BRIVIDI_ (84 articoli)

Recensioni dei migliori thriller usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Repulsion: Polanski racconta le ansie della sessuofobia

    Repulsion: Polanski racconta le ansie della sessuofobia

    Carol è una donna introversa che non sopporta il fidanzato della sorella: il film è un viaggio da incubo nella sua personalità.

    In breve. Il film che ha consacrato Polanski come regista di culto, incentrato su una delle protagoniste thriller forse più formidabili del genere. Da non perdere, nonostante l’età.

    Il secondo film di Polanski dopo Il coltello dell’acqua, girato interamente a Londra e primo film in assoluto prodotto in inglese dal regista (siamo nel 1965). Repulsione si basa su una trovata che oggi troveremmo quasi prevedibile, tanto che è diventata la regola in un certo giallo o thriller, soprattutti quelli devoti al doppio o triplo finale con avvitamento carpiato. All’epoca venne tanto apprezzato da far conoscere Polanski il tutto il mondo, ancor più per la sua successiva capacità di trattare elegantemente qualsiasi tema.

    Le paure di Carol

    Carol (Catherine Deneuve) è un personaggio complesso: in prima istanza è solo una donna introversa, ma scopriremo nello scorrere degli eventi aspetti nascosti legati alla sua personalità. Anche la sua profonda sessuofobia (o androginia) è tutt’altro che incidentale:  sembra dovuta ad un vissuto che la condiziona profondamente, che tutti gli altri personaggi sottovaluteranno o prenderanno sottogamba. Di fatto, Polanski svela gli aspetti della personalità di Carol un pezzo alla volta: la frattura che avverte dentro di sè, nel frattempo, viene letteralmente rappresentata da crepe nei muri e nei pavimenti (che forse, in alcune fasi del film, la donna sta solo immaginando).

    Un film che è diventato emblema

    Se è vero che il linguaggio di Polanski sguazza nella critica – e nelle sue fantasiose o pindariche dissertazioni, è altrettanto vero che la struttura puramente da giallo è un modo per mantere la narrazione ben salda ed ancorata, con vari punti di contatto ad un altro film incentrato su una donna (depressa e traumatizzata anche in quel caso) come la protagonista di Io la conoscevo bene. Le conseguenze saranno diverse, sicuramente, ma la sostanza ed il feeling sembrano molto simili. Se questo film ha fornito un modello di riferimento per molteplici figure e lavori successivi, è impossibile non pensare anche a Madeleine / Frigga, l’anti-eroina muta e bendata raccontata da Bo Arne Vibenius, che è un po’ la figura mitologica, esacerbata tratta dal suo personaggio – tanto che potrebbe considerarsi un archetipo.

    Carol: perchè agisce in quel modo?

    Il personaggio di Carol sembra innocente, timida, insicura o introversa: di fatto, non diversa da una donna comune con cui lo spettatore è portato ad empatizzare. La seconda cosa che rileva, di fatto, è legata al suo profondo rapporto con la sorella, a cui sembra appoggiarsi con abbandono in caso di necessità. Sorella che, a partire dai capelli scuri, è molto diversa da lei: tant’è che frequenta un uomo sposato, esasperando una sorta di insano paragone con lei e, di conseguenza, esasperando il suo conflitto interiore. I dialoghi con la stessa sono sempre significativi: il tono monocorde, assente, evitante e sempre più inquietante di Carol suggeriscono ulteriori indizi per la ricostruzione della sua personalità. Il senso del paradosso indotto dalla sceneggiatura è molteplice, e si esplica soprattutto nel fatto che, nonostante tutto, lo spettatore simpatizza comunque con la protagonista, nonostante l’efferatezza del suo comportamento e la sua chiusura aprioristica al mondo maschile.

    È anche significativo che il personaggio forse più irritante del film (Michael), con i suoi modi burberi e sgradevoli nei confronti delle donne, sia anche l’unico a dire una cosa involontariamente saggia (cioè che Carol dovrebbe vedere un dottore). Che cosa renda pensierosa e incomprensibile Carol, del resto, non è chiaro: sembra vivere nel passato, come visibile dal fatto che guarda in modo interrogativo varie foto di famiglia. Il suo evidente fastidio nel sentire i rumori di più amplessi, nella stanza a fianco, tende ad amplificare il conflitto con la sorella maggiore. Ad un certo punto, Carol fa anche sparire alcuni oggetti personali di Michael, quasi a volersi disfare simbolicamente di lui. Il suo primo appuntamento con Colin, accettato tra mille indecisioni, finisce con un disastro: dopo il primo bacio non può fare altro se non correre via a lavarsi i denti.

