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  • Le regole della casa del sidro racconta tematiche sociali nell’America rurale negli anni Quaranta

    Le regole della casa del sidro racconta tematiche sociali nell’America rurale negli anni Quaranta

    “Le regole della casa del sidro” (titolo originale: “The Cider House Rules”) è un film del 1999 diretto da Lasse Hallström, basato sull’omonimo romanzo scritto da John Irving nel 1985. Il film è una dramedy che affronta temi complessi come l’aborto, l’identità personale e il senso di famiglia. Il film è stato elogiato per le interpretazioni del cast, in particolare di Michael Caine e Tobey Maguire, e per la sua trattazione sensibile di questioni etiche complesse. Il film è stato nominato a diversi premi, tra cui sette candidature agli Oscar, vincendo due per Migliore Attore Non Protagonista (Michael Caine) e Migliore Sceneggiatura Non Originale. È un lavoro che affronta temi delicati con profondità e compassione, suscitando riflessioni sulle scelte morali e sulla complessità delle relazioni umane.

    Sinossi del film

    La storia è ambientata in un orfanotrofio chiamato St. Cloud’s nella zona rurale del Maine, negli Stati Uniti, durante la seconda guerra mondiale. Il protagonista, Homer Wells (interpretato da Tobey Maguire), è un giovane che è cresciuto nell’orfanotrofio e ha sviluppato una relazione molto stretta con il dottor Wilbur Larch (interpretato da Michael Caine), che gestisce l’istituzione e compie aborti illegali per le donne incinte.

    La trama si sviluppa quando Homer inizia a sentire il desiderio di esplorare il mondo al di fuori dell’orfanotrofio e scoprire la vita al di là di ciò che ha sempre conosciuto. Lascia l’orfanotrofio e inizia una serie di avventure che lo portano in un frutteto di mele, la “casa del sidro“, dove incontra una famiglia di lavoratori migranti, inclusa la giovane Candy Kendall (interpretata da Charlize Theron) e suo padre Wally (interpretato da Paul Rudd). Homer si innamora di Candy, ma la relazione si complica a causa degli sviluppi che coinvolgono Wally e l’intensa influenza di Homer sulle decisioni personali dei membri della comunità. Il sidro, per inciso, è una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione del succo di mele. Le mele vengono pressate per estrarre il loro succo, che contiene zuccheri naturali. Questo succo viene quindi lasciato fermentare grazie all’azione dei lieviti, i quali trasformano gli zuccheri in alcol e anidride carbonica. Il risultato finale è il sidro.

    Il film affronta in modo attento temi morali e sociali, compresi l’aborto, il diritto di scelta e il concetto di famiglia. Esplora anche la crescita personale di Homer mentre cerca di trovare il proprio posto nel mondo, bilanciando il suo senso di responsabilità verso l’orfanotrofio con il desiderio di una vita autonoma.

    10 curiosità su Le regole della casa del sidro

    1. Adattamento del romanzo: Il film è tratto dal romanzo omonimo scritto da John Irving nel 1985. L’autore stesso ha partecipato alla stesura della sceneggiatura.
    2. Ruolo di Tobey Maguire: Tobey Maguire, l’attore che interpreta il protagonista Homer Wells, ha dichiarato che questo è stato uno dei suoi ruoli preferiti e più significativi nella sua carriera.
    3. Ruolo di Michael Caine: L’interpretazione di Michael Caine nel ruolo del dottor Wilbur Larch gli ha fruttato l’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista nel 2000.
    4. Luoghi di ripresa: Il film è stato girato principalmente in Vermont, Stati Uniti. Il paesaggio rurale ha contribuito a creare l’atmosfera del film.
    5. Titolo originale: Il titolo originale del film, “The Cider House Rules“, deriva dal nome dell’orfanotrofio in cui si svolge gran parte della trama.
    6. Colonna sonora di Rachel Portman: La colonna sonora del film è stata composta da Rachel Portman ed è stata molto apprezzata per il suo contributo emotivo alla storia.
    7. Influenza del regista: Lasse Hallström, il regista del film, è noto per la sua abilità nel dirigere storie umane e sentimentali. Ha anche diretto altri film di successo come “Chocolat” e “La mia vita a Garden State“.
    8. Tempo di sviluppo: Il film è stato in sviluppo per molti anni prima di essere realizzato. L’adattamento cinematografico del romanzo è stato un processo complesso che ha coinvolto vari registi e sceneggiatori.
    9. Differenze tra il libro e il film: Come spesso accade nelle trasposizioni cinematografiche, il film semplifica alcune parti della trama del libro e apporta alcune modifiche ai personaggi e agli eventi.
    10. Messaggi sociali: Il film affronta temi sociali importanti, tra cui l’aborto e la lotta per l’autonomia individuale nella società. La storia solleva questioni etiche che stimolano la riflessione e la discussione.

