche breve momento di riflessione, che serve a spezzare sequenze che – in circostanze differenti – sarebbero diventate un po’ noiose. “Maniac” soffre di qualche problema di ritmo, nonostante la sua durata di soli 83 minuti, nonostante il crescendo finale. Interessante, poi, l’analisi della fobia della solitudine da parte del protagonista, e qualche suggestione filosofico-esistenzialista tirata un po’ con le pinze (“Non c’è modo per cui tu possa possedere qualcuno per sempre, anche con una fotografia: non c’è modo“: panta rei, insomma).  Tenendo conto che si tratta di uno dei primissimi film ottantiani a realizzare completamente quello che sarebbe diventato un vero e proprio genere – lo slasher a tinte erotiche – c’è comunque da togliersi il cappello e apprezzare, se si vuole, il risultato per quello che è e per il periodo in cui uscì.

    Azzeccatissima la minimale colonna sonora elettronica di Jay Chattaway, uno degli elementi più in risalto di una pellicola datata, non troppo brillante nella dinamica e che vive i momenti migliori nel delirante ed inaspettato finale (degno di un racconto di Poe o Lovecraft). Un film imperdibile per i cultori dei vari Venerdì 13 e Henry pioggia di sangue, con il quale “Maniac” presenta svariati punti di contatto, a cominciare dalla prospettiva ossessivamente incentrata sulla mentalità del protagonista. Al di là del valore storico, pertanto, credo si tratti di un poco più che discreto b-movie che potrebbe, a conti fatti, risultare una piacevole sorpresa per qualche spettatore.

  • Ho visto 3 volte “Dagon – La mutazione del male”, e non riesco a farmelo piacere sul serio

    Ho visto 3 volte “Dagon – La mutazione del male”, e non riesco a farmelo piacere sul serio

    Un gruppo di amici in vacanza su uno yacht si schianta su alcuni scogli ed arriva in uno strano paese di pescatori, Inboca. Presto scopriranno le reali origini degli abitanti del posto…

    In due parole. Ispirandosi al celebre racconto lovecraftiano “La maschera di Innsmouth” – che diventa “Inboca” – Gordon ne tira fuori una (a suo modo) notevole rielaborazione in chiave cinematografica, sfruttando al meglio gli stereotipi ed i topos caratteristici di questo genere di letteratura. Molto deriva anche da un altro classico dello scrittore quale “Dagon“, ovviamente, ed il risultato si lascia guardare con grande naturalezza. Il problema è, semmai, che il film non sorprende più e sembra ricalcare stereotipi abusati o comunque visti e rivisti.

    “Non avrei mai voluto vedere quella scena…”

    Ispirandosi ai due succitati racconti dello scrittore di Providence, si può dire che Stuart Gordon sia riuscito, una volta tanto, a rendere la letteratura lovecraftiana da straordinaria ad ordinaria: tale è la spontaneità, in effetti, che attraversa l’intera pellicola – oltre alla trattazione mai forzata o troppo letterale – che il pubblico si dovrebbe lasciar guidare in modo piuttosto ovvio all’interno di essa. Forse troppo normale, tutto sommato, considerando le atmosfere lovecraftiane che ben poco si adattano, alla fine, un po’ a qualsiasi riduzione cinematografica (il termine “riduzione” non è casuale, in queste circostanze).

    È bene tenere presente due aspetti: non siamo al top della rappresentazione del sottogenere (che avviene, ad esempio, in capolavori come “Il seme della follia” o “La cosa” di John Carpenter) e non dobbiamo dimenticare che Gordon è pur sempre l’artefice di una trasposizione di un altro classico della letteratura horror quale “Il pozzo e il pendolo” piuttosto arbitraria e, obiettivamente, neanche troppo azzeccata. Nei limiti della cinematografia del regista, dunque, che ha conosciuto probabilmente un unico vero picco con “Re-animator” (altro racconto lovecraftiano rappresentato molto liberamente), “Dagon – La mutazione del male” è un horror di discreto livello, con alcuni momenti di buona tensione ed una ricostruzione delle atmosfere lovecraftiane più che degna.

    Si tratta ovviamente di un b-movie che da’ molta importanza all’involucro dei mostri mutanti e poca, come spesso accade, alla sostanza del solitario di Providence, ma valutando il film in quanto tale si resta soddisfatti anche se, a dirla tutta, non proprio entusiasti. L’odore di umido-marcio arriva a permeare la pellicola fin dalle prime sequenze, giocando nel contempo sul consueto (ed azzeccatissimo) senso di “antico incubo diventato realtà” che non tarderà a disvelarsi.

    Un film fuori dalle righe per il periodo stesso in cui è uscito – gli anni 80 erano finiti da un pezzo – e, proprio per questo, da gustare ancora oggi. Dagon, a suo modo, non può essere annoverato tra i film propriamente brutti, anzi; presenta spunti di originalità che hanno, al limite, il difetto di rimanere tali. Il film non sorprende mai, ed è questo il suo limite più sostanziale: per un lavoro come quello di Lovecraft e, soprattutto, a confronto di film come From Beyond, sempre di Gordon, ci aspettavamo forse qualcosa di più.