    Diventa sempre più evidente la presenza di un uomo (o più di uno, forse) che l’abbiano traumatizzata in passato, e Polaski continua inesorabile il suo racconto con una camera gelida, spesso grandangolare o distorta, quasi fosse il racconto distaccato di uno psichiatra. Sullo sfondo, vediamo un coniglio in putrefazione che svolge il medesimo ruolo del cadavere in Der Todesking: è la personalità di Carol che marcisce, giorno dopo giorno, in un oceano di incomprensione da e verso il mondo esterno.  A completare il dramma, Helen parte per un viaggio a Pisa con il suo uomo, lasciandola sola coi suoi tormenti e, poco dopo, con delle orribili allucinazioni. A questo punto, Polanski vira sul linguaggio del thriller per rappresentare meglio lo stato d’animo della protagonista. E mai scelta avrebbe potuto essere più adeguata: Carol, da donna avvenente quanto riservata, inizia ad essere convinta di aver visto un uomo minaccioso in casa sua, il villain dei suoi incubi sessuofobici. I tormenti interiori della protagonista diventano sempre più allucinati e spaventosi, fino a farle perdere il posto di lavoro.

    L’incubo ripetuto dello stupro – con una figura oscura al suo cardine, a cui sembrano mancare solo occhiali scuri, guanti, impermeabile e cappello nero – è accompagnato dal macabro ticchettìo di un orologio, ed è intensa e rapidissima, interrotta regolarmente dal suono di un telefono. Sembra di trovarsi in una sequenza alla Dario Argento: sempre più cupa e assente, Carol è destinata a trasformarsi in un killer, primariamente contro chi ama o vorrebbe possederla. Il primo omicidio, ad esempio, è strutturato in maniera magistrale: il suo innamorato si è introdotto sfondando la porta di casa, visto che non riusciva più sentirla. La porta rimane aperta, ed il vicino di casa (uscito in quel preciso istante) osserva la scena, in secondo piano. Non appena Colin la richiude per una maggiore privacy, Carol (con un candelabro in mano, già dall’inizio) lo colpisce ripetutamente: un omicidio calcolato quanto hitchcockiano, oserei scrivere, che delinea la follia androgina in cui è precipitata. C’è anche spazio per una rapida componente horror, che vediamo nella sequenza (anch’essa magistrale) in cui Carol si aggira nel corridoio, fuori di sè, con le mani di vari uomini che fuoriescono dal muro.

    Spiegazione del finale

    Diversamente dalla tradizione di Hitchcock e di altri registi che, classicamente, alla fine fornivano una spiegazione razionale agli eventi, Polanski si limita ad inquadrare una vecchia fotografia di Carol da ragazzina, algida come sempre e altrettanto spaventata, assieme ad un anziano familiare (che potrebbe essere il padre, lo zio o il nonno). È chiaro che, neanche troppo velatamente, il regista voglia alludere ad un caso di molestie da parte dell’uomo, probabilmente mai venute a galla, che hanno sedimentato per anni dentro di lei. Questa è l’interpretazione che sembra più plausibile, e che certa critica ha rilevato come sostanziale difetto (ma una spiegazione esplicita avrebbe anche rischiato di risultare inutilmente didascalica).

    La suggestione è ciò che conta, il dubbio rimane ed il finale, in cui si chiude il cerchio, molte domande restano senza risposta.

  • La moglie dell’astronauta: la fantascienza che riuscì solo in parte

    La moglie dell’astronauta: la fantascienza che riuscì solo in parte

    Una coppia di astronauti esperti subisce, durante una missione in orbita, quella che sembrerebbe una tempesta magnetica, attraversando due minuti in cui perde i contatti con la Terra: rientrano a casa, e nessuno dei due sembra aver voglia di raccontare cosa sia accaduto. Quale mistero si nasconde in quei due, interminabili minuti di oscurità?

    In breve. Modesto b-movie che riesce solo a metà: presupposti inquietanti, buon ritmo dall’inizio ma il film si perde, passo dopo passo, nel “già visto”, dissolvendosi come un biscotto economico nel latte bollente – e rivelandosi, purtroppo, poca cosa.