    Spiegazione del finale (contiene spoiler)

    Il finale del film “Le regole della casa del sidro” è aperto e ricco di significati, lasciando spazio a interpretazioni personali da parte degli spettatori. Attenzione: Spoiler sul finale a seguire.

    Nel finale, Homer Wells fa una scelta che riflette la sua crescita personale e la sua comprensione della complessità della vita. Dopo essere tornato all’orfanotrofio e aver incontrato il dottor Wilbur Larch, Homer decide di prendere una decisione indipendente riguardo al suo futuro. Decide di rimanere con i bambini rimasti all’orfanotrofio e di prendersi cura di loro.

    Questo finale rappresenta il culmine del viaggio interiore di Homer. Fin dall’inizio del film, Homer ha cercato di trovare il suo posto nel mondo e di definire il suo senso di appartenenza. L’orfanotrofio è stato per lui un punto di riferimento costante, e il dottor Larch è stato una figura paterna. Tuttavia, con l’esperienza nella “casa del sidro” e le sfide che ha affrontato, Homer ha maturato una prospettiva più ampia sulla vita.

    La sua decisione di restare all’orfanotrofio rappresenta la sua accettazione di responsabilità e la sua volontà di creare una famiglia alternativa per quei bambini che sono stati abbandonati o non hanno un luogo dove chiamare casa. Questo è anche un modo per Homer di continuare il lavoro del dottor Larch, che aveva dedicato la sua vita a prendersi cura di chi aveva bisogno.

    Il finale suggerisce che il concetto di famiglia può essere costruito in modi diversi e che l’idea di “casa” può essere più profonda di un semplice luogo fisico. Homer ha finalmente trovato un significato nella sua vita, abbracciando il ruolo di guida e protettore per i bambini dell’orfanotrofio.

    In sostanza, il finale del film esplora temi di identità personale, scelte morali, responsabilità e il concetto di famiglia, offrendo agli spettatori una riflessione sul percorso di crescita e auto-scoperta del protagonista.

    Cast del film

    Ecco il cast principale del film “Le regole della casa del sidro” (1999):

    • Tobey Maguire nel ruolo di Homer Wells
    • Michael Caine nel ruolo del dottor Wilbur Larch
    • Charlize Theron nel ruolo di Candy Kendall
    • Paul Rudd nel ruolo di Wally Worthington
    • Delroy Lindo nel ruolo di Mr. Rose
    • Jane Alexander nel ruolo di Nurse Edna
    • Kathy Baker nel ruolo di Nellie Worthington
    • Erykah Badu nel ruolo di Rose Rose
    • Kieran Culkin nel ruolo di Buster
    • Heavy D nel ruolo di Peaches
    • Kate Nelligan nel ruolo di Olive Worthington
    • Paz de la Huerta nel ruolo di Mary Agnes
    • J.K. Simmons nel ruolo di Ray Kendall
  • Francesca: il thriller argentiano di  Luciano Onetti

    Francesca: il thriller argentiano di Luciano Onetti

    Un serial killer si aggira per la città prendendosi gioco della polizia, disseminando indizi relativi alla Divina Commedia di Dante Alighieri. Il tutto sembra ricollegarsi ad un caso irrisolto di quindici anni prima: la giovane figlia di un noto drammaturgo che scompare nel nulla.

    In breve. Un giallo anni 70 fuori tempo massimo (il film è del 2015), senza che ciò risulti stucchevole nè narcisistico. Archetipizzato su un modello di successo del passato (tra i film più noti c’è Profondo rosso), è tutt’altro che un mero esercizio di stile; al contrario, risulta accattivante per certe scelte fuori canone, sempre spiazzanti in positivo. Il retrò non disturba neanche il più accanito modernista: una vera e propria gemma del genere, per quanto destinata quasi esclusivamente a baviani o argentiani DOC. Da riscoprire.