    La moglie dell’astronauta” fa parte di quella fantascienza di “basso livello”, dai tratti dichiaratamente b-movie – e con impianti/effetti visuali decisamente modesti, che cerca di fare leva sulle interpretazioni degli attori (l’impianto ricorda vagamente L’arrivo di Wang), genere da sempre contrapposto alla sci-fi più pretenziosa (il recente Interstellar). Da un film del genere ti aspetti un livello di cultismo che deriva da più fattori: la coppia di protagonisti (di solito Deep è una garanzia), il regista poco conosciuto, l’ambientazione nello spazio (almeno in parte), lo sviluppo imprevedibile della storia. Invece lo spettatore che riprenda questo film oggi, all’epoca strombazzatissimo, non potrà che restarne deluso: in effetti al botteghino fu un flop, e questo nonostante la presenza della Theron e di Deep, che ne escono pressappoco a testa alta, ma senza riuscire a convincere quasi nessuno.

    Se è vero che i presupposti del film non sono da poco, e che i primi 20 minuti serrati, brutali ed imprevedibili illudono lo spettatore di stare per assistere ad un masterpiece, il resto del film si dilegua in poco o nulla: e a niente serve la figura ambigua, e progressivamente tenebrosa, di Deep, da marito amorevole ad inquietante individuo capace di perseguitare la moglie-vittima, e minacciarla (senza un motivo troppo chiaro, peraltro). Motivo che poi, a metà film, inizia a diventare più nitido fino a svelarsi nella sua interezza: ma anche qui, la rivelazione è fiacca, e la sostanza della stessa rischia di fare quasi più sorridere che altro. Questo genere di difetti mette in secondo piano anche la mancanza di continuity di alcune sequenze, difetto trascurabile in un film del genere e che qui, invece, diventa determinante in negativo. Non è un caso, del resto, che buona parte di quanto mostrato – inclusa i suoi semplicistici concetti di “umanità allo sbando”, e di “altri mondi” ostili ed infidi – si possa prestare più ad una parodia modello South Park che altro.

    La Theron, di suo, emerge come figura iconica, donna-simbolo anche piuttosto credibile e ben interpretata, e questo per ciò che viene tirato in ballo nella storia (su tutto, la tematica dell’aborto ed il disprezzo della società “per bene” contro chi compie tale tragica, quanto spesso inevitabile, scelta): serve a lasciare un che di dignitoso al tutto, in un certo senso, ma non basta a salvare “The Astronaut’s Wife“, lavoro che zoppica lo stesso, passo dopo passo. Quello che non funziona in soldoni è proprio l’impianto generale della storia, troppo poveristica nel suo allestimento, troppo semplificata e scontata in certi passaggi e forse, credo, troppo poco legata al cinema di genere “che conta”, affidato ad un regista con troppa poca esperienza (nelle mani di John Carpenter, tanto per dire, lo stesso soggetto sarebbe forse diventato ben altro).

    Se non parlassimo di un film a mio avviso fiacco ( di un’occasione persa, in un certo senso), bisognerebbe spendere qualche parole sul finale della pellicola: un finale a sorpresa, se vogliamo, in cui il tema è quello dello sconosciuto che assume le sembianze di una persona amata, e diventa in grado di impadronirsi della sua vita, senza che la vittima possa accorgersene in alcun modo. Neanche malissimo come conclusione da fanta-horror, ma in giro c’è molto di meglio e, soprattutto, non ce n’è abbastanza per ridimensionare la fama non esaltante che La moglie dell’astronauta possiede. Esiste anche un finale alternativo, sul quale sorvolo perchè comunque non sembra cambiare troppo la sostanza.

    Rand Ravich, dal canto suo, dopo questo film ed un precedente corto non ha fatto più nulla in veste di regista (non a caso, verrebbe da pensare), dedicandosi invece a sceneggiatura e produzione. Se resta vero che molte critiche rivolte a “The Astronaut’s Wife” sono piuttosto gratuite, resta la considerazione realistica su un film che poteva dare molto di più, e che si appiattisce fotogramma dopo fotogramma fornendo solo tensione a sprazzi.

  • Godsend: clonazione e identità

    Godsend: clonazione e identità

    Si tratta di un film del 2004 diretto da Nick Hamm. Il film è un thriller psicologico con elementi di orrore e fantascienza. La trama ruota attorno a una coppia che perde il loro figlio in un incidente tragico e poi accetta l’offerta di un medico di clonare il figlio defunto. La storia esplora le conseguenze etiche e emotive di questa scelta, oltre a presentare elementi di suspense e mistero legati alla natura della clonazione e ai segreti del medico.

    Il cast del film includeva attori come Robert De Niro, Greg Kinnear e Rebecca Romijn. “Godsend” è stato accolto in modo misto dalla critica, con alcune lodi per le performance degli attori ma anche alcune critiche per la trama e la sua esecuzione.

    Nel complesso, “Godsend” affronta temi complessi attraverso un mix di elementi psicologici, thriller e orrore, concentrando l’attenzione su come le decisioni scientifiche e morali possano avere conseguenze inaspettate e profonde.

    Sinossi del film

    Il film inizia con la famiglia Duncan, composta da Paul (interpretato da Greg Kinnear) e Jessie (interpretata da Rebecca Romijn), che vivono felicemente con il loro figlio ottantenne, Adam (interpretato da Cameron Bright). Tuttavia, la loro vita viene sconvolta quando Adam muore in un tragico incidente. Devastati dal dolore, vengono avvicinati dal Dr. Richard Wells (interpretato da Robert De Niro), un esperto di clonazione umana. Il dottore offre loro l’opportunità di clonare Adam e dare così loro la possibilità di avere di nuovo il loro figlio.

    La coppia accetta l’offerta e Adam viene clonato con successo. Tuttavia, la situazione si complica quando la nuova versione di Adam, chiamata Ethan, inizia a mostrare comportamenti inquietanti e inspiegabili. La famiglia si rende conto che il processo di clonazione potrebbe avere effetti imprevisti sulla personalità e il comportamento del nuovo Adam.

    Paul e Jessie cercano di scoprire la verità dietro il programma di clonazione del dottor Wells, e scoprono che il dottore aveva già sperimentato la clonazione su altri bambini, con risultati altrettanto inquietanti. Man mano che la situazione peggiora, Paul e Jessie si sforzano di proteggere il loro nuovo figlio da ciò che potrebbe nascondersi dietro il suo comportamento inquietante.

    La trama si sviluppa in un crescendo di suspense mentre la famiglia cerca di affrontare i segreti scioccanti che circondano la clonazione e i rischi che hanno accettato di correre. Il film esplora le sfide etiche e morali legate alla clonazione umana e mette in discussione la natura dell’identità e dell’anima.

    Cast del film

    • Robert De Niro nel ruolo del Dr. Richard Wells
    • Greg Kinnear nel ruolo di Paul Duncan
    • Rebecca Romijn nel ruolo di Jessie Duncan
    • Cameron Bright nel ruolo di Adam Duncan / Ethan
    • Jenny Levine nel ruolo di Barbara Clark
    • Deborah Odell nel ruolo di Elaine
    • Henry Czerny nel ruolo del Prete
    • Jake Simons nel ruolo di Max Shaw
    • Miko Hughes nel ruolo di Jake Duncan

    Spiegazione del finale

    Nel finale di “Godsend”, Paul e Jessie scoprono che il dottor Wells aveva clonato numerosi bambini in passato, cercando di creare una mente geniale ma con risultati disturbanti. I bambini clonati manifestavano comportamenti instabili a causa del tentativo di condizionamento del dottor Wells.

    Paul e Jessie cercano di liberare Ethan dall’influenza del dottor Wells. Nel culmine, affrontano il dottore nel suo laboratorio e una lotta fisica ne risulta. Durante la lotta, Paul accidentalmente uccide il dottor Wells. Rendendosi conto dell’orrore degli esperimenti del dottore, Paul e Jessie decidono di distruggere tutte le prove dell’esperimento bruciando l’istituto di ricerca.

    Nel finale, la famiglia cerca di ricostruire la loro vita lontano dall’orrore della clonazione e delle manipolazioni genetiche. Sembra che stiano cercando di iniziare una nuova vita insieme, affrontando le sfide come una famiglia unita.

    Il film si conclude sulla nota di speranza mentre la famiglia si impegna a lasciarsi alle spalle gli orrori del passato e a guardare verso il futuro.