    Scritto e diretto da Luciano Onetti e in collaborazione con Nicolas Onetti (nei titoli di testi gli Onetti abbondano, ed è facile perdere il conto), Francesca è un thriller appartenente alla corrente del revival anni 70, in particolare il giallo-thriller archetipizzato da Tenebre, senza dimenticare la tradizione del genere che risale, per dovere di cronaca, a quasi venti anni prima, e vede come primo antesignano Sei donne per l’assassino di Mario Bava.

    Di recente esperimenti analoghi sono stati realizzati, per intenderci, da film come Amer opppure (almeno in parte) The house of the devil: girati come si girava negli anni settanta, riproponendo visionarietà, personaggi, situazioni e stilemi tipici del genere – il più banale dei quali, presente in Francesca, è la onnipresente bottiglia di J&B, autentico sponsor non ufficiale dei film d’epoca.

    Sorprende – in certa misura – come un film del genere sia stato poco considerato dalla critica e dal pubblico: Davinotti gli assegna 2 stelle su 5, IMDB non arriva nemmeno alla sufficenza (poco meno di 6, al momento in cui scrivo), in tanti hanno un po’ snobbato la sua uscita (il film è disponibile su Prime Video, per la cronaca). Certo è che Francesca assume un ruolo tanto preciso da assurgere a genere a sè stante, tanto è significativo, coinvolgente ed impregnato di cinema di vecchia scuola, senza risultare troppo derivativo ed introducendo elementi di originalità non da poco. Onetti ha stile ma possiede anche quella personalità registica che gli consente, a ben vedere, di produrre un film del tutto autonomo, che sembra quasi un inedito del periodo riesumato per l’occasione. Il che non potrà che provocare il tripudio degli amanti di Dario Argento e Mario Bava, per quanto la perplessità lecita di questi revival afferisca al perchè sia stato fatto così e non, ad esempio, ambientato in tempi moderni (risposte brevi che mi viene in mente: perchè gli eccessi tecnologici di oggi risulterebbero banalizzanti nel risolvere certe situazioni, e perchè l’immaginario anni 70 resta inarrivabile).

    Sono trascorsi quindici anni dalla scomparsa di Francesca, figlia di un noto drammaturgo italiano: Vittorio Visconti, ridotto su una sedia a rotelle a causa dell’aggressione che ha portato al dramma familiare in questione. Nel frattempo, la moglie è caduta in depressione per la perdita dell’amata ragazza, e non sembra volersi più muovere dal letto. Un serial killer agisce per la città bersagliando varie vittime e mostrando un singolare filo conduttore negli omicidi: uccide quasi sempre con un punteruolo e poi, come firma del delitto (come tradizione pagana è solita raccontare) pone due monete sugli occhi della vittima. Ben presto la polizia scoprirà un legame con la storia misteriosa di cui sopra, svelando una verità sorprendente. Una verità conclusiva che possiede come autentica ispirazione – e si badi allo spoiler ineluttabile, per una volta – più di qualcosa della filosofia di fondo di film poco citati in questo ambito, e che a mio avviso restano primari: parlo di Vestito per uccidere e di Sleepaway Camp, anche per via della sessualità repressa di cui la killer è evidentemente imbevuto.

    Non che il film sia un esercizio di stile da scuola del cinema, peraltro: Francesca propone qualche variazione sul tema considerevole, ad esempio l’identità del killer – che sembra banale, ma in realtà non lo è; il doppio finale alla Dario Argento (anche questa volta c’è di mezzo l’amore verso i figli spinto all’estremo), l’omicidio a sorpresa dopo i titoli di coda, il che vìola la regola generale che il climax di questi film debba essere continuo, o che almeno il finale sia tranquillizzante o stabilizzante. Di fatto, anche quell’inserto post titoli di coda da alcuni criticato, è meno gratuito di quello che potrebbe sembrare, dato che predilige la continuità del Male su quella narrativa, un po’ sulla falsariga del primo Halloween di John Carpenter.