  • Quando Alice ruppe lo specchio: la black comedy a tinte splatter targata Fulci

    Quando Alice ruppe lo specchio: la black comedy a tinte splatter targata Fulci

    La macabra storia di una “vedova nera” al maschile, amante della buona cucina e del gioco d’azzardo, che adesca vedove e ruba loro il denaro dopo averle uccise e divorate. Nonostante l’uomo non lasci apparentemente tracce dei suoi crimini, la polizia sembra sulla sua strada…

    In breve. Un titolo dal nome suggestivo che riassembla lo stesso genere che aveva portato Fulci alla gloria negli anni precedenti, ovvero il thriller-gore a tinte oscure. Seppur con una discreta trama ed una dinamica coinvolgente in ballo (qualche momento umoristico è davvero sopra le righe), il film non riesce a convincere del tutto. Impressionante e crudissimo lo splatter da macelleria, visibile fin dalle prime scene, che lo rende molto distante dalle black-comedy garbate ed edulcorate a cui potremmo essere abituati.

    Si sono sprecate in questi anni le considerazioni su Fulci “terrorista dei generi“, ma secondo me pochi sanno (dato che questo film è poco discusso, a quanto leggo) che lo stravolgimento pioneristico dei generi venne effettuato anche sul suo stesso amatissimo horror-thriller. In effetti “Quando Alice ruppe lo specchio” visto oggi sembra un esperimento di fattura molto artigianale, tanto che paradossalmente (e senza nulla togliere) arriva a ricordare l’opera prima di una new entry horror.

    Sebbene l’idea di fondo non sia affatto male, il film si sviluppa con modalità non del tutto convincenti, a cominciare dalla caratterizzazione del protagonista Lester Parson a finire su uno stonato contrasto tra le premesse simil-parodiche e le lugubri conseguenze successive. Nonostante Brett Halsey abbia interpretato un discreto cannibale dalla duplice personalità, inoltre, trovo che la sua concretizzazione sia stata per l’appunto troppo oscillante tra due estremi, risultando così semplicemente ingarbugliata. E non credo neanche che sia questione di aver dovuto interpretare un duplice ruolo in voluto contrasto: mi pare invece che la sua doppiezza risulti alquanto spiazzante per lo spettatore, così come l’alternarsi – senza preavviso – di scene divertenti con altre che toccano realmente lo stomaco. Probabilmente guardando il film per intero, fino al brutalissimo finale (senza mezzi termini e con un tocco di poesia fulciana forse neanche malaccio) si riesce ad intuirne perfettamente la natura: se si riesce ad accettarla bene, altrimenti…

    Se state pensando ad una riedizione nostrana di Henry, pioggia di sangue siete sulla cattiva strada: piuttosto distanti dalla migliore produzione del regista, una buona sintesi del film è esprimibile come una bizzarra media tra il gore casereccio e violento alla Joe D’Amato (o alla Buttgereit, se avete presente) ed uno humor nero piuttosto semplice e funzionale, dichiaratamente e consapevolmente trash. Questo complessivamente fa di “Quando Alice ruppe lo specchio” un discreto lavoro dell’ultimo Fulci, forse addirittura da rivalutare contestualizzando la “morìa di vacche” che, all’epoca, aveva fatto bandire horror e derivati dai generi più popolari per il pubblico (siamo pur sempre alla fine degli anni 80).

    Per evitare di generare fraintendimenti, è bene comunque tenere presente che si tratta di un lavoro molto essenziale e con pochi mezzi (per questo, e solo per questo, mi sono permesso di scomodare un raffronto con l’opera di un esordiente), caratterizzato dalla tipica scarsità di spessore di alcuni personaggi, che vengono buttati nella mischia alla meno peggio e senza alcuna premessa. Tuttavia, analizzando la vicenda produttiva che portò alla sua realizzazione (film commissionato dalla TV e mai mandato in onda: quanto si sarebbe incazzato il protagonista di Ubaldo Terzani Horror Show…), e tenendo anche conto che si tratta di un lavoro anti-televisivo al massimo, sono piuttosto convinto che la Troma di Kaufman sarebbe stata orgogliosa di produrreQuando Alice ruppe lo specchio“: questa, dunque, è forse la recensione più efficace che si possa proporre per questo lavoro dimenticato dai più.