    Ed è proprio a certi vecchi, epici ed immarcescibili archetipi di thriller all’italiana e non solo (citiamo a campione, non potendo fare altrimenti: Profondo rosso, Tenebre, Shock, A Venezia un dicembre rosso shocking, Chi l’ha vista morire); modelli assimilati, visti, annotati e rielaborati dalla regia, a livello sia narrativo che di stile visuale. Ed il risultato, per il suo sotto-genere, rasenta il capolavoro. Non mancano nemmeno le musiche alla Goblin, composte  dal regista stesso in totale mood carpenteriano (regia e musiche affidati alla stessa persona). Non mancano poi i traumi infantili irrisolti, i personaggi dal passato non raccontabile, la presenza del personaggio poliziesco che viene un po’ per volta ridimensionato, sopraffatto dalla banalità del male e, anche qui, contravvenendo alla regola non scritta per cui, in questi film, anche se il bene non vince sempre, quantomeno alla fine spiega come sono andate le cose. In Francesca non esiste alcun finale falsamente consolatorio, e al contrario si rincorre un effetto di shock sullo spettatore che esibisce un feroce irrazionalismo.

    La regia di Onetti è infaticabilmente settantiana, quasi da sembrare ossessivo-compulsiva nel senso buono del termine, tanto è ricca di allusioni allucinatorie, primi piani su guanti, occhi, mani, pori della pelle, attizzatoi, magnetofoni e pianoforti: il regista cura la direzione della fotografia ed è pesantemente influenzato dall’estetica argentiana esaltata da Profondo rosso, primariamente. Il vero difetto di Francesca, a ben vedere, potrebbe forse essere ricondotto ad una eccessiva referenzialità, per quanto la presenza di elementi narrativi originali, fuori canone anche per l’epoca, eviti almeno in parte accuse di questo tipo. Per convincersene basterebbe  pensare al serial killer dall’identità sessualmente ambigua, che si vede quasi da subito chiaramente (e che poi non è chi sembra), che si ispira all’Inferno dantesco (il canto terzo, per la precisione: quello che narra delle porte dell’inferno), possiede un passato oscuro ed esprime una marcata sessualità repressa. Senza contare la maestria registica, al limite del talentuoso, con cui i suoi delitti sono mostrati, con qualche eccesso violento e insistito ma sempre con un sostanziale equilibrio. Oggetti di casa quali l’attizzatoio ed il ferro da stiro diventano feroci armi del delitto, in una spaventosa rilettura d’epoca dai colori psichedelici, tanto accesi da sembrare incandescenti.

    Mamma, ho voglia di giocare con te. Mamma, ho voglia di giocare con te. Mamma, ho voglia di giocare con te…

    In Francesca il flusso di coscienza guida una sceneggiatura dai tratti chiari e sempre distinguibili, che non si fa fatica a seguire e che raccontano di una killer, almeno in apparenza, dall’aria avvenente, di cui intravediamo anche le fantasie sessuali e che sembra essere l’incarnazione sadica di una ragazzina scomparsa: ragazzina che non esita, nella prima sequenza, a martoriare la carcassa di un uccellino, per poi trapassare – in una traumatizzante sequenza iniziale – l’occhio del fratellino ancora in fasce. L’occhio sarà anche, in successive sequenze del film, la parafilia primaria o ossessione prediletta del killer, e rappresenta molto più di quanto una visione superficiale possa suggerire.

    La killer in cappotto rosso, gonna nera e guanti in pelle sembra essere guidata da intenti moralistici, ed in questo potrebbe ricordare l’archetipo argentiano ben noto che poi, a ben vedere, quasi mai era ciò che l’apparenza poteva suggerire. In questo caso, per inciso, non si fa eccezione: il finale di Francesca sorprende quanto i migliori lavori argentiani, sia per come viene costruito e fuorvìa anche lo spettatore con più esperienza, sia per la violazione di una ulteriore convenzionale regola non scritta: l’ultimo omicidio e rivelazione avviene quando l’ispettore chiede spiegazioni, ed è la narrazione a rendere esplicito cosa sia realmente successo. Glii echi familiari perversi dovuti ad un’educazione repressiva sono più che evidenti, in un vero e proprio rehash della narrazione che ha reso Profondo rosso famoso in tutto il mondo, film da cui si ereditano le parafilie, le ossessioni e le immagini in primo piano: quella di un bambolotto prima impiccato a un albero e poi cullato dentro a una carrozzina, a testimoniare la natura sadica di una piccola killer fin dall’età adolescenziale.

    Come nota finale, il film è una produzione italo-argentina recitata in italiano, per cui non è stato proposto un doppiaggio: gli attori sono caratterizzati da una curiosa inflessione italo-argentina.

  • L’ape regina: sono andato in bianco, e sono contento

    L’ape regina: sono andato in bianco, e sono contento

    Alfonso decide di sposare Regina, dopo una vita da quarantenne single. L’uomo è convinto di aver trovato la donna perfetta, dato che si mostra sincera e riservata, tanto da non concedersi a lui prima del matrimonio. Dopo essersi sposati, le cose cambiano…

    In breve. Un climax senza sconti sugli effetti del bigottismo sulla società, con un indimenticabile Ugo Tognazzi in un ruolo ineditamente drammatico. Da non perdere.

    L’ape regina, rinominato “Una storia moderna: l’ape regina” dopo l’intervento della censura dell’epoca (siamo nel 1963), è un film grottesco da collocarsi nella complessa poetica del regista Marco Ferreri, che va da La grande abbuffata fino al più criptico Dillinger è morto, con numerose ulteriori opere espressione di un linguaggio complesso, mosso su vari registri e quasi sempre socialmente / politicamente impegnato. Il punto di vista contenuto ne L’ape regina (film per cui Marina Vlady vinse come miglior interprete femminile, e Ugo Tognazzi ebbe un Nastro d’Argento come Migliore attore protagonista) è quantomeno insolito, perchè narra di una neo coppia apparentemente “media”, per cui si disvela un inquietante scenario. Uno scenario in cui l’unico modo per cui la donna possa avere la meglio è, di fatto, quello di “allearsi” al cattolicesimo imperante – il film venne rimaneggiato e censurato dopo la sua uscita, ovviamente.

    Lo sai perchè sono contento? Perchè sono andato in bianco!

    By [1], Fair use, https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=36692171
    Subito dopo il matrimonio, infatti, vediamo sbucare fuori la reale natura di Regina: molto religiosa (devota a una santa barbuta), obbliga il consorte ad abitare vicino al Vaticano, si mostra compiacente rispetto all’invasività nella coppia dei parenti di lei, oltre che condizionante sul carattere di Alfonso (uomo che si rivela fragile, insofferente al bigottismo quanto facile da plagiare). Vediamo la quotidianità ed intimità della coppia, che sembra fatta in apparenza di passione e complicità – ma che sta logorando Alfonso, pressato dalla sessualità dirompente ed invasiva da parte della moglie (che, neanche a dirlo, vorrebbe rimanere incinta ad ogni costo).

    Del resto la religione, abilissima ad avere la pretesa di controllare l’istinto altrui, in questa circostanza si mostra ostile ad Alfonso e strumento nelle mani di Regina: ce ne accorgiamo dalla sequenza in cui l’uomo prova a confidarsi col prete che li ha sposati, il quale gli prescrive un ricostituente ormonico – tanto lo prendono tutti, perchè Sant’Alfonso (evidentemente, nomen omen) ha scritto in ginocchio […] sui rapporti coniugali […]: il coniuge non può e non deve sottrarsi al desiderio legittimo dell’altro coniuge. Il desiderio santo (così come viene definito) è accettabile sempre e comunque, purchè adagiato sui dettami della chiesa, anche se poi diventa ossessivo e svilente per il protagonista, al quale viene ripetuto più volte di fare un figlio alla svelta per “risolvere” il problema.

    Non lo fo per piacere mio, ma per far piacere a Dio!

    In nuce sembra di assistere alle medesime tematiche affrontare, in tempi recenti, da quel piccolo cult quale è The lobster, in cui la sessualità era gestita a comando ed andava finalizzata in modo pre-determinato: coppia o single, senza vie di mezzo e senza sfumature, a voler per fora accondiscendere una delle due distopìe. Ferreri intuisce la questione in modo atipico, se vogliamo, invertendo i ruoli tradizionali uomo-donna e mostrando un uomo succube della consorte. È anche chiaro che manda il messaggio forte e chiaro che la religione svilisca l’aspetto piacevole del sesso e ne esalti, puramente, quello procreativo; tanto peggio se lo fa sfruttando l’avvenenza di Regina, fino alla fine cinica e calcolatrice. Alla fine l’uomo diventerà un vuoto a rendere, privato di ogni individualità, padre destinato a cedere il passo ad una prole mai davvero voluta, prima del tempo.