    Tra gli interpreti, segnalo il bravo Al Cliver, che qualcuno dovrebbe ricordare tra i protagonisti del capolavoro Zombi 2. Piccola nota sulla locandina AvoFilm: essa riporta il protagonista con un coltello insanguinato (e ci sta), una bella figliola (che manca) ed un morto vivente (che non esiste proprio). Così, tanto per mandarci fuori strada: è suggestivo pensare al buon Fulci ridere di quelli che si aspettavano vedove sexy e formose da film di Rocco Siffredi (sono tutte piuttosto brutte, quelle di “Quando Alice…“, e qualcuna ha pure barba e baffi!), mentre non possiamo fare a meno di constatare come fosse definitivamente – o quasi – tramontato il tempo dei morti viventi nei corridoi di un ospedale. Provocazioni contro il suo stesso pubblico o contro la soffocante produzione “volemose-bbene“?

    Alla fine chi se ne importa: abbasso l’apparenza, Lucio Fulci vive.

  • Autostop rosso sangue è quasi “Cani arrabbiati” 2

    Autostop rosso sangue è quasi “Cani arrabbiati” 2

    Autostop rosso sangue percorre le spinose vie del cosiddetto “rape ‘n revenge” attraverso i suoi tipici temi improntati su cinismo e claustrofobia, avvalendosi di interpretazioni piuttosto all’altezza. In più, la conclusione della storia suggerisce un doppio finale davvero incredibile, che – come tradizione del genere a volte impone – finisce per ribaltare i ruoli dei vari protagonisti.

     In breve: una buona chicca nel panorama di genere all’italiana. Propone situazioni claustrofobiche e “stradaiole”, spesso molto crudeli ed esplicite. Piacerà ai fan di “Cani arrabbiati” di Mario Bava.

    Film crudele, dichiaratamente anti-eroico e manifesto dell’insensata cattiveria umana: narra la storia di una coppia di coniugi in crisi (Walter ed Eva, interpretati da Franco Nero e da Corinne Cléry), che cercano invano di risolvere i propri problemi durante un viaggio (vedi anche Vacancy). In giro con la propria roulotte, incrociano un autostoppista che, neanche a dirlo, non è altri che Adam Konitz (il David Hess de “La casa sperduta nel parco” e del cult “L’ultima casa a sinistra”). Quest’ultimo si spaccia per un commesso viaggiatore con l’auto in panne, mentre in realtà è un rapinatore che si porta dietro una valigia piena di dollari dopo aver miseramente tradito i propri compagni. Come se non bastasse, i reduci traditi sono già sulle tracce del criminale, e tutti giocheranno con la coppia come dei veri e propri burattinai.

    Il richiamo a “Cani arrabbiati” ci sta tutto, e chi conosce meno l’underground potrebbe pensare a “Duel” come termini di confronto: Campanile, nella sua unica incursione nel mondo del terrore (normalmente dirigeva commedie tipo “Adulterio all’italiana“) rappresenta come detestabili le caratteristiche più grette dell’uomo – ma anche della donna, a partire dal semi-alcolizzato e vagamente maniacale marito a finire al criminale in incognito, senza dimenticare l’imprevedibile Eva: rappresentata come una bambola senza cervello per tre quarti di film, paradossalmente determinante nell’uccidere il criminale dopo averlo sedotto.

    Walter è invece litigioso, egoista e quasi ubriaco: incapace di difendere se stesso, viene colpito nella sua debolezza più grande (il rapporto con la moglie) e costretto, in una scena pesantissima e lacerante, ad assistere addirittura al suo stupro. L’idea di avere a che fare con un film macho, nel quale la donna è un oggetto e le soluzioni devono trovarle gli uomini, sembra quindi perfettamente fondata fino all’agghiacciante – e stra-discussa – scena dello stupro, che contiene un ribaltamente assolutamente insperato ed insospettabile, e che stravolge radicalmente il senso della stessa. Grande importanza, poi, ha il rapporto tra i due, sulle cui incomprensioni si basa la brutalità di moltissime scene violente, che altrimenti passerebbero quasi indifferenti alla maggioranza del pubblico. In particolare, segnalo il dualismo tra l’atteggiamento rinunciatario delle vittime (vedi anche Funny Games) ed una sorta di masochistico compiacimento per la situazione (una caratteristica per la quale le accuse di sessismo alla sceneggiatura furono quasi automatiche). Del resto a Campanile piacque giocare coi doppi finali alla Dario Argento, e riserva una chicca finale che, a quanto pare, venne rimossa da alcune versioni del film perchè troppo anti-hollywoodiana. Forse non un capolavoro, ma certamente da tenere in considerazione per la propria videoteca di genere.