  • Sola in quella casa: il film di Takács omaggia il genere thriller

    Sola in quella casa: il film di Takács omaggia il genere thriller

    Virginia, giovane appassionata di letteratura horror, lavora in una libreria e rimane letteralmente stregata dai romanzi del misterioso Malcolm Brand, tanto da iniziare a vedere i protagonisti delle sue storie nella vita di ogni giorno…

    In breve. Discreto b-movie senza pretese, piuttosto equilibrato e ben diretto, anche con una storia piuttosto originale. Da riscoprire ancora oggi.

    Sola in quella casa (traduzione arbitraria dell’originale I, madman, e che probabilmente strizzava l’occhio ai titoli gloriosi degli anni ’70) si presenta come un lavoro decisamente originale: la storia che vediamo all’inizio coincide con la narrazione del racconto che sta leggendo la protagonista, appassionata di romanzi horror – oltre che simbolico fan in cui buona parte degli spettatori potranno immedesimarsi. Il film presenta numerosi cambi di punti di vista – tra la Virginia nella vita reale e quella che si immedesima con la protagonista della storia – con la presenza di sequenze piuttosto dirette ed evocative, senza sconfinare nel visionario puro (per una volta questo sembra essere un pregio: gioca a favore della comprensibilità della storia).

    Se le sue ripetute letture evocano a più navigati suggestioni modello Ai confini della realtà con il ben noto (e genuino) approccio al genere, tra porte che si chiudono all’improvviso, il leitmotiv del pianista dalla finestra ed i temporali che iniziano puntualmente quando Virginia inizia a leggere, c’è da sottolineare che la creatura di Tibor Takàcs – regista tra l’altro del piccolo cult Non aprite quel cancello, altro titolo da non giudicare male in base all’apparenza – è un rispettabile saggio dell’orrore, non completamente esente da difetti, ma piuttosto compatto come forma e stile.

    La storia romantica del mad doctor Malcolm Brand, disposto a tutto per amore (ivi compresa la mutilazione di varie vittime, i cui pezzi sono usati per modificare il proprio aspetto – o quantomeno illudersi di farlo – per piacere all’amata), e l’archetipo di Virginia come simbolo dell’appassionato di horror rendono, già da soli, grande giustizia alla pellicola, penalizzato fortemente solo da un doppiaggio italiano probabilmente non troppo espressivo. Al tempo stesso, non si tratta di un film gotico nel senso stretto del termine (come potrebbe esserlo L’arcano incantatore oppure Il demonio, per intenderci), ma di un buon ibrido in cui parte del feeling deriva sia dai film di serial killer (Vestito per uccidere, Henry – Pioggia di sangue) che dagli horror più intrisi di introspezione, psicosi e ossessioni (Possession).

    Mentre legge, Virginia è estremamente coinvolta dal racconto, tanto da sospettare che sia la narrazione a guidare la realtà; una realtà che vedere una serie di omicidi inspiegabili quanto collegati al libro di Brand. Il richiamo a Il seme della follia (seppure in una forma parziale, e senza scomodare paragoni fuori luogo), rimane d’obbligo, tanto che sembra lecito sospettare che il maestro Carpenter abbia potuto farsi influenzare da questo film per la stesura del suo celebre (e forse più lovecraftiano) film girato ad oggi. Inutile sottolineare che la dimensione onirica che vive la protagonista non sarà minimamente creduta dal mondo reale, evidenziando ancora di più la dimensione tragica di chi vive situazioni di isolamento o emarginazione.

    La storia sceneggata da David Chaskin rimane ad un livello ordinario, accessibile anche ai non patiti del genere, ed è pesantemente influenzata dagli horror classici, sempre intelligentemente trasposti nei libri letti dalla protagonista senza, per questo, perderne efficacia narrativa e potenza orrorifica (si veda, ad esempio, la terrificante sequenza dell’ingresso del dottore in casa della vittima, prima narcotizzata e successivamente decapitata; oppure l’omicidio visto dalla finestra modello La finestra sul cortile, per poi mostrarsi con le sole ombre dei personaggi).

    Sul finale Takács si prodiga in un doppio finale che sembra quasi richiesto a gran voce dagli spettatori; al tempo stesso, conclude in modo ordinario la vicenda e con quel tocco di fantasy che si era accennato all’inizio, senza scomodare sociologia pessimista, finali amari o indagini sulla natura del male (come forse era lecito aspettarsi). Ne rimane pertanto un buon horror ottantiano, e questo è quanto.

  • Il ritorno dei morti viventi: uno dei film di zombi che non puoi non aver visto

    Il ritorno dei morti viventi: uno dei film di zombi che non puoi non aver visto

    Due dipendenti dell’azienda Undeea (sic) aprono inavvertitamente dei contenuti ripieni di gas tossico, che possiede la singolare capacità di rianimare i cadaveri. Gli zombi partono all’assalto del pianeta, apparentemente inarrestabili…

    In due parole. O’ Bannon, indiscusso genio della sci-fi e dell’orrore (suoi lo script di Alien e buona parte di Dark Star di Carpenter) firma il suo esordio alla regia mostrando zombi quasi cartooneschi, realizzando un film praticamente perfetto e puramente ottantiano nello spirito. C’è spazio per l’intrattenimento puro, per una colonna sonora tra le migliori dell’epoca e per un paio di scene super-cult: da non perdere!

    Leggere l’intervista al regista, l’ultima concessa a Nocturno prima che morisse nel dicembre 2009 affetto da un male incurabile, fa capire molto dello spessore e dello spirito anticonformista del regista-attore-sceneggiatore americano. Se egli deve molto della sua fama alla stesura e all’ideazione di Alien di Ridley Scott, paradossalmente rimase molto distante dal mondo hollywoodiano e, probabilmente, anche dallo stesso scenario del cinema underground cui naturalmente apparteneva. Esordio scoppiettante il suo, dato che tirò fuori assieme al coinquilino John Carpenter l’idea di un “2001 Odissea nello spazio” in chiave demenziale, producendo il piccolo capolavoro low-budget Dark Star. Qui siamo al suo esordio registico: l’influenza di Romero, all’apice dello splendore in quegli anni con il lugubre Il giorno degli zombi, e qualche anno prima Zombi, si sente parecchio. Ma Dan non si limita a clonare le idee dei film famosi come fecero in molto: piuttosto reinventa la mitologia dei morti viventi aggiungendovi dettagli originali e momenti di curiosa demenzialità, come avrebbe fatto, in modo decisamente più esasperato, Peter Jackson.

    La storia, di per sè, è forse il dettaglio meno interessante: un ragazzo viene assunto in una ditta che si occupa di procurare cadaveri alle facoltà di medicina, e casualmente entra in contatto con un gas tossico che inizia a risvegliare i cadaveri. Nel frattempo gli amici del giovane (per la maggioranza punk e metallari, per inciso) vanno a prenderlo sul posto, avvicinandosi incautamente al cimitero lì vicino. I morti viventi di O’ Bannon sono maledettamente veloci, corrono come ossessi e sono indistruttibili: non serve sparargli in testa, non serve farli a pezzi, non serve neanche bruciarli perchè, come espresso malamente in Zombi 3, ciò contribusce solo a contaminare l’aria ulteriormente.

    Dinamica da puro action movie quella de “Il ritorno dei morti viventi”: e vari dettagli explotation come gli occhi nelle orbite che si muovono ancora, qualche momento gore ben dosato, alcuni scheletri degni de “L’armata delle tenebre” e (non si dica che guasti) la bella Linnea “Trash” Quigley, punk dai capelli rossi che se ne va in giro natiche al vento dopo un improbabile strip integrale nel cimitero, sono tutti elementi che fanno di questo film un cult da non perdere per nessun motivo. O’ Bannon mostra di saperci fare con la macchina da presa, e realizza uno dei migliori zombi-movie mai visti sullo schermo, privati della componente più deprimente e con un finale apertamente nichilista: probabilmente come solo un regista davvero “rock’n roll” come lui avrebbe saputo fare. Vale inoltre la pena di ricordare che la colonna sonora, oltre a riportare un theme davvero indimenticabile, è di matrice punk-hardcore con alcuni momenti melodici che contrastano con la drammaticità delle scene (quasi sempre riprese da lontano, come ricordava lo stesso regista), capaci di creare un contrasto davvero notevole e a tratti spassoso.

    R.I.P., Dan!